L'intervista: È un Ruggero Cazzaniga a tutto campo - Parla il presidente della Commissione Strada-Pista FCI
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È difficile trovare nell'ambiente qualcuno che parli male di Ruggero Cazzaniga, presidente della Commissione Strada-Pista della FCI: promosso dai principali comitati regionali grazie alla sua sterminata esperienza, da due anni sta cercando di dare un volto nuovo e più moderno al ciclismo italiano, specie a quello giovanile. Tra alti e bassi, problemi vecchi e nuovi, una lunga chiacchierata su come il dirigente lombardo sta cercando di adempiere ai doveri del suo ruolo.
Cominciamo parlando del tuo background. Quali incarichi hai ricoperto prima di diventare presidente della Commissione Strada-Pista?
«Beh, tanti. Intanto ho cominciato come direttore sportivo di formazioni juniores, ruolo che ho ricoperto per sette anni, tuttora ho il patentino di terzo livello. Venticinque anni fa ho cominciato a ricoprire ruoli tecnici nel comitato lombardo, per quanto riguarda la categoria Under 23. Poi sono stato presidente della struttura tecnica lombarda, componente della struttura tecnica nazionale e di quella dei professionisti, prima di diventare presidente della struttura tecnica strada-pista».
Quale percorso ha portato alla tua nomina?
«C'era la volontà da parte delle regioni forti di nominare una persona capace e preparata. Ovviamente il comitato lombardo ha avuto un ruolo importante, ma anche quello toscano. Quando c'è stata una convergenza sul mio nome, il presidente della federazione mi ha fatto questa proposta ed io sono stato onorato di accettare».
Da presidente della Commissione quali obbiettivi ti sei posto, all'inizio?
«Innanzitutto, far tornare l'istituzione un riferimento al servizio delle società, in particolar modo dell'attività di base, mirando all'evoluzione e avendo come obbiettivo finale il risultato agonistico, mondiale o olimpico. Un altro punto al quale tengo molto è la tutela dell'atleta, per una crescita finalizzata non solo alle vittorie in determinate categorie ma soprattutto alla soddisfazione professionale e allo sbocco professionistico».
A quasi due anni dal tuo insediamento, a che punto siamo con la realizzazione di questi obbiettivi?
«Questo non spetta a me dirlo, saranno poi società, comitati federali e regionali a dirlo esattamente. Io credo che i messaggi che stanno arrivando, quali il riordino dell'attività federale, la riqualificazione dell'atleta, l'educazione sportiva ed etica, siano segnali di crescita. Mi fa piacere che venga percepito che la federazione s'interessa dei problemi di società e atleti. Ci accusavano di concedere troppe deroghe, io sto cercando, con tanta fatica, di creare una linea uguale per tutti, o comunque usare un metodo democratico per le scelte ed informare tutti, non solo pochi. Qualcuno che non sarà d'accordo ci sarà sempre, ma se è vero che il movimento va modificato, questo è un passaggio obbligatorio».
Apriamo la parentesi Continental: cosa lascia di positivo quest'annata di sperimentazione?
«Adesso c'è la cognizione di un modo di fare ciclismo diverso, di affrontare l'attività agonistica, confrontandosi a livello internazionale e professionistico con una coscienza diversa dell'atleta, ossia non come portatore di vittorie ma come oggetto di crescita. Per un ragazzo di 19-20 anni capire cos'è una corsa professionistica è difficile, però comincia ad avere un confronto che in squadre strutturate solo per vincere non avrebbe. Passando attraverso la Continental abbiamo, e qui esagero, mediamente, un accordo di massima tra la società e l'atleta, e la federazione tramite la fidejussione migliora la tutela dell'atleta. Cosa che non può essere garantita con le squadre dilettantistiche e nemmeno con alcune professionistiche. Nel 2015 avremo un numero comunque importante di formazioni (saranno cinque: rispetto all'anno scorso, entra nel novero il GM Cycling Team ed escono Marchiol e Nankang-Fondriest, che correranno con affiliazione estera, n.d.r.), perché sia ben chiaro, non ne potremmo avere trenta, ma non ne vogliamo neanche dieci».
Cosa invece non è andato bene?
«Poche cose: non c'era un sufficiente numero di atleti qualificato, forse, però va detto che le società quest'anno han capito e stanno cercando un miglioramento da questo punto di vista, anche perché rispetto all'anno scorso più atleti vogliono provare l'esperienza della Continental, dove la corsa internazionale nella quale prendi sette minuti e mezzo dal primo diventa più importante della corsa regionale. Certo, sono poche e son state osteggiate, qualcuno ha avuto qualche difficoltà, però sentire i ragazzi che vogliono andare alle Continental per provare un'esperienza diversa è una soddisfazione. Altri invece non ci andranno mai, ma non importa, l'importante è che passi il messaggio che ci sono modi diversi di fare ciclismo».
Di quanto dovrebbe essere, all'incirca, il budget ideale per una squadra dilettantistica di medio livello? Quale invece per una Continental?
«Ovviamente a livello dilettantistico possono esserci variegate realtà. Ci sono squadre che vivono con meno di 100mila euro, e Continental che fanno attività con 250mila euro. Ma molto dipende dalla definizione che si dà di attività, di mezzi, di compenso, eccetera: nella realtà c'è molta confusione. Si può arrivare a budget di più di 300mila euro per squadre dilettantistiche e di 400mila per le Continental. La differenza, a livello di spesa, la fa il fatto che le Continental sono obbligate a dichiarare gli impegni di spesa e gli sponsor, e questo ci permette di far rispettare gli accordi, mentre a livello dilettantistico quando salta lo sponsor spesso non possiamo far nulla. Purtroppo qualcuno non è interessato a divulgare alcuni dati, e mi fermo qua».
Le principali novità regolamentari di quest'anno sono l'aumento della fidejussione a 40mila Euro e l'introduzione di requisiti in termini di punteggio di valorizzazione per l'ingaggio. Sono modifiche che ci piacciono molto, specie l'ultima che avevamo già proposto l'anno scorso per quanto riguarda le matricole.
«L'aumento della fidejussione ci permette una maggiore tutela degli atleti. Per quanto riguarda la seconda modifica, una delle critiche mosse è stata che sono stati inseriti troppi atleti a zero punti per mille motivi, e così abbiamo dato una valutazione dal punto di vista tecnico. Magari non sono sufficienti per qualificare un'atleta, ma d'altronde l'atleta deve poter crescere: deve però dimostrare di avere un qualche minimo requisito tecnico. Gli juniores che dunque quest'anno correranno nelle Continental han fatto almeno dieci punti. Per quanto riguarda gli Under 23 e gli Élite, non ce la siamo sentita di escludere quelli che già quest'anno correvano nelle Continental, i nuovi arrivi dovranno essere un tantino più qualificati».
Dal regolamento si evince anche l'apertura a team satellite di squadre World Tour. Questa cosa non si realizzerà, almeno quest'anno. Cosa è andato storto?
«Quest'opportunità era nata perchè c'erano alcuni addetti ai lavori in contatto con team stranieri che risiedono stabilmente ed hanno attività in Italia. Purtroppo nessuno è riuscito a pervenire ad un accordo, forse non si sono intesi bene, però si sta lavorando ancora: questa richiesta nasce anche un po' in ritardo, e visto anche ciò che è successo con l'Mg.Kvis, sponsor passato da una società all'altra perchè la società di provenienza era già ben strutturata, può essere che diventino anche più attrattive».
Forconi ha definito i ragazzi che vanno a correre in Zalf e Colpack dei "mammoni" che preferiscono essere coccolati piuttosto che mettersi in gioco all'estero. È così? Perché queste formazioni osteggiano la categoria Continental?
«Andare alla società che sembra la più forte ti dà garanzia maggiore, ti propongono dei passaggi sicuri, è una cosa consolidata, ma ciò porta anche ad un impoverimento del movimento, perché società così forti hanno fagocitato tutto il resto negli ultimi anni. Che ciò sia positivo o negativo non spetta a me definirlo, certo queste 3-4 società han fatto il bello ed il cattivo tempo e le altre società han pagato gli interessi di poche persone».
Proviamo a guardare la questione da un altro punto di vista. Prendiamo la Francia: anche lì ci sono delle squadre dilettantistiche molto forti, ma non possono andare a correre tutte le gare che ci sono perché ce ne sono in abbondanza e ben distribuite sul territorio. Da noi ogni spesso e volentieri ci sono weekend con quattro gare dove non si corre fuori da Lombardia, Veneto e Toscana. Logico che se gli squadroni concentrano il loro impegno su di esse fanno man bassa. Non sarà l'assenza di gare e atleti fuori dalle regioni-chiave il vero problema?
«Non direi che mancano le gare, in proporzione al numero degli atleti che sono all'incirca 400. Certo, ci sono attualmente poche gare internazionali. Il grande errore, secondo me, è che squadre strutturate per ciclismo di vertice si accontentano a fare attività di base. È inutile comprare una Ferrari per correre nelle strade del mio paese. Invece queste squadre, quando ci sono i confronti veri, spesso non si presentano o non sono interessate. Poi pretendono di avere atleti che si confrontino con la nazionale in eventi importanti. Sono comunque dell'opinione che ci debbano essere massimo 1-2 gare nazionali e una internazionale a weekend in Italia, altrimenti i numeri di partecipazione diventano abbastanza ridotti».
È un problema che parte dalle categorie inferiori. Mi viene in mente Alessandro Monaco, allievo tarantino che per continuare a fare attività di un certo livello dovrà lasciare la Puglia. Ma è un problema che parte da lontano anche nel tempo: prima c'erano tante gare anche al Sud. Quando il nostro ciclismo ha cominciato a ritirarsi, e perché?
«A cavallo tra gli anni '90 ed il 2010. Hanno influito la grande specializzazione, il doping, il fatto che poche squadre concentravano con loro tanti atleti, i costi per costruire una squadra dilettantistica. Negli anni '80 meccanici e aziende produttrici fornivano materiali gratuitamente in forma promozionale, adesso è veramente difficile che ciò avvenga. Oggi una bicicletta di un allievo può costare 5000 Euro, avere dieci ragazzini rende già alte le spese. Per sacrosante questioni di sicurezza sono aumentati anche i costi per organizzare una gara di esordienti, oggi ci vogliono almeno 3000-3500 Euro e così ci sarebbe un montepremi di appena 100 Euro. Poi c'è stato anche un impoverimento dei dirigenti. Ce ne sono stati alcuni che hanno proibito e boicottato inserimenti di gente nuova. Infine, l'ultima crisi economica, ed il fatto che non abbiamo saputo vendere il prodotto ciclismo, ma lo proponiamo ancora solo come una gara ciclistica. Se ad una gara partono quaranta ragazzini, qualsiasi sindaco si lamenterebbe perché gli blocchiamo il paese per far correre quaranta bambini. Stiamo lavorando anche dal punto di vista della creazione dell'evento: due o tre gare in un giorno, che costerebbero all'organizzatore solo 200-300 euro in più visto che si ridurrebbero le spese di allestimento».
Lo stato dei team dilettantistici. Quali sono i maggiori problemi che fronteggiano? Per quali si rivolgono a voi?
«Il problema più importante è che ognuno pensa ai fatti suoi, mediamente. Poi c'è qualcuno finalmente che comincia a dialogare. Dobbiamo capire che con questo atteggiamento non ne usciamo fuori. È inutile porre i problemi sulla strada, e non nel momento opportuno nelle sedi opportune. Mediamente hanno problemi con gli sponsor, problemi col doping, solo per i fatti loro: vengono all'istituzione solo quando si trovano con l'acqua alla gola. E poi c'è una certa ignoranza diffusa sui regolamenti, e poca voglia di andarli a leggere».
È vero che vi arrivano diverse trasgressioni di violazioni del regolamento nel trasferimento atleti?
«Molte. Alcune, via. Solo quelle eclatanti però arrivano a livello federale, molte vengono dipanate a livello regionale. Si parte dalla categoria degli esordienti per arrivare a giungere a quella degli Under e degli Élite. Degli Élite un po' meno, perché mediamente sono gli atleti stessi a venire a denunciare di non aver percepito dei compensi e risolvono la questione. Ci sono contratti in giro che sono assurdi, dove non vengono rispettati i requisiti ma vengono formalizzati accord personali tra le parti. Per quelli dei quali siamo venuti a conoscienza stiamo mettendo mano per far sì che ci sia una logica di tutela per gli atleti, ma anche per la società».
Dei casi di cui siete a conoscienza, qual è il più assurdo o esemplare?
«Ritorsioni economiche e durata dei contratti, sono le situazioni più eclatanti. Le società alle volte formalizzano clausole rescissorie che non hanno senso di esistere».
Vi arrivano mai segnalazioni di corridori ai quali viene chiesto di pagare per correre?
«Poche. Purtroppo solo per sentito dire. Nella realtà c'è il sindacato degli atleti che dovrebbe occuparsi di queste cose. Di solito arrivano in forma di proteste, ma sono sempre velate: se non c'è un documento, noi non possiamo agire per vie legali. Capita che un ragazzo confessi al ds di un'altra squadra che non lo stanno pagando, e quando lo interpelliamo noi, chiedendogli carte, magari tentenna e ci dice che gli han fatto firmare un pezzo di carta nel quale si dice che è stato pagato. Come facciamo noi, in questo caso, ad intervenire? Sappiamo tutti che il problema esiste, e che certi ragazzi pur di gareggiare accettano queste condizioni».
Dunque non si riesce proprio a trovare un deterrente per questo fenomeno.
«Il deterrente è quello di comunicare, di formare, di ascoltare, di far capire che se accettano queste condizioni non possono andare in giro a raccontare fesserie. Un atleta deve aver anche la dignità e un minimo d'intelligenza per non accettare ciò che alcune società propongono, inventandosi passaggi o storie future. Se tu accetti condizioni impossibili da rispettare, rischi anche che la società a un certo punto possa rivalersi su te atleta. L'istituzione può intervenire solo se c'è un fatto documentato, e allora interveniamo. Possiamo arrivare a questo solo informando gli atleti».
Secondo te, quali possono essere due o tre atleti del nostro vivaio che ci daranno soddisfazioni nel 2015?
«Non rispondo a questa domanda, va rivolta ai tecnici. E poi non dobbiamo caricare questi ragazzi di responsabilità. Intanto bisogerebbe sapere come si stanno allenando, con che programmi correrranno: magari durante la stagione vi posso dire, perché la situazione dell'attività del 2015 a quel punto è definita. Io spero che gli atleti che sono stati polivalenti prima degli Under 23 possano dimostrare qualcosa e che dagli altri arrivino delle conferme. Certamente l'atleta che dà soddisfazioni per me è quello che sboccia, non quello che vince di più. Prendi Aru, ad esempio: ho avuto modo di conoscerlo a livello personale in un contesto sportivo e mi dà molta fiducia. Poi se volete, dico due o tre nomi. Però adesso, dire che farà bene Plebani, piuttosto che Begnoni o Moscon, è un po' anacronistico: bisogna vedere come lavorano durante l'inverno, se non hanno avuto problemi. Questa è la mia filosofia».




