DéTour 2014: Quando la Boucle rincronava il ciclismo - L'esagerazione delle prove contro il tempo, un incubo del passato
Versione stampabileBergerac, Périgueux, Périgueux, Bergerac... Sarà un caso ma le due località sede della penultima tappa del Tour sono legate a doppio filo con le cronometro. Oggi si disputa infatti la terza prova contro il tempo tra le cittadine aquitane, e scartabellando tra gli archivi emerge che i precedenti sono di grande spessore: nel 1961 il verso della prova era identico a oggi, ma la crono si sviluppò lungo 74 km, al termine dei quali s'impose un certo Jacques Anquetil, che diede quasi 3' a Charly Gaul e oltre 3'30" a Guido Carlesi (l'italiano riuscì comunque a difendere il secondo posto della generale dall'assalto del lussemburghese; Jacquot invece vinse la Boucle).
Esattamente 20 anni fa, invece, la partenza era a Périgueux e l'arrivo a Bergerac, e a vincere (in una prova di 64 km) fu, guarda un po', Miguel Indurain, al termine di una crono mostruosa: ben due minuti gli permisero infatti di precedere il grande rivale di quegli anni Tony Rominger (che poi si ritirò un paio di giorni dopo, verso Hautacam); alle spalle dei due, un abisso, 4'22" pagò il terzo, Armand De Las Cuevas. Il Tour lo vinse Miguelón con minuti su Piotr Ugrumov e Marco Pantani, ma qui vogliamo approfondire un'altra questione, e cioè il senso, la disposizione e l'incidenza delle cronometro nel corso degli anni (e dei Tour).
Christian Prudhomme, attuale direttore della corsa francese, ha impresso un visibile cambio di orientamento al disegno dei tracciati di una gara che in precedenza era appena, appena un po' sbilanciata in favore delle lancette. Solo una prova contro il tempo, quest'anno, e che per di più risulterà ininfluente per stabilire chi vincerà il Tour, che avrà misurato nel suo complesso appena 54 km a cronometro: quelli di oggi. Ai tempi di Armstrong i chilometri contro il tempo (in prove individuali o a squadre) non erano in genere mai meno di un centinaio; negli anni di Indurain si arrivava a sfiorare i 200 km "contre-la-montre"; negli incredibili anni di Hinault le cronometro erano una vera esagerazione: nel 1979 furono addirittura 7 (sette!), di cui 5 individuali (comprese due con arrivo in salita) e 2 a squadre, per un totale di quasi 350 km, e in tutto il periodo tra metà anni '70 e metà anni '80 lo standard era questo.
Qual è stato il portato una simile sperequazione in favore delle cronometro? Ai tempi di Coppi c'erano prove contro il tempo lunghissime, anche di 150 km (o poco meno), ma in quell'epoca le strade di montagna permettevano una selezione che successivamente (con l'arrivo dell'asfalto e col miglioramento tecnologico delle bici) divenne impensabile. L'equilibrio persistente pur in presenza di cronometro-monstre è stato successivamente denegato, e proprio negli anni '80 si impose il concetto secondo cui non si poteva vincere un grande giro (o perlomeno un Tour) se non si era fortissimi a cronometro.
Ciò ha portato all'esaltazione di una certa tipologia di corridore, ma anche (duole dirlo ma è così) di una certa tipologia di lavoro dietro le quinte, di preparazione, di "abarthizzazione" (per usare un termine caro a un vecchio amico) dei motori. Per anni si è cercato di condurre i corridori più talentuosi verso una semispecializzazione nelle cronometro, e ciò ha fortemente impoverito lo scenario, perché molti ciclisti nati scalatori si sono ritrovati snaturati a causa di prolungati lavori sulla potenza, sulla variazione di muscolature, su alchimie di preparatori che portavano magari sì a migliorare di un minuto i tempi nelle crono, ma a costo di perdere lo spunto vincente in salita.
Quanti danni ha fatto il Tour cronocentrico, quanto spettacolo ha mangiato al ciclismo degli ultimi 25 anni. Ha fatto emergere motori che reagivano meglio al "riassetto delle cilindrate", molti dei quali magari partivano da una posizione di talento inferiore (e quindi da uno stato più plasmabile) rispetto a corridori che invece si sono trovati nella difficoltà di doversi riconvertire del tutto, e hanno così pagato uno scotto carissimo. Quanti scalatori puri hanno vinto il Tour de France nell'ultimo quarto di secolo? Forse un paio, compreso un corridore stratosferico come Marco Pantani (che fa quindi categoria a sé).
La consolazione è che questo approccio pare almeno per il momento messo in soffitta. Se nel periodo della bulimia cronometrica c'era la giustificazione di un corridore francese che dominava contro il tempo (Hinault) e alle cui doti quindi il Tour strizzava l'occhio (mentre successivamente fu la totale mediocrità del patron Jean-Marie Leblanc a lasciare che la Grande Boucle si fossilizzasse su un certo tipo di disegno standard), oggi le cose sono profondamente cambiate: intanto il nuovo numero uno Prudhomme, come detto, è portatore di una ventata di freschezza quantomai salutare, a livello di tracciati; e poi la generazione di nuovi corridori francesi è orientata alle montagne, i vari Pinot, Bardet, Rolland, Barguil, Elissonde e via dicendo sono tutti scalatori. È quindi plausibile pensare che anche nei prossimi anni i percorsi della Boucle avranno un occhio di riguardo per le tappe in salita, piuttosto che per quelle contro il tempo. Ci dispiace? Assolutamente no!