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Giro d'Italia 2012: Il volo radente del CanadAir - Ryder Hesjedal vince un Giro che non resterà certo negli annali | Cicloweb

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Giro d'Italia 2012: Il volo radente del CanadAir - Ryder Hesjedal vince un Giro che non resterà certo negli annali

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Ryder Hesjedal, il bastone da hockey su ghiaccio, la bandiera con la foglia d'acero: O Canada! © Bettiniphoto

Beh, non era proprio l'ultima cosa che avremmo pensato di commentare, in sede di bilancio del Giro d'Italia 2012, ma certo era lontana dai pensieri che più frequentemente hanno animato le nostre tre settimane di corsa rosa. "Ryder Hesjedal vince il Giro d'Italia" è un titolo che non credevamo che avremmo mai fatto, e invece eccoci qui a commentare il successo del canadese, primo di sempre a vestirsi di rosa, in una corsa che offre lo spunto per tanti rimandi storici, e che a suo modo pullula di piccoli e grandi record.

Uno riguarda il podio: tre stranieri ai primi tre posti, roba che non si vedeva dal 1995 (Rominger-Berzin-Ugrumov) e che anche in precedenza non era poi stata tanto frequente: 1972 (Merckx-Fuente-Galdós), 1987 (Roche-Millar-Breukink), 1988 (Hampsten-Breukink-Zimmermann), stop.

Un altro riguarda il cambio di maglia rosa all'ultima tappa: unico precedente, Moser-Fignon del 1984. E che dire di un belga sul podio di un grande giro? Anche qui riandiamo al 1995 (Bruyneel-Vuelta), mentre per ritrovarne uno sullo specifico podio del Giro dobbiamo risalire un'era geologica per arrivare al 1978 di De Muynck (che peraltro vinse): per De Gendt un'impresa che gli rovinerà minimo 2-3 anni di carriera, visto che sarà il prossimo uomo del ciclismo internazionale schiacciato dalla pressione dei tifosi (naturalmente scherziamo e gli auguriamo invece ogni bene).

La tappa più veloce della storia del Giro, poi, la San Vito di Cadore-Vedelago: 49,428 km/h per la vittoria di Andrea Guardini, un bel primato per il giovane velocista veneto che ha dato un senso alla propria partecipazione proprio con quella strepitosa affermazione ottenuta davanti al Campione del Mondo.

Curiosità anche divertenti che però servono a coprire (molto) parzialmente il vuoto lasciato da uno spettacolo che ha proprio latitato. Già, sotto questo profilo il Giro, spiace dirlo (visto che amiamo in maniera viscerale la corsa rosa), ma è stato un mezzo disastro. Sin dalla partenza in Danimarca, con ventagli attesi ma che non hanno mai preso forma; proseguendo con le frazioni mosse della dorsale adriatica (a Fano si finisce allo sprint, a Porto Sant'Elpidio nessuno fa niente), passando attraverso l'unico lampo "da classifica", a Lago Laceno, con la prima bella e sostanziosa impresa della gara. La prima delle due, s'intende.

Attraverso una serie interminabile di frazioni interlocutorie (ad Assisi la corsa si è accesa solo sull'ultima rampa; a Sestri Levante un'altra giornata da fughe è stata sprecata dai big; a Cervinia abbiamo preso atto di un nulla di fatto, e solo a Piani dei Resinelli c'è stato qualche piccolo sommovimento in classifica), siamo giunti infine al trittico più atteso, Cortina-Pampeago-Stelvio, con la fastidiosa convinzione che anche nei tre tapponi non sarebbe successo chissacché.

A Cortina abbiamo preso atto della cotta di Kreuziger, notizia più importante della giornata, mentre tra gli uomini di classifica non s'è mosso niente. A Pampeago s'è visto un qualcosina in più, ma lo scontro a viso aperto è stato troppo tardivo, limitato ai 3 o 4 km conclusivi (tanto è comunque bastato perché Basso prendesse una sberla più psicologica che pratica). E a quel punto abbiamo anche capito che sarebbe stato molto, molto difficile che qualcuno dei nostri scalfisse il predominio di Rodríguez ed Hesjedal. A Pampeago, tra l'altro, proprio il canadese è entrato nei panni dello spauracchio, visto che ha resistito come in pochi avrebbero immaginato sulle dure pendenze previste nella tappa (e anzi, è stato anche più brillante di altri favoriti). Ma anche qui, il conto profitti/perdite della frazione si è risolto con un mezzo crack, dal punto di vista dello show, del pathos, della passione.

Fortunatamente sul Mortirolo Thomas De Gendt ha preso in mano la situazione e si è inventato un'azione che a un certo punto, sul successivo Stelvio, sembrava per lui addirittura foriera di una maglia rosa. Il momento più spettacolare del Giro, in pratica, laddove ce lo si sarebbe potuto attendere (l'accoppiata Mortirolo-Stelvio è già da sé leggenda, basta assecondarla, in fondo, per scrivere memorabili pagine di ciclismo), ma non dal protagonista da cui ce lo si sarebbe aspettato.

Un outsider, De Gendt, così come sono e restano outsider gli Hesjedal e i Purito: in tre, mai su un podio di GT prima d'ora, e anche questo significa qualcosa. Il risultato avrebbe la valenza di un ricambio generazionale se parlassimo di virgulti di primo pelo, ma il vincitore del Giro ha 31 anni, il secondo ne ha 33, quindi di che parliamo? De Gendt di anni ne ha 25 e quindi rientra nel discorso-speranza, ma il suo podio sembra più episodico che frutto di una reale predisposizione: anche se potrà senz'altro crescere, il belga ha perso praticamente ovunque rispetto ai più forti, per recuperare quasi tutto con un solo colpo (e che l'unico momento di coraggio e spettacolo sia stato anche così fruttuoso dovrebbe far riflettere tanti, in gruppo).

Insomma, usciamo dal Giro con più dubbi che certezze. I nostri, ad esempio: in calo Scarponi, in calo Basso, decollato a metà Pozzovivo (che ha sfruttato il picco di forma trentino per ben figurare nella prima metà di Giro, ma poi si è limitato ad un'aurea mediocritas nella seconda). Potevamo attenderci lo show da un corridore (Ivan) che fa del passo regolare la sua carta principale? Potevamo magari sperare di più nella Lampre a due punte (o una e mezza), ma Cunego ha attaccato in giornate in cui o non serviva (verso Cervinia, una salita su cui francamente era difficile pensare di far la differenza rispetto a passisti scalatori come Hesjedal o Kreuziger), oppure non l'ha fatto servire lui stesso (checché se ne dica, sullo Stelvio Damiano avrebbe potuto aspettare Scarponi: non certo a 2 km dalla vetta, ma una quindicina di km più in basso sarebbe stato utile. Certo, a patto che Michelino attaccasse così da lontano, cosa che invece non è avvenuta). L'unica occasione in cui qualcosa di intrigante si sarebbe potuto costruire, a Piani dei Resinelli, è stata sprecata insieme a frazioni che gridano vendetta, perché terreno di possibili imboscate, e invece ignorate dai più (Porto Sant'Elpidio, Sestri Levante).

Non ci siamo nemmeno beati della visione di qualche colpo di mano da finisseur, visto che se nelle frazioni più facili non è andata la fuga da lontano, si è arrivati in volata (con l'eccezione della rampa di Assisi dove abbiamo visto uno sprint di 200 metri di JRO). Meglio il versante attacchi a lunga gittata, con le belle imprese di Rubiano e di Rabottini soprattutto. Ma in questi casi parliamo di giornate ampiamente interlocutorie nell'economia della corsa rosa.

Quale il problema di fondo di questo Giro, quindi? Il percorso non era male, con tante difficoltà concentrate nella seconda metà, ma con terreno buono per attacchi anche nella prima. È stato sfruttato malissimo da chi avrebbe dovuto renderlo divertente, questo sì. Una corsa a giorni alterni anestetizzata dalle trenate dei Liquigas per Basso, o dalle trenate degli Sky per Cavendish; e che non ha avuto stoccatori di prim'ordine pronti a fare il diavolo a quattro in salita.

Uno più insicuro dell'altro, son sembrati a momenti i big della generale. Uno con meno gamba dell'altro. E alla fine, il più regolare dei senza gamba ha portato a casa lo spiralidoso trofeo. Un buon corridore, lo soprannominiamo CanadAir perché è così raro avere un canadese ad alti livelli nel ciclismo che il primo che arriva si becca l'appellativo più immediato. Ha volato in ogni caso, Ryder, perché tutti sanno che vincere una grande gara a tappe non è certo facile. A lui vanno gli onori, nonché i complimenti da condividere con una Garmin-Barracuda sempre all'altezza (ottima nella cronosquadre e poi a supporto del capitano sulle Alpi).

Ex biker, una già lunga carriera da professionista alle spalle (nel 2004 iniziò con Lance alla Discovery), nessun risultato veramente rilevante prima d'ora, se escludiamo un secondo posto all'Amstel del 2010 e un sesto al Tour dello stesso anno (in realtà era un settimo, prima che Contador venisse depennato per antidoping). Un palmarès che non fa tremare i polsi, ma che da oggi si arricchisce di una perla che probabilmente resterà ineguagliata, ottenuta in un Giro in cui - mettiamola così - era più facile vincere rispetto ad altre edizioni.

Ecco, allora possiamo pensare che uno dei problemi sia stato per l'appunto il non aver avuto una startlist all'altezza di alcune edizioni del recente passato: Fränk Schleck, foglia di fico dell'ultim'ora, non ha fatto niente e si è ritirato a metà corsa; era altro, evidentemente, a servire (ma magari anche uno stesso Schleck, motivato a far bene però).

Di sicuro, se il 2002 passa per essere l'edizione più sciapa degli anni '00, a distanza di un decennio esatto potremmo aver già trovato quella più insulsa degli anni '10. Ciò ci consola in chiave futura, e ci spinge a invitare Acquarone, direttore generale della corsa rosa, a fare tesoro di quelli che sono gli errori di questa sua prima gestione ufficiale del giocattolo (sperando e credendo che si renda conto che questi errori ci sono stati, perché va bene il marketing e l'ottimismo e il dire in tv che il Giro è stato bellissimo, a patto però di sapere, in coscienza, che non è stato affatto così).

Per il passato, invece, per queste tre settimane conclusesi oggi, ci resta un senso di incompiutezza, rafforzato tra l'altro dalla crono di Milano: laddove avevamo sperato di vivere un testa a testa fino all'ultimo metro fra Rodríguez ed Hesjedal, fra De Gendt e Scarponi, la prova contro il tempo ha immediatamente preso un indirizzo preciso, togliendoci anche il gusto della suspense e suggerendo già al primo intertempo quello che sarebbe stato l'esito della tappa. Un simbolo dell'intero Giro, in pratica. In ogni caso la delusione per questa corsa rosa sottotono si scioglierà presto nell'entusiasmo per l'avvicinarsi del Tour (che a ben pensarci è già quasi qui, distante appena un mese). Perché, si sa, il ciclismo in fondo è solo una ruota che gira, e gira veloce.

Marco Grassi

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