Giro d'Italia 2012: Ra(m)bottini, cuore infinito - Il pescarese sempre all'attacco centra l'impresa
Versione stampabilePochi sport come il ciclismo sanno forgiarti il carattere, modellarti l'anima, farti arrivare dove non ti sogneresti mai di giungere in condizioni normali. Matteo Rabottini un bel giorno l'ha capito, decidendo di accantonare il "solito" pallone per cercare di seguire le orme di papà Luciano, sanguigno protagonista negli anni Ottanta (verso la fine dei quali Matteo veniva al mondo) che, proprio per aver saputo osare, seppe conquistare una Tirreno-Adriatico, riconoscimento di prim'ordine per chi è abituato a faticare per gli altri.
Il ciclismo è sport che non perdona e dove di pane duro bisogna ingoiarne a iosa. Se ci si riesce a mentalizzare immediatamente su questo quella strada irta che porta al professionismo e poi, ancora, al confronto con i grandi, in quelle corse viste, riviste e agognate davanti alla tv, la meravigliosa, crudelmente meravigliosa fatica di certe giornate può quasi rappresentare l'anticamera del Paradiso. 18 chilometri trascorsi dal via da Busto Arsizio, abbastanza per decidere nuovamente di tentare l'assalto all'arma bianca, troppo pochi e al limite dell'incoscienza se si pensa che in una giornata che del tepore di maggio non ha praticamente nulla il peggio (altimetricamente parlando) deve ancora arrivare. Chi se ne importa! Oggi si va, è deciso, che magari strada facendo la sorte saprà essere buona compagna, se proprio la compagnia di qualcuno (nella fattispecie il francese Bonnafond) non dovesse essere sufficiente per assurgere all'Olimpo dei temerari.
Matteo l'ha imparato bene che le avventure più belle sono anche quelle che si rivelano più folli e, scalando vette reali ed ideali per giungere lì, nel ciclismo professionistico, ha capito che il vero godimento sta nel concretizzare l'impresa, nell'indurire la scorza quando gli altri mollano, nel dirsi sempre, chilometro dopo chilometro "io ce la farò". Nonostante abbia iniziato il suo percorso ciclistico solamente a 18 anni (prima, come detto in apertura, preferiva giocare a calcio), ha trovato presto il modo per farsi apprezzare dal pubblico, da quello abruzzese, fiero e passionale, che per simili numeri smania come non mai a quello del resto d'Italia e non solo, incuriosito da quel ragazzo che prende, parte e poi...venitemi a prendere se ne avete! Una tappa al Giro delle Pesche Nettarine di Romagna, poi, dopo poche settimane, la prima grandissima gioia nel campionato italiano Under 23 (eravamo nel 2009), conquistato in solitaria dopo una corsa, manco a dirlo, garibaldina. E poi l'ultima tappa del GiroBio 2010, a Gaiole in Chianti dopo aver fatto mangiare agli altri la polvere delle Strade Bianche senesi, a suggellare una bella top ten finale.
Tempi ormai maturi per il professionismo, giungendo (dopo una parentesi da stagista nella Lampre) alla Farnese Vini di Luca Scinto, uno che per quelli come lui può diventare ben presto più di un direttore sportivo, capace, come se non fosse già abbastanza, di inculcare la grinta e lo spirito da battaglia come un mantra indelebile. Inutile soprendersi se dopo pochi mesi del 2011, il buon Matteo era già ad alzare le braccia al cielo in Turchia, nella quinta frazione del Presidential Tour, al termine di 200 chilometri di fuga e con una compagnia qualificata che le provò tutte per farlo fuori, salvo poi inchinarsi sulla linea d'arrivo. Poco più di dodici mesi dopo, con già un Giro d'Italia alle spalle per imparare ulteriormente a soffrire, è giunta finalmente l'occasione per riprovarci, ad inseguire quella dannata vittoria.
Rocca di Cambio era lì che chiamava, vincere davanti alla propria gente sarebbe il massimo, se poi si pensa che neppure un altro duraccio abruzzese come Vito Taccone c'è mai riuscito la convinzione aumenta. Centocinquanta chilometri e più d'avventura, lo scatto prima della salita finale appena dopo essersi lasciato alle spalle le macerie ancora ben visibili di L'Aquila e la fine del sogno lungo quegli ultimi dieci chilometri fin troppo pedalabili. Matteo neppure allora voleva mollare ed ecco che, puntualmente, ci si mette un bel problema meccanico a spegnere definitvamente ogni velleità. Eh già, la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo, tanto che sulla strada verso Cervinia un altro inconveniente meccanico l'ha obbligato a cambiare la bici che, improvvisamente, si è volatilizzata nel nulla, arraffata senza troppi complimenti da chi cercava un prezioso cimelio (ma che poi ha avuto il buon senso di restituirla).
Fughe "sbagliate", inconvenienti meccanici, persino furti: ce ne sarebbe abbastanza per abbattersi, starsene in gruppo finchè si può e magari fare tranquillamente gruppetto con i velocisti, arrivando senza troppi patemi dentro il tempo massimo. Una situazione comoda, di certo non consona ad uno come Matteo Rabottini, che stamane non ci ha messo neppure venti chilometri per decidere cosa fare. Valcava, tosta nelle sue rampe che profumano anche di Giro di Lombardia, superata di slancio, Forcella di Bura col piglio di chi ne ha ancora (con quel sottofondo per nulla mozartiano ma in compenso molto scintiano che ti obbliga a star concentrato sull'obiettivo). Poi il Culmine di San Pietro, la convinzione che cresce nonostante da dietro Cunego abbia tutta l'intenzione di far saltare il banco (senza dimenticare che, nel mentre il gruppo continuava a non scomporsi, anche altri, bergamaschi come Carrara e Pinotti compresi, la loro speranza di vincere la tappa l'avevano ancora). Discesa verso Ballabio, quella discesa in particolare (dal versante opposto Horrillo, volando giù dal guard-rail rischiò seriamente di lasciarci le penne) appare stretta all'inverosimile in certi punti, una roba da fuori di testa. Eppure Matteo la supera bene, il suo vantaggio è sceso dai cinque ai due minuti e quaranta circa (mentre dietro sempre Cunego prova a fare il diavolo a quattro) ma continua a crederci. Oggi è impossibile non pensare bene, non pensare all'impresa ed invece eccolo qua l'appuntamento con la malasorte: poco prima di Barzio, una scivolata piegando verso sinistra e la carezza (odiata come non mai) con l'asfalto è cosa fatta, con il fondato timore che la botta possa aver lasciato segni nel morale ancora prima del fisico.
Non è roba per Rabottini, non per uomini di Scinto, abituati da un Giro intero in una quotidiana lotta con le avversità, al prezzo di un Pozzato ferito e costretto ad abbandonar la pugna nonostante la volontà di proseguire ed un Balloni, altro bel giovanotto da seguire, che nella sua Blera sognava di passare in ben altro modo e che invece si è ritrovato a ringraziare qualcuno delle alte sfere quel giorno. Non c'è tempo per pensare troppo, neanche per rimuginare sulla traiettoria ideale da prendere in una rotonda, la salita finale lo attende, con i polpacci ormai piombati dalla fatica ma la voglia ancora intatta di compiere l'ultimo, decisivo sforzo. Il vantaggio si riduce, da dietro quel degno compare di fughe matte che risponde al nome di Stefano Pirazzi pianta tutti e si lancia all'inseguimento prima che Losada, allungando di giustezza, mostri chiaramente le proprie mire, in attesa che da dietro il gruppo, che intanto rinviene, inizi a sfaldarsi concretamente. Chilometri sempre meno, acido lattico e ghigni di dolore sempre più ed in prossimità dell'ultimo chilometro il peggiore degli incubi che iniziava a materializzarsi: vantaggio ridotto a circa 30 secondi, Losada minaccioso e Purito Rodriguez ancor più deciso a riprendersi la maglia rosa, sfruttando la preziosa assistenza del proprio compagno. Il film degli ultimi 400 metri sembrerebbe già scritto: JRO che va a prendersi tappa e maglia, il tenace Matteo che resta nuovamente con un pugno di mosche. Invece no, stavolta non può finire così, è ora di raschiare dal barile le ultimissime stille di sudore e microgrammi di forza, perchè quella ruota lì non si può perdere, questa tappa non si può perdere. Matteo tiene, meravigliosamente, prende la ruota e si lancia. Joaquin capisce, accetta la sfida senza cannibalizzare ulteriormente il suo fin qui ottimo Giro disputato. Rabottini può esultare meritatamente, fa sua la tappa e veste anche l'azzurro che contrassegna il nuovo re delle vette.
Scinto può sfogare finalmente la sua gioia dopo giorni di attacchi vani (per conquistar le tappe) e attacchi veri (da parte di stampa e appassionati) circa la condotta di gara. Oggi c'è spazio solo per la festa e per una missione ancora una volta compiuta, a dispetto di tutto e tutti. Del resto basta osservare anche Andrea Guardini per comprendere cosa sia questa Farnese Vini: lotta quasi come un disperato ogni volta che la strada s'impenna, imbarca mezz'ore con la stessa facilità con cui nelle giornate belle (che alla corsa rosa ci sarà tempo perchè arrivino) esplode il suo spunto negli ultimi 100 metri di una volata e taglia il traguardo con la serenità di chi ha superato un'altra dura prova e con la determinazione di chi, almeno a Vedelago, vuole esserci a tutti i costi.
Ha vinto Rabottini a Pian dei Resinelli, guerriero che non verrà da Capestrano come la celebre statuetta che è uno dei simboli di una regione da sempre tenace e abituata a rialzarsi nelle avversità ma che quest'oggi ha incarnato perfettamente lo spirito dei propri conterranei e non solo. E francamente, dopo che le nostre menti nelle ultime ore sono state distratte da ciò che tristemente riportava altrove la cronaca, visione più bella non potevamo avere.