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Storie&Memorie: Coppi, Impanis e la Freccia del '50 - Il Campionissimo si impose in solitaria a Liegi

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Per chi ama il ciclismo, l'inizio dell'anno è sempre triste. Cinquantun anni fa, oggi, moriva Fausto Coppi. Una morte assurda, evitabile, dovuta ad un errore medico che gettò l'intera Italia nello sconforto e che finì per aumentare il mito di quel Campionissimo che ogni famiglia italiana, oltre mezzo secolo dopo, porta ancora come parte della propria cultura.

Ne sono la prova le manifestazioni di affetto, che dal ricordo dei media si allargano ad una miriade di iniziative pubbliche, fino a confluire, inevitabili, sul trasporto del pensiero e, sovente, anche del corpo, a Castellania, là dove è nato ed è sepolto l'Airone.

L'alba di questo 2011 però, s'è levata ancor più triste, perché dal Belgio è giunta la notizia della scomparsa, la notte di Capodanno, di Raymond Impanis, un campione che ebbe modo di incrociare le sue armoniose pedalate con quelle leggendarie di Fausto. Una morte ben diversa, avvenuta ad 85 anni, a causa del male dei mali, ma che lascia ugualmente nell'animo di chi ama questo sport e ne percorre ogni giorno le pagine, una profonda mancanza.

Come sempre, di fronte ad avvenimenti come questi, così sovrapponibili, ognuno di noi s'apre al ricordo e, se è vecchio abbastanza, gli giungono sul cuore ulteriori motivi di tristezza attraverso accostamenti, dialoghi, interlocuzioni ancor più particolari sui protagonisti. Nel mio caso, appresa in piena notte la notizia della monte di Impanis, sono finito al 2 gennaio 1990, quando mi trovai, da relatore ad un'iniziativa pubblica su Fausto Coppi, col compito di  raccontare gli avversari del Campionissimo e mi soffermai a lungo su questo belga di gran classe e gran signore, uno dei più belli non solo degli anni cinquanta, ma dell'intera storia ciclistica. Accanto a me, il compianto Dante Ronchi, un riferimento della mia gioventù passata ogni giorno a mettere il ciclismo accanto al pane, mi donò quel suo pieno consenso che porto ancora fra gli echi più belli del vissuto.

Per ricordare Coppi ed Impanis, in questo particolare 2 gennaio 2011, non potevo che partire da lì, perché il leggendario ed il campione, si possano riabbracciare, anche nei lettori di Cicloweb, con quegli atti delle loro valenze, magari meno conosciuti, affinché la storia sia uno specchio, in questo caso meno usato, per riflettere tanto una passione, quanto l'insieme dei significati che la muovono, fino a congiungersi nella realtà che non ha tempo.

 

Fausto Coppi, dal mio libro che uscirà a marzo 2011: Freccia Vallone – La risposta francofona al Fiandre.

14a Edizione: 1 maggio 1950 (Charleroi – Liegi)
Solo 87 partenti per l'edizione d'ingresso negli anni cinquanta, ma quella qualità che confermava quanto la Freccia Vallone, dividesse col "Fiandre", il gradino più alto del podio delle classiche belghe. C'era il divenuto "Campionissimo" Fausto Coppi, dopo la storica doppietta Giro-Tour del 1949 e questo bastava per garantire spettacolo e tanta gioia per le migliaia di emigranti italiani in Belgio.

La corsa fu la fotocopia di quella dell'anno precedente con l'alfiere della Bianchi a dettare il ritmo sulle côte, fino a provocare i medesimi sconquassi (alla fine chiuderanno la Freccia solo 33 corridori), fin dai primi chilometri. Stavolta però, non ci fu nessun Van Steenbergen a fermare quel levriero dal passo armonioso, che s'avviò a donare ulteriore linfa alla sua fama di "uomo solo al comando".

Rimasto in solitudine a cento chilometri abbondanti dal traguardo di Liegi, Fausto Coppi proseguì senza mai dare segni di cedimento, ed aumentando progressivamente il vantaggio, fino a giungere all'arrivo con più di cinque minuti sui primi inseguitori, regolati in volata dal "classico" e fortissimo Raymond Impanis. La folla gli tributò un'ovazione. Una vittoria tra le più significative di Coppi, un po' troppo sottostimata dall'osservatorio.

Sul vincitore.
Centodiciotto vittorie su strada, la metà raggiunte dopo fughe solitarie talune di decine di chilometri: 3041 km, per l'esattezza, da solo, la lunghezza di un Giro d'Italia di oggi, per intenderci. Di qui, l'estrema giustezza della frase di Ferretti. Cinque Giri d'Italia, due Tour de France, tre Milano-Sanremo, quattro Giri di Lombardia, una Parigi-Roubaix, tre titoli mondiali, uno su strada e due su pista. Due accoppiate Giro-Tour nello stesso anno (1949-'52), ventitré le tappe vinte nei vari Giri d'Italia e trentuno le maglie rosa; nove tappe e diciannove maglie gialle nei tre Tour disputati. Il record mondiale dell'ora nel 1942 con 45,780 km. Ottantacinque vittorie nell'inseguimento, con tempi impressionanti all'epoca. Un esempio per tutti il 6'07" sui cinque chilometri (a 49 di media!), con cui batté Gillen, ottenuto a trentasei anni nel 1955!

Fausto Coppi, il CampionissimoVent'anni di carriera professionistica, diciotto anni di vittorie, l'ultima con Ercole Baldini, al "Trofeo Baracchi" nel 1957. Un successo davvero memorabile, perché il "vecchio" campione e la "grande promessa", furono costretti a soffrire non poco e colsero la vittoria per soli 5". Le cifre, è vero, sono spesso fredde, ma rimangono significative per i più profani. È stato però, il modo unico di Coppi di vincere e di perdere, quello che più ha dipinto la sua leggenda. Dalla fantastastica galoppata solitaria di 192 km, attraverso cinque mitici colli, Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere, conclusasi con 11'42" di vantaggio sull'eterno rivale Gino Bartali, fino alla formidabile crisi di Montpellier, in cui il ritiro pareva la soluzione più logica. In quella occasione furono i suoi gregari, Ettore Milano in testa, a fargli cambiare idea, ma non fu facile, tanto è che per ravvivarlo Luciano Pezzi fu costretto a versargli un'intera borraccia di vino in testa.

Un altro aspetto del suo mito ci viene dalla sua sfortuna e da quelle cadute che gli hanno provocato fratture come in nessun'altra carriera di grande corridore e tali da scoraggiare qualsiasi atleta. Coppi ha sempre saputo reagire anche quando tanti lo davano per finito, d'altronde dopo essersi rotto clavicole, scapole, pube, collo del femore, ed aver subito l'incrinatura della scatola cranica, la le-sione del legamento collaterale del ginocchio e contuso la colonna vertebrale, l'essere pessimisti sui recuperi era logica conseguenza. Alle disgrazie fisiche aggiunse quelle umane, come la sua tribolata storia sentimentale con Giulia Occhini (la "Dama Bianca") e la tragica perdita dell'amato fratello Serse.

Seppe sempre tornare in sella e, da gagliardo quarantenne, si poneva ancora come un faro del gruppo, pronto a lanciare e consigliare giovani, nonché difendersi onorevolmente a cronometro, come dimostra il suo quinto posto al Trofeo Tendicollo Universal di Forlì nel '59, dove arrivò a ridosso di quel formidabile cronoman che rispondeva al nome di Roger Rivière. Gli albori degli anni '60 dovevano vederlo ancora in bici, alla San Pellegrino, per pilotare, assieme al suo amico-nemico di tante battaglie Gino Bartali che avrebbe svolto i compiti di direttore sportivo, quello che era considerato il suo probabile erede: Romeo Venturelli.

La stessa sua morte, evitabilissima, avvenuta per la malaria contratta nell'Alto Volta, liberò le penne e contribuì ad accrescerne il mito. Sono ancora vivi i rincrescimenti per il clamoroso errore dei medici italiani che non capirono la malattia e a nulla valsero le telefonate dei congiunti di Raffaele Geminiani (uno dei compagni di Coppi nella trasferta) che, dalla Francia, informavano casa Coppi e il relativo contorno medico di usare il chinino, perché si trattava, appunto, di malaria.

Ma la peculiarità che ha fatto di Coppi lo sportivo che ogni famiglia italiana conosce, sono stati gli apogei storici in cui la sua figura di campione andava a proiettarsi. Si era all'indomani di un conflitto immane che aveva messo l'Italia sulle ginocchia e c'era la consapevolezza di essere usciti sconfitti ed umiliati. Dell' Italia pomposa, in perfetto stile mussoliniano, erano rimaste le vergogne. Coppi, al pari del suo alter ego Bartali, dava alla giovane Repubblica Italiana l'unico segno vincente internazionalmente riconosciuto.

Le sue vittorie poi, colte nel segno di quell'impresa e di quella superiorità che l'uomo non credeva possibile, facevano di questo personaggio qualcosa di straordinario e di incomparabile, aumentando l'orgoglio degli italiani e la loro personale sfida con quelle nazioni che erano le leader nell'opera di rinascita. Coppi era il più forte e tutti lo sapevano, in Italia e in Europa. In condizioni solo normali era imbattibile e il suo passo in salita su quelle strade polverose e non asfaltate, raccolto dalle immagini sfuocate del tempo, si presenta ancor oggi come dimostrativo di sublime superiorità. Se poi a questo aggiungiamo la serie terribile di infortuni che ha subito, i tre anni di stop causati della guerra dove incontrò una prima volta la malaria, capiamo come la definizione di "Campionissimo", fosse solo un atto di estremo realismo.

Maurizio Ricci

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