L'intervista: «Gruppo unito l'arma in più» - Bronzini rivive il suo successo mondiale
Versione stampabile«Sono passati dieci giorni e mi sento come una trottolina. Ma se questo è il prezzo da pagare per ciò che ho fatto, ben felice! Se le persone mi invitano di qui e di là significa che la mia vittoria di Geelong è stata importante. Non posso che esserne contenta». A parlare così dall'altro capo del telefono è la neo Campionessa del Mondo di ciclismo su strada, Giorgia Bronzini. Felice e grintosa, consapevole di quello che ha compiuto. Questo è Giorgia Bronzini. Sa di aver salvato la baracca azzurra. Sa, la piacentina, che senza quella vittoria l'Italia sarebbe tornata dal nuovissimo continente con zero metalli. Invece, grazie alla sua forza ed intelligenza tattica, portiamo a casa un oro che mai è stato più prezioso. Eppure alle medaglie Mondiali è ben abituata, Giorgia. Oltre al bronzo su strada di Stoccarda 2007, la bacheca di casa Bronzini risplende di luce dorata. Tra le Juniores, anno 2001, un oro europeo ed uno Mondiale nella corsa a punti. Ancora corsa a punti, ancora oro agli Europei su pista del 2003. Altro Mondiale, altro oro nella corsa a punti, nel 2009. Mancava l'affermazione su strada, quella che ti cambia la carriera, che fa sì che i passanti ti fermino per strada e si complimentino con te. Strano a credersi, se ciò accade in una graziosa cittadina dell'Australia.
Per capire Giorgia Bronzini bisogna intraprendere un viaggio intercontinentale, ripartire proprio da laggiù, da Geelong, da quell'ultimo, incredibile giro del circuito mondiale.
«Va bene, partiamo dall'ultimo giro, così ci avviciniamo al traguardo!»
Raccontaci com'è andato.
«È stato un giro di sofferenza, nel senso che ero veramente stanca. Ho dato più di quello che avevo. Sapevo di poter essere una pedina importante per la Nazionale perché, arrivando sicuramente con le migliori la Vos, l'unica ragazza veloce che poteva cercare di batterla ero io. Questo forse mi ha dato un senso di responsabilità maggiore rispetto al solito. La sprinter ero io, non potevo chiedere alle altre di fare il mio mestiere. L'ho fatto per una causa nazionale e l'orgoglio di vestire la maglia azzurra ha fatto sì che potessi tener duro fino ai cinquanta metri dal traguardo. Questo senso di responsabilità mi ha permesso di vincere».
In corsa avevi detto alle ragazze che stavi bene.
«Certo, avevo detto che stavo bene, però le avevo anche lasciate libere affinché ciascuna si giocasse le proprie chances. Vedi, quando uno arriva da solo al traguardo è sicuro di aver vinto ma quando si arriva in volata ci sono mille variabili in grado di condizionare il risultato. Perciò ho detto a Elena (Berlato, ndr), a Noemi (Cantele, ndr) ed a Tatiana (Guderzo, ndr) che se si fossero sentite in grado di fare la differenza avrebbero dovuto provarci. Io ero proprio l'ultima carta che l'Italia avrebbe dovuto giocare, in caso di arrivo allo sprint».
La volata dal tuo punto di vista.
«L'ho fatta esattamente come l'avevo immaginata e pianificata con il ct Salvoldi. Ho atteso fino agli ultimi cinquanta metri per uscire, perché sapevo che l'attesa sarebbe stata l'arma vincente di quella volata. Quando è partita la Vos mi sentivo forte ed in grado di uscire dalla sua scia e passarla. E poi quando si tratta di giocarsi un Mondiale subentra quel qualcosa che ti dà una carica particolare».
È stata decisiva la scelta di disputare lo sprint con un rapporto agile?
«È vero, avevo un rapporto più leggero della Vos e questo mi ha avvantaggiato non di poco. In una corsa così lunga ed impegnativa bisogna avere la gamba fresca per tirare un rapporto così lungo. Disputare la volata con un rapporto duro e su un arrivo in leggera pendenza come quello di Geelong sarebbe stato troppo rischioso per me. Infatti la Vos s'è piantata. Al di là del fatto che è partita lunga, ha sicuramente sbagliato la scelta del rapporto, considerando il tipo di arrivo che si presentava».
L'Italia ha fatto corsa dura fino alla fine. Per poco quello scatto della Guderzo sull'ultima asperità ti tagliava fuori dai giochi.
«Lì Tatiana penso che non abbia visto che io stavo cercando di rientrare e, correndo senza radioline, non ne era a conoscenza. Gli accordi in squadra erano di provarci fino alla fine, non è che Tatiana poteva girarsi mille volte per vedere dov'ero. Il punto per attaccare era quello giusto. Era un'azione che andava fatta. Ho rivisto il tutto in tv, perché in quel momento non avevo idea di dove fosse Tatiana. Ripeto, correndo senza le radioline è l'istinto che porta ad attaccare».
Fortunatamente sei rientrata sulle migliori. Come hai fatto?
«Gli Stati Uniti si sono messi in testa. Anche Noemi, che era con me, ha dato qualche bel tirone. In definitiva, le americane e Noemi hanno lavorato per chiudere il buco».
Una volta rivisto il percorso Mondiale avevi affermato che era troppo impegnativo per te.
«Sì, lo penso ancora. Non era un Mondiale per velociste pure. Io stessa non lo sono. Mi definisco veloce ma non sono una velocista. Era un circuito in cui serviva una ragazza veloce ma che sapesse cavarsela su percorsi impegnativi ed alla fine, a ben vedere, così è stato. Tra le prime, infatti, c'erano sì quelle che vanno forte in salita ma anche molte ragazze veloci. Il percorso, specie nel finale, permetteva loro di rientrare».
Da dove parte la vittoria di questo Mondiale?
«Da un altro Mondiale che ho perduto. Il mio primo grande obiettivo è stato quello del Mondiale su pista. A Copenhagen la condizione c'era, io c'ero, è stata la sfortuna a giocare a mio sfavore. Primo obiettivo fallito. Poi si pensava di arrivare in forma a Melbourne e, una volta là, vedere come andava la corsa, cercando di giocarsela al meglio. La mia stagione non è stata delle più esaltanti. Ho colto alcune vittorie, è vero, ma ho collezionato molti secondi posti, tanti piazzamenti a ridosso delle prime. Se non fosse arrivato il Mondiale staremmo parlando di una stagione un po' in ombra. Però il Mondiale l'ho vinto io e l'amarezza per quella miriade di piazzamenti è stata cancellata in un sol colpo».
Quanto ha inciso poter contare su un gruppo così unito come quello azzurro?
«Moltissimo. Sono quattro anni che la Nazionale è così affiatata. E lo dico a prescindere dai risultati, anche se degli ultimi quattro Mondiali ne abbiamo vinti tre e qualcosa vorrà pur dire. Quest'anno poi abbiamo rotto un po' ogni regola al momento della premiazione. Ho chiamato tutte le ragazze sul palco, spezzando le regole dell'UCI».
Quanto merito ha Dino Salvoldi in questo successo?
«Veramente tanto. Lui è la nostra guida. Nei giorni prima della gara ha cercato di lasciarci più tranquille possibile. Abbiamo fatto qualche riunione ma non è stato per nulla stressante. Lui parte sempre dall'idea che il gruppo sia già forgiato e questo spiega, per esempio, perché le nostre riunioni fossero delle chiacchierate dopo pranzo e dopo cena. Ci ha lasciate libere al massimo, in modo da farci fare ancora più gruppo. Le questioni tecniche sono state discusse una volta sola ed è stato sufficiente. Ormai Dino ci conosce, tra noi e lui c'è una grande sintonia. Inutile ripetere ovvietà, insomma».
C'è stata una componente decisiva?
«Decisiva no, non penso. Però mi ha fatto molto piacere vedere ragazze che per la prima volta correvano un Mondiale integrarsi perfettamente nel nostro gruppo. Giovani come la Callovi, la Patuzzo, la Carretta, la Berlato sembravano parte della Nazionale da una vita. Questo non ha potuto che stupirmi piacevolmente».
Quali sarano i tuoi obiettivi primari per il 2011?
«In primo luogo il Mondiale su pista di Apeldoorn e poi quello su strada di Copenhagen. Questi sono i miei due obiettivi dichiarati per il 2011. Questa volta il Mondiale su strada sarà piatto piatto, davvero per velociste».
Quindi?
«Quindi ci ho preso gusto, pian piano valuteremo cosa potrò ottenere tra un anno. Sicuramente punterò al massimo risultato ma c'è ancora tempo».
Affronterai la prossima stagione con la Colavita-Forno d'Asolo.
«Sì, ho firmato una settimana fa. Si tratta di un ambiente nuovo, sono felice di mettere un punto e ripartire da capo. Logicamente con buona metà del team a matrice statunitense disputeremo alcune gare oltre Oceano. Si tratta di un ciclismo per la maggior parte inesplorato e tutto da scoprire, quello statunitense. Spero davvero che con l'arrivo di questa nostra squadra ne possano nascere tante altre negli Stati Uniti, con conseguente crescita del movimento. Vorrei essere una promoter di quest'attività oltre Oceano. Nella Colavita-Forno d'Asolo ci sarà anche un nucleo italiano, per il quale ho proposto alcuni nomi a Franco Chirio. Staremo a vedere».
Quale traguardo ti è mancato quest'anno, di quelli a cui tenevi?
«Oltre al Mondiale su pista, sicuramente una tappa al Giro d'Italia. Mi darebbe parecchia carica, sarebbe molto importante ottenerla nel 2011, in maglia iridata e magari vestire anche per qualche giorno la maglia rosa. Sarebbe la mia prima maglia rosa, ci tengo molto e proverò a conquistarla».
Invece la vittoria che hai ottenuto quest'anno e di cui vai particolarmente orgogliosa, escludendo il Mondiale?
«La vittoria ai Muri Fermani mi è piaciuta molto. Lì nessuno o quasi mi avrebbe pronosticata vincente e invece dopo quella gara molti si sono dovuti ricredere».
Pensi che con quest'ennesimo oro la visibilità del ciclismo femminile crescerà in Italia?
«La visibilità di noi ragazze è troppo poca. Solo degli agenti esterni possono dare lustro al ciclismo femminile. Intendo che dovrebbe muoversi qualcosa a livello di sponsor, ditte importanti che dovrebbero investire nel femminile. Perché invece tutti gli sponsor vanno sul maschile? Perché c'è un budget totalmente differente, sponsor totalmete differenti. È naturale che le grandi marche vadano dove girano più soldi».
La cura?
«L'ideale sarebbe avere, oltre a quei due progetti stranieri che sono l'HTC e la Garmin-Cervélo, delle squadre professionistiche italiane maschili con la voglia di investire nel femminile. Penso ad una Liquigas femminile, per dire. Sarebbe bello e forse anche giusto per noi donne. Come una sorta di riconoscimento per aver tenuto in alto le sorti della Nazionale italiana negli ultimi Mondiali. In Australia solo noi siamo andate a medaglia...»
E ciò ti è stato ripagato con quante proposte ricevute da ditte non del settore?
«Non del settore? Soltanto un paio, più alcune ditte tecniche, ma queste sono nel ciclismo».
Guardando avanti, se diciamo Londra 2012 a cosa pensi?
«Penso a me, con la maglia azzurra. Non so come sarà il percorso di preciso ma voglio far bene».
Come hai preso l'eliminazione della corsa a punti dal programma olimpico?
«Come una mazzata. È la mia corsa, avrei dato il cento per cento. Chiaro che in questo modo mi sono state tagliate le gambe. Vorrà dire che correrò la gara su strada».
Il carisma non ti manca. È vero che, a chi in passato ti ha punzecchiato dicendo che su quel traguardo non avresti vinto, hai risposto con una vittoria?
«Sì, è capitato alcune volte in passato. Naturalmente la battuta che mi punge nell'orgoglio deve venire da una persona fidata e di cui ho stima. Comunque in genere sono io che dico se il giorno dopo vinco...»
E cos'hai detto la sera prima del Mondiale australiano?
«Cos'ho detto la sera prima? Avrò detto delle stronzate... Seriamente, ho cercato di concentrarmi sul mio lavoro, pensare a svolgere bene ogni compito che ci era stato assegnato. Non c'era nessuna sfida personale, dovevo solo lavorare meglio possibile per il bene della Nazionale».
Chi è Giorgia Bronzini fuori dalle corse?
«È una ragazza semplice. Sono io! Sono quella che fa la battuta, che dà una pacca sulla spalla agli altri. Sono quella che sorride sempre, poi vada come vada. Quello che ho sempre chiesto alle mie squadre è la serenità. Meno stress possibile prima delle corse, perché più sono tranquilla e più i risultati arrivano. Sono sicura che Franco Chirio saprà darmi questa tranquillità».
Ora le più che meritate vacanze.
«Sì, una settimana ai Caraibi. Ho voglia di sole, di mare, di dormire. E di spegnere finalmente i cellulari!».