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Mondiali su strada 2010: Un Mondiale splendido - Attacchi, inseguimenti, colpi di scena e un degno vincitore | Cicloweb

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Mondiali su strada 2010: Un Mondiale splendido - Attacchi, inseguimenti, colpi di scena e un degno vincitore

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L'esultanza mondiale di Thor Hushovd © BettiniphotoEd ora riannodare i pensieri, in fondo a una maratona a tratti esaltante, sicuramente avvincente. Il primo Mondiale australiano ce lo ricorderemo, questo è certo. Ce lo ricorderemo per quell'avvio bizzarro, su un'autostrada, e poi giù, attraverso gli infiniti rettilinei delle splendide praterie intorno a Melbourne. Una casa ogni chilometro, o ogni cinque, chissà, il senso di interminati spazi e profondissima quiete, intorno a un gruppo che se la prendeva comoda, lasciando 23'41" a un quintetto che naturalmente non faceva paura, ma che lo stesso ha centrato la piccola impresa di entrare nel circuito di Geelong con quasi un giro di vantaggio sui nobili inseguitori (va anche detto che se la corsa fosse iniziata in circuito, di sicuro il vantaggio di Kvachuk e soci non avrebbe preso una tale consistenza).

La corsa vera è ovviamente iniziata un po' dopo. Dopo che alcune squadre erano già alla frutta (gli Usa che hanno tirato per Farrar sul tratto in linea e nel primo giro e poi si sono sfaldati), ma ben prima di quello a cui ci siamo abituati da parecchi mondiali in qua. È iniziata addirittura a 150 km dalla conclusione, per dire quanto le squadre dei non velocisti (ovvero Belgio e Italia) avessero l'impellenza di mostrare subito il grugno duro alle ruote più sprintanti del plotone.

Lì, nel secondo giro, sull'impulso di Spagna e Belgio, si era formato un gruppo di 45 con dentro diversi protagonisti: Pozzato con 4 compagni (Oss, bravissimo nei primi giri del circuito, Tonti, Tosatto e Gavazzi), Gilbert con altri 4 (Bakelants, Aerts, De Weert e Roelandts), Freire addirittura con 5 (Erviti, Barredo, Gárate, Plaza e Ventoso); c'erano tre australiani non disprezzabili (Gerrans, O'Grady e Cooke), c'era quasi il meglio della Slovenia (Bole con Kocjan e Koren), c'erano l'ottimo Roche e il volitivo Serpa. Quel che più conta, mancavano tutti i velocisti più blasonati (all'infuori di Freire, ovvio); e non c'era neanche lo spauracchio degli ultimi giorni, quel Cancellara che era uscito dalla crono con un grosso carico di credibilità (malriposto, abbiamo appurato).

L'attacco combinato di Nibali e Visconti © BettiniphotoOra, a quel punto, con 150 km da coprire, si aveva la prima possibilità di far fuori un bel po' di contendenti dalla lotta. Ma se il Belgio ci ha creduto, molto meno ci hanno creduto i nostri, e l'azione è finita lì. Sarebbe stato un azzardo così grosso dare impulso a quella manovra? Forse sì, ma forse no. Di certo vanno considerati i due fattori che probabilmente hanno inciso nel far morire così il tentativo: il primo è che la mancanza delle radioline ha impedito che i 45 si facessero subito un'idea precisa della portata di tale azione, nata quasi per caso tra una salita e l'altra del circuito; il secondo è che in quel momento i fuggitivi del mattino avevano ancora 20' di vantaggio, e a più d'uno, nel drappellone, dev'essere sembrato un lavorone evitabile il dover chiudere sui primi in 45 anziché in 150.

In ogni caso quell'azione, anche se ci ha lasciati con una vaga impressione di incompiutezza, è servita per spolpare qualche nazionale (Usa e Svizzera, che hanno inseguito nell'occasione, e che poi però non hanno fatto molto altro), e per farsi una prima idea delle forze in campo e delle possibilità che dava il tracciato. In particolare, si è capito che la discesa tra le due salite non era un tratto da sottovalutare, e infatti al sesto giro (a ben 85 km dal traguardo!) proprio lì si è sostanziata l'azione forse più bella (dal nostro punto di vista) della giornata.

L'Italia aveva già da qualche chilometro messo i suoi uomini davanti, e sulla salita di The Ridge Tosatto ha fatto una sparata che ha messo in fila il gruppo, predisponendolo al frazionamento. L'opera l'ha poi conclusa Nibali in discesa, portando via un plotoncino di 32 uomini se possibile ancora più interessante del 45etto di prima: cinque italiani, in pratica il meglio che avessimo in campo in quel momento, Pozzato con un Tosatto straordinario, e con Nibali, Visconti e Gavazzi. Acquolina in bocca.

Poi c'era il solito attentissimo Gilbert, scortato da Van Avermaet, un infaticabile Hoste e Roelandts; e un più nobile terzetto australiano, sempre con Gerrans e O'Grady, ma stavolta col campione uscente Evans; bravissimi giovani come Boasson Hagen e Van Garderen e ancora Roche; un interessante trio olandese (Boom, Moerenhout e Poels, e anche in questo caso non è che gli Oranjes avessero molto di più a disposizione); un'altra terna, formata dai tedeschi Greipel, Martin e Wegmann. E altri battitori liberi, come Serpa (di nuovo), Offredo, Stangelj, Sørensen. Stavolta però nella rete, oltre a Cancellara e Kolobnev e Hushovd e Farrar e Cavendish (prossimo al ritiro), c'era caduto pure il temutissimo Freire.

E malgrado la zavorra rappresentata dai compagni non tiranti dei capitani attardati (Plaza, Zubeldia e Barredo per la Spagna, Albasini e Morabito per la Svizzera, Brutt e Trofimov per la Russia), la sensazione che il colpaccio potesse riuscire è stata subito abbastanza forte: del resto non si guadagna rapidamente 1' (e poi 1'20") se non c'è convinzione di poter fare la differenza. E l'Italia, dopo qualche titubanza (ma più che altro era voglia di lasciar lavorare per bene il Belgio, che per un po' ha dato da solo propulsione all'attacco), ha fatto la sua parte, spendendo Gavazzino e poi Tosatto, insieme a Hoste e Gerrans (l'Australia era l'altra squadra interessata a guadagnare, a quel punto).

L'attacco di Philippe Gilbert all'ultimo giro © BettiniphotoCon Stati Uniti e Svizzera già falcidiate da ritiri e ritardi, la responsabilità dell'inseguimento, nel grosso del gruppo, ricadeva interamente su Russia e Spagna. La Spagna, ecco: se c'è un Mondiale che dovrà fungere da pietra angolare per gli iberici, è questo di Geelong. Perché, da qui in avanti, non si potrà più correre come le Furie (Giallo)Rosse sono abituate a fare da oltre un decennio a questa parte. Oscar Freire ha avuto la corsa che sperava, solo di rimessa da un certo punto in avanti, e l'esito atteso, con la volata di 25 uomini. Non già la vittoria, ma neanche il podio è stato però alla portata del cantabro, stavolta solo e malinconicamente sesto. Per ottenere un tale risultato, il ct De Santos ha dovuto immolare i due Sánchez, che di sicuro avrebbero potuto ambire a stare coi migliori nell'ultimo giro, se non si fossero spossati per ridurre e (in un secondo momento) annullare il gap dai 32. Ne è valsa la pena? No. Ovviamente ciò non equivale a dare per finito il furetto di Torrelavega (tra 12 mesi avrà un'altra buona possibilità), semplicemente a Copenaghen Freire - se ci sarà, e non si vede perché dovrebbe mancare - dovrà far da sé, un po' à la Hushovd oggi, e liberare la squadra da un fardello che è più pesante e meno garantito rispetto a qualche stagione fa.

Torniamo ai 32, che nello spazio di tre giri (dal sesto al nono: praticamente 50 km di spettacolo - e terrore per chi inseguiva) hanno perso qualche pedina (Roelandts e Van Avermaet, Gerrans e l'impagabile Tosatto, Gavazzi e Hoste), ma non hanno visto il vantaggio scendere sotto il minuto. Ma il nono giro era quello della fine dei sogni più arditi: perché dopo lo splendido scatto a due di Visconti e Nibali su The Ridge, quando abbiamo visto formarsi un selezionato drappello di 12 con anche Pozzato, Gilbert, Moerenhout, Evans, Poels, Sørensen, Van Garderen, Serpa, Brutt e Wegmann, è stato impossibile non fremere notando la presenza dei 3 azzurri più attesi, sui 12 che si stavano giocando la corsa.

E ancor più impossibile è stato non fremere quando, sulla successiva salita di Aphrasia Street, Nibali ha tentato l'assolo, raggiunto poi da Visconti, Serpa, Moerenhout e Sørensen: ad ogni successiva selezione, l'Italia restava sempre in superiorità numerica. Il problema era che nel frattempo dietro ci si ricompattava, e gli uomini-zavorra citati prima (da Zubeldia a Trofimov) hanno potuto dare finalmente il loro apporto ai capitani, tramutandosi ciò in un progressivo recupero del gruppo (da cui comunque, ad ogni buon conto, si era staccato ancora Cancellara).

Seconda azione sparigliatrice della giornata, secondo assalto a vuoto. Da lì in poi, per l'Italia è stato un calando. Nel penultimo giro Pozzato riusciva ancora a tenere gli scatti di Gilbert su Aphrasia Street (in un attacco da 15" di margine operato da Leukemans con i Filippi e con Evans, Kolobnev e Terpstra), ma nell'ultima tornata, dopo una trenata non fondamentale di Bruseghin prima delle salite, i nostri sono scomparsi. E quando diciamo i nostri, è chiaro che a quel punto ci riferiamo a Pozzato, per il quale i crampi devono essere un tormento interiore non inferiore a quello che era la famosa malattia del Moriconi-Sordi-Ammeregano.

Resterà per sempre il quesito sulla natura del percorso, se il circuito di Geelong abbia più favorito il grande spettacolo, o più stroncato le possibilità dei migliori. Una domanda che non possiamo non porci vedendo quanto scialo di bellezza promanava dall'azione di Gilbert, partito fortissimo sull'ultimo Ridge, scollinato con 14"-18" sugli immediati inseguitori (Evans, Breschel, Schleck, Leukemans, Martens, Moerenhout), salito fino a 20-22", ma poi, proprio quando sembrava ormai imprendibile, scontratosi miseramente col muro di vento contrario dei chilometri finali, chilometri nei quali l'ennesimo colpo di scena della giornata si è materializzato davanti ai nostri occhi beati: sicuramente se fossimo stati belgi avremmo masticato amarissimo (dannato circuito che favorisce il recupero di chi insegue!), ma nella nostra condizione di italiani attaccati alla speranza di un colpo di coda di Pozzato in volata (speranza miracolistica - ammettiamolo - visto che c'erano in quel gruppo anche Hushovd, Freire, Davis, Van Avermaet... insomma, un po' di gente veloce), ebbene, il sussulto provato ai 3 km, quando il gruppetto dello stesso Pozzato è piombato prima su Evans e soci e poi su Gilbert, aveva il sapore di una meta tornata possibile quando era parsa fino a poco prima irraggiungibile (pur essendo anche noi consci del fatto che, a conti fatti, il percorso non fosse il migliore della storia, tutt'altro!).

La maglia iridata di Thor Hushovd tra Matti Breschel e Allan Davis © BettiniphotoDella volata di Pippo, partita bolsa e terminata in buon crescendo a un passo dal bronzo (ironia della sorte: a precedere il vicentino è stato proprio l'uomo che Pozzato più ha citato come possibile favorito nei giorni scorsi, ovvero Allan Davis), non c'è molto da dire: se avesse avuto un compagno (che non c'era più) a guidarlo, forse si sarebbe lanciato da una posizione migliore, ma in fondo la sostanza non sarebbe cambiata di moltissimo: un grande Mondiale può anche finire con le polveri bagnate della punta designata.

O con la superiorità - da riconoscere senza timori - degli avversari. Perché Hushovd, emerso prepotentemente a togliere la vittoria a Breschel che la stava decisamente assaporando, era comunque il più forte, in quel frangente.

Ha vinto benissimo, il norvegese (primo iridato scandinavo della storia), e non troverete un appassionato disposto a dire che non è, quello di Thor, un successo meritato, che va a premiare e completare una carriera già ottima, di un corridore tenace come pochi e potente come pochissimi, che forse ha raccolto meno di quanto avrebbe potuto, ma per il quale - chissà - questa maglia iridata potrà avere una funzione sbloccante (un po' come per Evans un anno fa), per permetterci di vedergli alzare le braccia su certi grandi traguardi che pure sono alla sua portata, come una Roubaix o - perché no - una Sanremo (sì, a gennaio compirà 33 anni, ma almeno un paio di stagioni ad alto livello Thor se le può tranquillamente regalare; senza considerare che sulle pietre del Nord - per dire - la longevità può essere un fattore).

Breschel è secondo e migliora il bronzo di Varese, Davis terzo regala un ultimo sorriso all'Australia padrona di casa di questo Mondiale fuori dagli schemi, a tratti un po' surreale, non certo il più memorabile a livello organizzativo (troppo poco pubblico, onestamente), ma sicuramente interessante, oltreché simbolo dell'espansione globalistica del ciclismo. Prima rassegna intercontinentale disputatasi in Oceania, che premia un vincitore di una nazione che fin qui non aveva mai vinto (come la stessa Australia di Evans a Mendrisio 2009, del resto). È il ciclismo degli anni 2000, bellezza, indietro non si potrà più tornare: e ciò non è né un bene né un male. Semplicemente, è inevitabile.

Marco Grassi

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