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Processo al Tour de France: «Tra grandeur e squilibrio» - La testimonianza di Gianni Savio

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Gianni Savio premiato alla Settimana Lombarda - Foto Roberto BettiniGianni Savio è un team manager di lungo corso (con Marco Bellini è alla guida della Androni-Diquigiovanni) e si definisce "uno degli ultimi romantici del ciclismo". Di un ciclismo in evoluzione le cui sperequazioni sono perfettamente rappresentate dal Tour, una corsa a cui i team meno ricchi non hanno accesso: «Ci sono anche stato, al Tour, come consultant di Radio RCN nelle tappe alpine. Purtroppo in quest'edizione, per la prima volta dopo anni, non c'era neanche un colombiano al via».

Magari avrebbero movimentato un po' le frazioni di montagna.
«Si è capito subito che sarebbe stata una sfida a due tra Schleck e Contador, e così è stato, con un duello che però in fin dei conti era piuttosto scontato e che non ha sortito grosse emozioni. Ci si aspettava chissacché dal doppio Tourmalet, invece non c'è stato quello che avremmo sperato. Schleck ha corso chiaramente per il podio, non ha voluto mettere a rischio un secondo posto certo importante a livello mediatico e di marketing: Andy sapeva che attaccando sull'ultima salita non avrebbe fatto la differenza; certo, va detto che anche uno zemaniano come me (sempre all'attacco!) deve considerare che le strategie studiate sulla carta vanno poi tradotte in azioni dalla forza degli atleti. E la Saxo di Schleck non era in grado di aiutarlo a difendersi, figurarsi se avrebbe potuto aiutarlo ad attaccare».

Non sono comunque stati in tanti ad attaccare.
«Il Tour in qualche modo identifica la passata grandeur francese, è in ogni caso un evento enorme. Tanto enorme che i corridori preferiscono accontentarsi di un piazzamento pur di essere lì in alto, e corrono spesso di rimessa: vedi Denis Menchov, bravo e continuo, ma che ha conquistato il podio nell'ultima crono dopo aver avuto una condotta di gara (con tutto il rispetto) praticamente anonima: mai uno spunto, mai uno slancio».

Potrebbe essere una soluzione l'ipotesi di aumentare a dismisura il premio per il vincitore e diminuire quelli dei piazzati?
«Non credo, perché il Tour è un fenomeno sportivo che trascende lo sport stesso e ha implicazioni nel sociale, non a caso è il terzo evento in assoluto dopo Olimpiadi e Mondiali di calcio: ovunque nel mondo parli di ciclismo, parli di Tour de France. Per questo, il solo fatto di essere in quella foto, in quel podio sui Campi Elisi, vale molto più di qualsiasi premio in denaro: a livello promozionale, con tutti gli occhi dei media del mondo puntati addosso, è qualcosa di ineguagliabile. Per cui dico che non ci sarebbe un peso "economico", in premi, in grado di equivalere il peso mediatico che può avere anche un piazzamento a prima vista anonimo».

Il gigantismo del Tour fa bene o male al resto del ciclismo?
«Ma il Tour è la vetrina principale di un ciclismo che gli squilibri - grossi squilibri - li ha in sé: e li ha dall'avvento del Pro Tour, una rivoluzione che ha fatto sì che avvenisse una totale scissione tra quello che è considerato il ciclismo di alto livello, e il resto del movimento. Pare (si spera) che qualche modifica interverrà, di sicuro dovrebbero essere eliminate queste sperequazioni: purtroppo sono convinto che la tendenza sarà quella di un grande business riservato ad un'oligarchia: sempre meno ciclisti guadagneranno sempre di più, e sempre di più (anche bravi) guadagneranno di meno. Il Tour è diventato il simbolo di un ciclismo in cui vengono premiati i meriti finanziari e non quelli sportivi e morali, è un gigante che rappresenta il centro, il fulcro del grande scompenso del ciclismo».

Sapere di non poter fare il Tour, per una squadra Professional, è un problema? Non vi sentite un po' messi ai margini?
«Assolutamente no! L'Androni-Diquigiovanni è una piccola squadra con grande dignità, e non invertirei mai questa cosa, proprio per una questione caratteriale. Ognuno dev'essere conscio della sua dimensione, e io dico che anche se arriviamo nei primi 17 team (conquistando quindi il diritto di poter fare il Tour), non andrei a partecipare alla Grande Boucle per fare il turista, o - come dicono i giornalisti - a portare in giro una squadra fantasma».

Quindi in un certo senso la grandezza del Tour influenza le scelte di mercato anche di chi il Tour non lo farà. Nel senso che il voler essere o meno al via in Francia influisce sui corridori da ingaggiare.
«Certo, per questo - per ora - continuo a preferire il frizzante del Giro alla grandeur del Tour, la corsa rosa è più a misura d'uomo, e di squadre che puntano a far bene in Italia. Il Giro lo vedo più vicino alla gente e poi quest'anno è stata una bella lotta, incertissima e piena di colpi di scena almeno fino allo Zoncolan. Bisogna sapersi collocare, questa è la verità: e dirò di più: noi, sempre presenti al meglio nelle corse italiane, crediamo nel nostro movimento e vogliamo contribuire a valorizzarlo, anche perché, mentre il Tour - come detto - continua a simboleggiare il ciclismo degli squilibri, in Italia si prende una via giusta: mi riferisco all'accordo tra Rcs Sport e Federciclo per far sì che la miglior squadra del Campionato Italiano per team partecipi di diritto al Giro (ottemperando comunque ad alcune regole basilari, come l'affiliazione in Italia o l'essere in regola col passaporto biologico): ecco, questa è una svolta apparentemente piccola, ma in realtà epocale, visto che per la prima volta si premia finalmente in maniera tangibile e sportiva (non con un trofeo o con un assegno, ma con un riconoscimento tutto interno alla competizione) la meritocrazia dei risultati sul campo anziché il portafoglio pieno di chi ha più soldi da spendere».

Marco Grassi

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