Processo al Tour de France: «È la nostra Olimpiade» - Eros Poli testimone di difesa
Versione stampabileLa potenza del Tour de France è facilmente riscontrabile. Basta fare il nome di una città (Carpentras), o di una salita (Mont-Ventoux), o di un ex-corridore (Eros), ed ecco che tutti riandranno con la memoria a quel 18 luglio del '94: Eros Poli, alfiere della Mercatone Uno, vinse la 15esima tappa di quel Tour e da allora è entrato in un'altra dimensione.
Si può difendere il Tour appena concluso?
«Certo che sì! Ci si lamenta sempre che il Tour ha un avvio monotono, e invece stavolta sono stati subito fuochi d'artificio, un po' per le cadute (vanno tutti fortissimo!), un po' per il percorso molto vario. La tappa del pavé per me è stata una delle più belle degli ultimi anni, un po' come quella di Montalcino al Giro: non mi pare che lo spettacolo sia mancato. In più c'è stata quella crono finale che ci ha tenuti col fiato sospeso... Insomma, un bel Tour, equilibrato e combattuto fino alla fine: di che ci dobbiamo lamentare?».
C'è il rischio che un evento tanto importante metta in ombra il resto del ciclismo?
«Nel calcio ci porremmo una domanda del genere? Non credo proprio. È ovvio che il Tour monopolizzi le attenzioni, è lo spettacolo più grande! Il Giro magari ha percorsi più duri, ma in Francia c'è più qualità da parte degli atleti che partecipano: in quale altra corsa tutte le squadre schierano al via la formazione migliore?».
In definitiva, cos'ha di tanto speciale il Tour?
«Può essere che la televisione appiattisca un po' le cose, ma vi garantisco che essere al Tour è un'esperienza indimenticabile. Ore e ore di spettacolo. Si calcola che ogni famiglia francese, almeno una volta nella vita, sia andata a veder passare i corridori. In media queste famiglie fanno anche 100 km per spostarsi, e si fermano sul percorso di gara per 7 ore! E si tratta di 7 ore piene, fai un picnic, una pennichella, ed ecco che già arriva la carovana pubblicitaria a intrattenere il pubblico. Centinaia di migliaia di persone intrattenute da un'organizzazione speciale. Certo, l'enormità del Tour può causare qualche problema (penso alla sicurezza degli spettatori), ma è roba da nulla se pensiamo a cosa rappresenta il Tour per la Francia e il resto del ciclismo».
Che carriera sarebbe stata, la tua, senza il Tour?
«Una classica carriera da gregario, da lanciatore di volate. Ma in quel '94 eravamo in Francia senza Cipollini, che era caduto a Salamanca alla Vuelta, e quel giorno del Mont Ventoux ebbi via libera. Riuscii a vincere, e quel successo mi ha reso molto popolare, soprattutto in Francia, anche più che in Italia. Ma del resto, che avessi più possibilità di primeggiare in una tappa del Tour piuttosto che in una del Giro, l'avevo capito sin dal mio esordio nella Grande Boucle: percorsi misti e frastagliati, da affrontare di potenza, né troppa montagna (a parte il Ventoux, nel mio caso...) né troppa pianura: un tracciato che è sempre stimolante, coi suoi su e giù».
Quante volte ci ritorni, con la mente, a quel giorno di 16 anni fa?
«Quest'anno 6 volte: ovvero le volte in cui sono andato sul Ventoux con le gite in bici che organizzo per appassionati e cicloturisti. Lo guardo da lontano, il Monte Calvo, e mi dico: "Certo che l'hai fatta davvero bella!". Sì, il Tour mi ha cambiato la vita, magari non tanto a livello economico, ma decisamente in meglio».
Ci spieghi il motivo per cui molti corridori gareggiano al massimo solo in quelle tre settimane di luglio e poi si eclissano?
«Mi pare che Contador abbia vinto un bel po' di corse a tappe, quest'anno: è il primo esempio che mi viene in mente. Se poi ci interessa capire perché comunque c'è una certa specializzazione verso il Tour, rispondo facilmente: la Grande Boucle è l'evento che ti qualifica maggiormente come corridore, ti permette contratti milionari (se lo vinci o se vai sul podio), e penso che sia anche normale che chiunque sia convinto di poterlo vincere, ci punti tutto su. Rendiamoci conto che il Tour de France è la nostra Olimpiade, non c'è un'altra corsa più importante e gratificante».
Che cosa possono imparare gli altri organizzatori dal Tour?
«Il marketing. In Francia sono maestri in questo, vendono benissimo il loro prodotto. Certo, hanno anche la fortuna di avere il Tour in luglio, che è una cosa decisiva visto che molti sono in ferie e si riversano sulle strade, e che il clima permette di fruire della corsa senza troppi problemi. E un'altra cosa che si dovrebbe copiare al Tour è la scelta delle salite: dobbiamo, anche al Giro, far sì che determinate montagne diventino dei veri stadi. In Francia ci riescono grazie al fatto che ripropongono spessissimo le stesse salite mitiche. Secondo me bisognerebbe battere una strada simile anche da noi, valorizzando Mortirolo, Fauniera e salite del genere, anziché andare a cercare scalate impossibili come Plan de Corones o lo Zoncolan. Poi non dico di azzerare le novità, dico solo di centellinarle meglio».