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Tour de France 2010: Era una tappa da imboscata - Alla fine ha prevalso l'attesa

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La fantasia di Samuel Sánchez poteva farci divertire - Foto Daylife.com © APIl Col du Noyer aveva visto passare Ocaña in fuga, nel giorno della crisi di Merckx. Di quinta, la Montagne de Feraud è un dente scoperto, un molare roccioso. Fondale emblematico per un cannibale, ma quel giorno dovette trovarvi l'ispirazione per resistere all'arrembaggio del suo avversario più duro.

Oggi invece la lievità del ritmo era uno stridente contrasto con l'asprezza dei luoghi. Nemmeno lo sherpa Samuel Sánchez si lasciava sedurre da un sentiero che lambiva il dirupo. La vista di quello strapiombo avrebbe facilmente impietrito più di un abile discesista, figuriamoci i meno disinibiti. Oltre, c'era un'altra picchiata che si fregia di illustre vittima.

Di per sé le immagini dello sfoftunato Beloki, un attimo prima ben saldo sul podio virtuale, un attimo dopo a terra quasi senza un perché, balenano chiare nelle menti. Anche senza volerlo tiri i freni il doppio in una discesa con tale curriculum. Anche vedere ieri il principino Schleck disdegnare una eccesiva piega della schiena e farsi 20 chilometri di discesa con mani alte sulle leve dei freni, poteva invitare a saggiarne meglio le qualità acrobatiche. Era una tappa disegnata per colpi di coda, insomma. Per cogliere sul fatto chi usciva dalle Alpi con residui di fatica da scontare. Un dente velonoso di 7 chilometri al 9% giusto per accendere la miccia verso metà tappa, poi strada che si insinua tra i monti con svariati saliscendi, fino al selvaggio Col du Noyer, dotato di discesa con affaccio vertiginoso riservata a cuori temerari.

Il gruppo stavolta faticava a benedire una fuga in partenza, segno di rispetto per una tappa delicata. Ma poi, partoriti sei eletti dimenticabili senza troppi scrupoli, calma piatta. Che si penta amaramente chi ha messo sulla carta un percorso del genere, illudendosi di avere un appendice di thrilling.
Poi naturalmente c'è da considerare l'afa, la scarsa vena di qualcuno uscito sfregiato nel fisico e nel morale dal passaggio alpino, perfino il doveroso rispetto per il dolore di Evans. Ma è proprio quando il gruppo si mette a sonnecchiare che il segugio fiuta puzza di bruciato. L'orecchio fino percepisce i lamenti. Sarà anche il caldo, ma quando c'è un tale mortorio almeno qualche ferito grave, di quelli non allegramente lasciabili a bordo strada, ci può essere. Forse però le lacrime di Evans hanno davvero imposto una forma di caritatevole solidarietà. Anche condivisibile, se non fosse che i più intuitivi e abili avrebbero avuto strada utile per andare alla caccia di secondi preziosi.

Chi non si può permettere attacchi frontali per manifesta, seppur minima, inferiorità allora guarda avanti. Mende chiama troppo chiaramente Astana a chiudere la corsa. Sui Pirenei difficile trovare leve per scardinare le consolidate manovre strategiche finalizzate alla resa dei conti annunciata sui manifesti. Pailheres, Bales e Tourmalet: ici jouez le Tour. Mentre a Pau no.
Quella tappa è antica, presenta stilemi arcaici. Vecchi modi di correre. 4000 metri di dislivello all'inizio, e poi 40 chilometri per andare al traguardo.

Vero è che tappa simile l'anno passato rischiò seriamente di essere vinta da Cavendish, con annessa pernacchia in spregio dell'austero Tourmalet. La litania dei colli storici (Peyresourde, Aspin, Tourmalet e Aubisque) è più che sufficiente per sguarnire le migliori difese. Quattro sirene che promettono le delizie di un podio nella ville lumiere, Ulisse prenda nota. Alla perdizione, queste sirene presentano ragionevoli alternative. Pochi gruppetti sparsi sulla strada di Pau non sono certo uno scenario da sprint di gruppo. Anzi, sono scenario da impresa da raccontare ai nipoti.

Intanto gli sprinter provano a riavviare motori ingolfati. A giudicare dalla tappa di oggi non ci dovrebbero essere stati fuori giri disastrosi, sembrano tutti ancora ben resttivi. Quindi battaglia per la maglia verde più che mai aperta, il più forte è quello più indietro. Il prosaico Hushovd starà mandando emissari per trovare fuggitivi validi, non è detto che il gruppo sia ancora lo stesso. Il Tour è come il Rio delle Amazzoni, niente rock, l'acqua è lenta, ma le svolte si susseguono.

Elisa Rossi

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