Giro d'Italia 2010: Tre quarti d'Australia - Dagli antipodi con furore
Abbiamo già constatato come nelle ultime stagioni il tentativo di offrire ulteriore pathos ad un Giro d'Italia che, teoricamente, si sarebbe già dovuto assegnare sugli ultimi monti, abbia portato, per il momento, ad un'inversione di tendenza che all'ultima lotta a colpi di sprint tra i pochi velocisti rimasti ha preferito la legge del cronometro, del tempo che scorre e che non fa sconto alcuno. Ma a questo punto, visto che anche la cornice di sottofondo ha avuto la sua parte possiamo dire: chi non sognerebbe in vita sua di vincere una cronometro che si conclude di fronte al Colosseo, come capitò tra la sorpresa generale a Konovalovas lo scorso anno? Chi invece non sognerebbe di vincere una cronometro a Verona, ai piedi di quell'Arena in cui poi introdursi tramite una passerella?
Ovvio che entrarci in maglia rosa trasforma il semplice applauso nella standing ovation. Così è stato per Moser nel 1984 e così è stato di nuovo per Basso oggi. Ma entrarci da vincitore, nella veste di colui che ha onorato la tappa ed il Giro intero con una prestazione che lo elegge a sovrano delle lancette (forse per un giorno solo, forse dando inizio ad una serie di nuove soddisfazioni), ha comunque il suo valore, il suo senso, in quel luogo dove non ci sarà nessun imperatore col pollice verso davanti a te ma solo tanta gente a godersi l'ultima festa. Proprio questo è capitato quest'oggi a Gustav Erik Larsson, che quel marchio a fuoco in una cronometro l'ha finora inseguito per tutta una carriera, fin da quando Giancarlo Ferretti e la Fassa Bortolo si accorsero delle sue potenzialità.
Qui poi entra direttamente in scena una sorta di ricorso storico, dal momento che proprio le strade veronesi, segnatamente quelle della vicina Bardolino, lanciarono alla ribalta questo svedesone nel 2004, quando contro il tempo ci si giocava una maglia iridata. Un carneade in top-five, con il podio distante una decina di secondi da quel Vinokourov che troviamo come allora nuovamente a giocarsi le sue carte, oltre un minuto invece da un Michael Rogers che ancora non poteva immaginare quanti conterranei sarebbero venuti fuori anni avanti dalla sua terra. Un quarto posto che segnò un punto di partenza per Larsson, disposto a migliorare sempre più e addirittura a coltivare qualche ambizione di classifica, come nel 2008 quando lo trovammo tra i primi quindici nella conclusione della corsa rosa. Piazzamenti che confortano il morale ma che di sicuro non sono paragonabili col dolce gusto della vittoria, da cercare, trovare e poi gustarsi fino in fondo. Se altri si scanneranno per il successo finale del Giro o per il semplice podio è altra storia, per dare un senso al proprio Giro non occorre curarsene troppo. Bisogna solo scattar dalla pedana, mentalizzarsi in toto su quella strada, sulla salita delle Torricelle da gestire con intelligenza e soprattutto quella discesa in cui anche una curva approcciata male può far la differenza. Ben se n'è accorto Pinotti, che ha visto vanificare in un paio di errori in curva l'ottimo 13'23" con cui aveva strappato il miglior intertempo al culmine della salita e a cui il cronometro ha relegato un amarissimo 20'21" sul traguardo, con annesso corollario interiore di imprecazioni. In giorni come questo non bisogna curarsi degli altri ed è proprio questo che ha fatto Larsson, che la sua fatica l'aveva completata da un bel pò, salendo composto (il 13'35" in cima è rimasto comunque il secondo rilevamento di giornata) e facendo ancor meglio in discesa, quando c'era da pennellare le curve col giusto connubio di geometria e senso del rischio. Ed è stato premiato. Un 20'19" buono per chi ama le statistiche, che soprattutto gli consegna il primo successo di tappa in una grande corsa a tappe, lui che la sua gloria l'ha dovuta sempre rincorrere, lui che ha dovuto rincorrere chi per buona parte dell'anno le corse le ha condivise insieme a lui ma che, con indosso il simbolo della propria nazione, di sconti e regali proprio non poteva farne. Proprio Fabian Cancellara c'è nel destino di Larsson, il compagno di team che gli ha negato il metallo più prezioso sia a Pechino che a Mendrisio, lì dove nasceva il mito del Rapido di Berna. Un mito che qualche crepa l'ha improvvisamente trovata negli ultimi giorni, con quelle voci a rincorrersi sul web a far sorgere il dubbio non dove la legge di Kronos si scrive spietata, bensì dove la legge, la gloria, il mito lo scrivono il pavè e i muri. Il seme del dubbio piombato tra un mix di incredulità ed ironia anche in tv, con quelle misteriose "bici dopate" apparse forse da oltre un lustro.
Dubbi ed una sorta di retrogusto amaro di cui si farebbe a meno ma siamo certi che voci sempre più insistenti e dubbi sempre più crescenti, che solo i diretti interessati possono fugare, non costituiscono il massimo nè per la Saxo Bank nè per lo stesso Bjarne Rijs, che di gatte finora ne ha dovute pelare abbastanza. A queste cose eventualmente ci si penserà in seguito, al team danese ora resta solo da godersi la soddisfazione di Larsson, che fa pendant con quella del battagliero Chris Sorensen, più che degno signore del Terminillo. La gioia per un nuovo successo parziale che si unisce a quella di una scommessa per il momento vinta. Tanti hanno incrociato il nome di Richie Porte alla partenza di Amsterdam con quella curiosità mista a simpatia che solo una determinata specie di carneadi sa offrire. Un venticinquenne pronto a stupire di nuovo quegli stessi italiani che l'hanno accolto tre stagioni fa e che hanno saputo già applaudirlo nei trascorsi da dilettante, dove aveva saputo sconfiggere sul suo terreno il Malori iridato che quest'oggi comincia a prendersi sulle strade di Germania le sue prime soddisfazioni da pro.
Un prologo all'altezza dei migliori, l'attenzione lì dove occorre metterla per non rimbalzare indietro, la sopravvivenza al fango di Montalcino ed un Terminillo che qualche risposta iniziava a darla. Prima del giorno che fa cambiare tutto. La tappa folle verso L'Aquila. Minuti a palate, le insegne del primato e maglia bianca blindata di brutto. E quella simpatia che iniziava a diventare ammirazione, la grinta e la responsabilità a cui stava per unirsi la voglia di provare ad andare oltre i propri limiti e di prender quel che viene. Le Alpi hanno dato il loro giudizio, l'hanno piegato ma non spezzato, in un mare agitato ma non in tempesta che l'ha condotto fino a Verona. Il buon vecchio Vino l'ha scalzato di un posto ma gli applausi, la stima e le soddisfazioni rimangono. Settimo in un Giro matto e spettacolare, settimo in un Giro che lo fa diventare grande e da cui bisogna prendere il giusto. Questa la prima esperienza rosa di Richie Porte, la nota sicuramente più lieta di un movimento, quello australiano, che vive un crescendo entusiasmante e che mette meritatamente a referto tre maglie su quattro, Di Cadel Evans tanto si dice e tanto si scrive, nel bene e nel male e la sua vittoria ottenuta a punti non è che la nuova mera constatazione di quella regolarità che con una maglia iridata vorrebbe sempre spostarsi. Molto meno si scriveva di Matthew Lloyd, della sua indole avventuriera e un pò romantica che hanno fatto posto alla commozione a Marina di Carrara e alla determinazione di chi sa che quella maglia verde può essere sua, anche quando verrebbe voglia di fermarsi e cedere alla fatica. Evans, Lloyd e Porte e quelle porte del Paradiso che si aprono su questa meravigliosa Australia che sa conquistarti su pista, davanti alla meglio gioventù impersonata da Bobridge e dai fratelli Meyer, passando per Leigh Howard, Rohan Dennis o Michael Hepburn. L'Australia che adesso fa la voce grossa anche su strada e che quella maglia lì a Melbourne vuole tenersela ben stretta.
Tre maglie su quattro ed una grande lezione per la nostra Italia, costretta ad assistere ad un bel bagno d'internazionalità prima di riportarsi in alto. La grande lezione che gli stessi aussie portano con le loro storie, che parlano di ragazzi saliti su una bici a quattordici, quindici o sedici anni e non a sei o sette. Una bici che diventa amore folgorante e ragione di vita. Ma al momento giusto, al momento opportuno. Prima è il tempo della crescita, provando il piacere e i benefici del diletto in sport che una loro dignità ce l'hanno. Storie di rugbysti o di triathleti, di nuotatori o canottieri, sparsi tra il fascino ed il mistero aborigeno fino alla piccola grande Tasmania, che di diavoli ormai ne esporta ben più di uno. La Tasmania di Porte, di Goss e di Sulzberger e di chissà quanti ancora. La bici che non diviene ossessione ma compagna di viaggio e che completa un percorso, in cui la pista sa divenire gran maestra, spesso l'insegnante primaria. Esce vincitrice l'Australia della multidisciplinarietà, che nel passato recente apprezzavamo grazie ai cronometri iridati di Rogers e le straordinarie magie di McEwen e che ora si propone come ideale modello da seguire per l'approccio sportivo. L'Australia che cresce, cambia e si evolve. L'Australia che ci regala anche un Graeme Brown che finalmente conclude il Giro. E che anche per questo inevitabilmente ci strappa un sorriso.