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Giro d'Italia 2010: Il bel balletto di Belletti - Impresa in nome di Pantani

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La vita del profeta in patria è sempre molto dura. Attese, ambizioni, quella paura che ti pervade perchè sai che occasioni del genere potrebbero non capitare più, sai che la tua gente accorrerà in massa sulla strada e sul traguardo per applaudirti. E lo farà per rispetto comunque vadano le cose. Ma a maggior ragione, se sei conscio di questo sai come il vivere in questa sorta di limbo può farti precipitare nel piatto di una bilancia piuttosto che nell'altro nei momenti in cui il vantaggio sui propri avversari si misura in metri, centimetri. O nella frazione di secondo in cui uno scatto dalle intenzioni male interpretate può risultarti fatale e riportarti al detto "Nemo profetam patriam". La vita del profeta in patria è dura, quella del sognatore magari lo è altrettanto ma trova almeno il conforto onirico, che ti fa dire che quel giorno arriverà, quel giorno in cui dimenticherai le amarezze, ti emozionerai come mai ti è capitato nella tua vita perchè quello è il giorno prestabilito. Quello è il giorno più bello. Ma se il profeta in patria e il sognatore si fondono in un'unica entità a quel punto la miscela può diventare magica, l'impossibile può diventare possibile, le forze che sembrano abbandonarti tornano impetuosamente in te per permetterti di scrivere il finale della storia.

Tutto questo c'era quest'oggi in Manuel Belletti e nei suoi ventiquattro anni e mezzo, con quel sogno coltivato fin da bambino, quando il Giro d'Italia era una festa da vivere appassionatamente davanti alla tv o a bordo strada, ad osservare i campioni sospirando "chissà se un giorno anch'io sarò lì". Il sogno di un ragazzino e di un padre con tanta passione e con l'orgoglio riposto per l'occasione opportuna, ovvero quella di vedere il proprio figlio gareggiare nel professionismo e magari lasciare il segno. Il sogno di un ragazzino che si emozionava con le imprese dello scalatore venuto dal mare, con i giorni eroici di Marco Pantani che avrebbero fatto scoprire la bellezza e la straordinarietà del ciclismo ad intere generazioni. Una manciata di chilometri divide Sant'Angelo di Gatteo da Cesenatico, abbastanza per non essere trascinati nel vortice di emozioni legate al Pirata, sapendo che l'ultima volta in cui il Giro d'Italia decise di far tappa qui lui c'era, osannato dalla gente prima di prepararsi nuovamente alla nuova sfida ad Alpi e Dolomiti. Ce n'era abbastanza quindi per avere i brividi fin dal mattino, fin da quando la bandierina al via si abbassava ed era giunto il tempo di agire, di pedalare e non farsi condizionare troppo dalle strade, dai luoghi, dai sentimenti che tutto ciò può rappresentare. Con quel Rubicone da superare prima della battaglia finale e che in attesa che la corsa arrivi lì, nelle zone del Piave mormorante, ci dica se in questo Giro poco italiano e di splendida multietnicità, lo straniero sia destinato nuovamente a non passare, come accaduto ventiquattr'ore prima a Porto Recanati.

Nasce la fuga, Manuel si guarda attorno e vi trova avventurieri al pari di lui in cerca di gloria, uomini in grado di tornare molto utili ai propri capitani di ventura se la sorte sarà segnata (i vari Marzano, Grivko, Bertogliati e la coppia Katusha formata da Klimov e Horrach) ma soprattutto un insolito sfidante, il più pericoloso, il più temibile se i piani odierni dovessero riuscire: quel Gregory Henderson che si è già vinto una tappa alla Vuelta, che ha fatto prove tecniche di successo nella Columbia ammazzavolate e che adesso ha il suo momento nel Team Sky. I chilometri passano, il vantaggio tocca i 9 minuti e mezzo ma di strada ce n'è ancora da fare, il contachilometri reciterà duecentoventitrè a fine giornata, con quelle due salite (Perticara e Barbotto) che Belletti conosce meglio delle proprie tasche a momenti e su cui si dovrà davvero sputar l'anima se non si vuol rinunciare al sogno. Certo poi la condizione fisica non ottimale non aiuta ma quest'oggi bisogna esser pronti a tutto. La Perticara scivola via senza sussulti in testa, mentre dietro il cosacco biondo Karpets pensa che questa è giornata ideale per recuperar posizioni e parte al contrattacco, nella speranza (poi rivelatasi vana) di trovar buona compagnia. Giù dalla Perticara, il tempo di accorgersi di esser già a Mercato Saraceno ed ecco che il Barbotto è già ai propri piedi, con quell'aura di considerazione mitica derivata soprattutto dai tanti pronti ogni anno a conquistarlo, aggredirlo, temerlo nella Nove Colli. E' qui il primo momento in cui non bisogna sbagliar niente. Parte Marzano e Belletti è lì, a ruota, non si stacca. Riparte e di nuovo a chiudere. Ancora una volta e di nuovo a ruota del Lampre mentre il gruppetto inizia a sfaldarsi. Poi va come una molla Bertogliati, lo scatto fa male, bisogna lasciar metri che poi il conforto della discesa rimetterà le cose a posto. Meglio lasciar lo svizzero e Mayoz a scannarsi in vetta alla salita. C'è strada ancor da fare ed i calcoli cominciano ad essere inevitabili. Il gruppo non rinverrà, tutt'al più dovrà preoccuparsi di Karpets e della sua iniziativa semifolle, e così chi è lì davanti dovrà cominciare a pensare a cosa è giusto fare, cosa necessario per poter arrivare davanti a tutti, per poter far scacco matto con chi è più veloce allo sprint. Tanto più se anche lo spauracchio Henderson si rimaterializza dopo un veloce e fruttuoso inseguimento. I chilometri divengono sempre meno, gli scatti di chi vuol andar via senza nessuno tra i piedi invece aumentano. Tra Klimov, Mayoz, Lang, Horrach quasi non si contano più. Restano meno di quindi al traguardo e Belletti comincia a pensarci. Che l'aria di casa è realmente vicina. Che si può fare qualcosa di importante. Che tutto sarà possibile se non si commettono errori. Poco dopo però in quattro vanno via, dalla metà sono dieci chilometri o poco più e la veemenza e convinzione d'azione di Facci, Stamsnijder, Kriit e Mayoz può essere quella buona. Il momento è critico, se dietro ci si ferma si è spacciati. Si muove Cameron Meyer a chiudere, si muovono anche gli altri e tutto torna in gioco. Facci non è d'accordo, mancano tre chilometri e mezzo e con Klimov scatta ancora. Per Manuel è il momento di muoversi, di sacrificare preziose energie per non essere relegato alla volata più inutile, quella dei battuti, quella del "nemo profetam patriam". Lo sforzo è notevole ma i primi sono riacciuffati, da dietro rinvengono Claude e Lewis, poi tutti gli altri, compreso quel duraccio di Henderson che parimenti il treno buono della vittoria di perderlo non ha proprio voglia. Sant'Angelo di Gatteo è già da minuti superata, si è ormai a Cesenatico, le urla della gente sono tutte per i corridori, sono ancora di più per l'unico romagnolo presente nella fuga, sono per un ragazzo che sta inseguendo il suo sogno. Sbagliare ora significa mandare a monte un'intera giornata.

Si sta per entrare al triangolo rosso, con adrenalina salita a mille e con l'elettrica incertezza di chi sa che basterebbe un solo scatto, ben assestato, per chiudere la partita. Parte quello, no parte quell'altro, neanche, Sarà volata? Chi lo sa. Di certo chi sa cosa fare è proprio Craig Lewis, che allo sprint avrà morte certa e giocando sull'imprevedibilità può avere lunga vita e gloria. Parte l'americano, parte e quell'ultimo chilometro è ancora da imboccare, prende vantaggio e par spiazzare tutti quanti. Occorre una tirata notevole per riprenderlo e se non fosse per Meyer che pure potrebbe giocare le sue carte, forse i titoli di coda scenderebbero già. Mancano trecento metri e Lewis è ancora davanti, quando la fiammata è devastante ed il tornado di emozioni sembra abbattersi su tutto. Manuel parte con violenza inaudita, una volata di cuore, di rabbia, di emozioni, di un sognatore che sta realizzar ciò che da sempre vuole. La volata di un ragazzo che non vuole arrivare nuovamente secondo. Un Liberazione tra i dilettanti, un Giro di Toscana e una tappa al Circuit de la Sarthe si sono già consumati così. Di quella vittoria in Venezuela quasi s'ignora l'esistenza. Meglio ripensare a quei giorni al Giro delle Pesche Nettarine, almeno qualcosa di affine con quest'oggi ce l'hanno. Meglio pensare o forse no, perchè ormai è già tempo di voltarsi, per iniziare a rendersi conto che quel che si è fatto è accaduto davvero. La volata della vita è finita come Manuel l'ha sempre sognata, con lui davanti a braccia alzate e gli altri dietro a rammaricarsi, primo fra tutti Henderson, che una genialata così, un capolavoro di tempismo e potenza simile proprio non se l'aspettava. E' il tempo delle grida, dell'incredulità, delle lacrime di gioia di chi sa che nulla è più bello in certi momenti. Commozione che non va via, di fronte alla gente, a volti conosciuti ed altri meno noti e quella felicità che si consuma in quel gesto che vale più di mille parole. Belletti lì, su quel traguardo che l'ha eletto sì profeta in patria, con i fiori in mano mentre Frapporti e Pirazzi, sfiniti e sorridenti, tagliano il traguardo dopo sedici minuti. E un abbraccio che dà ulteriore senso e dimensione a tutto.

È tempo di realizzar l'accaduto o forse no, forse meglio abbandonarsi ancora tra i pensieri. Con lo sguardo al monumento in onore di Marco Pantani rivolto proprio verso di lui. A celebrar Manuel Belletti profeta in patria.

Vivian Ghianni

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