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Giro d'Italia 2010: Cataldo secondo con rammarico - Dario paga la fuga di ieri

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L'arrivo di Dario Cataldo - Foto BettiniPer iniziare questo nostro racconto dobbiamo puntare indietro gli orologi di ventiquattr'ore buone, tornando a focalizzarci su quanto si consumava sui lunghi stradoni verso Bitonto. Un paio di onesti comprimari come Wegelius e Dupont aveva deciso che in quella giornata di sole dopo tanto penare tra vento e acqua a volontà il miglior modo per rompere la monotonia fosse lanciarsi in fuga, approfittando degli iniziali saliscendi campano-lucani. Poco dopo è piombata sui due la maglia di un Quick Step, con passo deciso, svelto, di chi crede che in questa giornata possa nascere qualcosa di speciale. È la maglia di un venticinquenne abruzzese, che ha avuto i natali in quel di Lanciano ma che ha vissuto la propria infanzia e adolescenza tra i generosi uliveti e vigneti di Miglianico, simpatico paese ad un quindici chilometri da Chieti. Mar Adriatico ad un tiro di schioppo, la Majella madre altrettanto con il Passo Lanciano ed il Block Haus ad evocare pagine di storia importanti anche per il ciclismo.

Il ragazzo in questione è Dario Cataldo, proprio quel giovanotto che aveva avuto la fortuna di legare il suo nome al Giro ancor prima di approdare lì dove lo scontro è fra titani, lì dove l'odor di maglia rosa si fa inebriante giorno dopo giorno e si spande sulla folla, riversata a bordo strada. Eh si, perchè i più attenti lo ricordano vincitore dell'ultima edizione del Giro d'Italia riservato agli Under 26, a coloro che sperano prima di arrivare lì dove c'è il coronamento di tanti sacrifici e di rinunce di gioventù e poi di dimostrare che è proprio lì che la storia può iniziare, scrivendola giorno dopo giorno con ulteriore fatica e abnegazione.

Arriva Cataldo sui due battistrada e lo stupore appare immediato. "Ma come? Ma se domani c'è una tappa bella nervosetta che arriva nel suo Abruzzo e lui va in fuga a prosciugarsi di energie quest'oggi, tra quegli stradoni infiniti dove anche il vento può diventare amico o nemico in un battito di ciglia". Obiezioni anche lecite ma molto spesso alla gioventù, a quella voglia di libertà che neanche ti fa sentire la catena in certe giornate è sempre difficilissimo porre freno. È iniziata un'avventura e poi vada come vada, se ci verranno a prendere pazienza, riprendiamo fiato e pensiamo all'indomani. Probabilmente lungo quella strada che non finiva mai, con quel sadico gruppo alle spalle a cui bastava una netta sgasata per far un boccone di qualunque ambizione, lo stesso Dario avrà pensato chi gliel'aveva fatto fare; avrà ripensato al suo stesso destino, che poteva vederlo lì accanto ai grandi che il Giro d'Italia se lo devono giocare, magari con indosso una bella maglia bianca simbolo della meglio gioventù. Ma soprattutto avrà pensato a quel giorno del 2005, quando il Giro arrivava proprio a L'Aquila e in un tripudio di folla Danilo Di Luca conquistò la tappa e la prima maglia rosa della sua carriera. Tappa e maglia rosa in Abruzzo, il massimo che un corridore di questa terra testarda ed orgogliosa può chiedere. Quel Danilo Di Luca compagno di tanti allenamenti, che proprio nella Liquigas poteva rappresentare l'ideale punto di partenza per un neoprofessionista che deve carpire i segreti da chi ha già anni di esperienza alle spalle, per sognar di diventar campione lì dove gli applausi possono divenir scroscianti, lì dove puoi avere un'intera regione ai tuoi piedi diventandone un'icona.

Ne ha già mangiato di pane duro Cataldo. Perchè quando ti ritrovi al primo Giro d'Italia nel 2008 in una squadra importante come la Liquigas, dove i leader di sicuro non mancano, i tempi dei trionfi da Allievo alla Coppa d'Oro (corsa che più di una volta ha rivelato gente che poi avrebbe fatto strada) ma anche dello stesso Giro Baby, vinto al termine di una strenua battaglia su Grabovksyy, suggellata su una salita da aquile vere come l'Alpe di Pampeago, cominciavano a farsi lontani, lontanissimi.

E dopo intere giornate di tirate sfiancanti al servizio di Bennati in pianura o di Pellizotti in salita, quel ritiro sulle Dolomiti in preda ad una tendinite che non dava tregua appariva forse l'immagine più malinconica di chi, nella realtà del professionismo, doveva iniziare a cercare la propria identità, in cui anche le due vittorie ottenute al Tour de l'Avenir dell'anno prima potevano indicare che il talento non mancava di certo. Un venticinquenne che sogna il suo Olimpo, magari dipingendolo splendidamente con la stessa bravura con cui padroneggia l'aerografo, compagno di tante giornate in cui la vena creativa scendeva dalla bici e si manifestava nella figura fantasiosa, particolare, da imprimere magari proprio su un casco da portare in gara. Un venticinquenne che però sa che anche duecento e più chilometri di fuga, di stanchezza, uniti ad una foratura bastarda sopraggiunta proprio in prossimità dell'ultimo chilometro e malvagiamente irrispetosa quindi del guerriero stremato dalla battaglia, non possono impedirgli di riprovarci l'indomani. Duecentosessantadue chilometri da Lucera a L'Aquila, quasi una barzelletta rispetto ai 428 che da Bari conducevano al capoluogo d'Abruzzo nel 1914 ma in grado di far venir qualche vertigine a chi certe terre non le conosce, nei selvaggi monti che dal Sannio vanno verso la Piana delle Cinque Miglia.

La corsa si anima, esplode, va in confusione e forse proprio quella concitazione è il miglior modo per riprovarci. Ci sono di nuovo i due compari del giorno prima, ci sono altri cinquanta indemoniati più o meno famosi. All'assalto di Macerone e Rionero, di Roccaraso e delle Svolte di Popoli prima di giungere nella Piana di Navelli, lì dove le case straziate e martoriate unite al grigio della pioggia fermano il tempo e riportano a quella notte di paura. Il gruppo non rinviene, il gruppo che è nervoso, il gruppo che ha paura, il gruppo in cui dove la distanza si misura in chilometri e non in centinaia di metri come il giorno prima.

È andata, il sogno di arrivare a L'Aquila prende sempre più corpo e dopo l'equa suddivisione di sforzi tra tutti i protagonisti chiama all'azione. Troppa è la voglia di avvicinarsi al traguardo, troppo è il freddo che quasi paralizza le mani, troppo è il freddo per poter pensare di gettar via la mantellina a 6 chilometri dall'arrivo, lì dove la gente a bordo strada comincia a scaldare il cuore con il tifo, con gli applausi. Va giù Dario, sa che quelle strade le conosce e non lo tradiranno (come invece accade a Bakelandts) e non resta che sperar nell'esitazione, nell'errore di qualcuno prima di imboccare il triangolo rosso. Gerdemann è quasi cotto, rischia di non andar più avanti, il sogno sembra sempre più vicino. Al freddo si aggiunge una ventata siberiana, quella che porta il russo Petrov, splendido talento di gioventù alla ricerca di se stesso. Dario lo vede lì davanti, a pochi metri dal sogno, a pochi metri dall'apoteosi, dall'abbraccio del suo Abruzzo ferito che sta per regalarsi una festa. Vince Petrov, per pochi metri, cinque miseri secondi ed un pugno sbattuto sul manubrio. Perchè dei primi ci si ricorda sempre, dei secondi quasi mai. Ma chi ha dato tutto sobbarcandosi quattrocento e rotti chilometri in due giorni non può passare inosservato ed esce comunque vincitore agli occhi della gente, anche quando a vincere è uno solo. Se quella tappa tanto sognata un giorno la vincerà non lo sappiamo, se una grande corsa a tappe o una classica entreranno prepotentemente nella sua storia altrettanto.

Quel che sappiamo però è che Dario Cataldo da Miglianico ce l'ha messa tutta e continua a crescere ed imparare chilometro dopo chilometro, fuga dopo fuga, batosta dopo batosta. Perchè il Giro d'Italia è come la vita. Ogni giorno è buono per sognare e per vivere una splendida avventura. Magari con la tenacia di Vito Taccone che da lassù guarderà col sorriso questo venticinquenne, secondo al traguardo come accadde a lui ma vincitore tra la gente d'Abruzzo. Che anche di fronte alle avversità sa che non bisogna mollare mai.

Vivian Ghianni

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