Táchicardia día por día - Si parte con la corsa venezuelana
Versione stampabileIn un movimento che vuole ancora prendersi il lusso di mettere innanzittutto i ciclisti al centro dell'attenzione e della scena, con le loro storie di fame e di gloria, di cadute e risalite, di nomignoli e ricordi, è il "pueblo", il suo legame tradizionale con le due ruote, il suo calore ed il suo colore, il termometro e filoconduttore dello spettacolo.
A poche corse in Sudamerica, forse nessuna, la Vuelta al Táchira è seconda sotto quest'aspetto. La simbiosi tra la gente di quella regione andina al confine con la Colombia, i beniamini che montano il "caballito de acero" e l'appuntamento, è nel mese di gennaio assoluta. Il principale evento locale dell'anno, la Feria de San Sebastián, non sarebbe la stessa senza la Vuelta al Táchira. L'aspettativa per la corsa è incalzante e la si può captare già dalle corse di preparazione: quotidiani che escono in prima pagina con risultati ed interviste agli aspiranti protagonisti, ovviamente tutte godendo dell'immancabile ed integrale copertura radiofonica, pubblicità martellanti tra catene informative concorrenti, ma soprattutto circuiti cittadini resi addirittura pericolosi dall'inatteso, quanto sproporzionato rispetto alle misure di sicurezza, afflusso di spettatori.
Di questo radicato legame, pur messo a dura a prova dalle difficoltà economiche che soprattutto nelle ultime stagioni sono degenerate nell'imporre incommestibili forzature nella scelta dei percorsi, l'edizione di quest'anno, autorità di Caracas permettendo, sarà una sorta di ritorno alle origini. Oltre l'85% delle tappe difatti si svolgeranno in territorio tachirense e la competizione riproporrà come piatto forte lo scontro tra i vicini venezuelani e colombiani, più volte dominatori incontrastati fin dai tempi di Álvaro Pachón e "Cochise" Rodríguez, ma che non vincono con una squadra nazionale da quasi 15 anni (1996, Raul Gomez). Alla storica rivalità vanno ad aggiungersi anche taluni recenti conti in sospeso derivanti dal tabù sfatato da José Rujano al Giro di Colombia nel giugno 2009, primo straniero in assoluto ad imporsi nell'estenuante corsa "cafetera" e quindi percepito come un grande smacco per la reputazione degli scalatori colombiani.
Proprio questo mix esplosivo di attesa, passione popolare, difficoltà economiche ed evidentemente politiche (interne, diplomatiche ma anche ciclistiche), potrebbero purtroppo convertirsi nel vero tallone d'achille della manifestazione. Ad esempio gli organizzatori dell'Asociación Tachirense de Ciclismo, per ripianare i debiti delle precedenti gestioni, si sono disgraziatamente visti costretti ad accettare il sostegno del governo regionale del Táchira, della fazione opposta a Chávez. La contromossa del presidente a quanto pare non s'è fatta attendere e al momento in cui si scrive questa introduzione (11 gennaio) non v'è ancora certezza della presenza o meno di forze di polizia e militari a garantire lo svolgimento in sicurezza della corsa. Una situazione spinosa ed insensata che deve assolutamente essere ricomposta al più presto nell'interesse di tutti, proprio in quanto patrimonio della "afición" del Táchira (ma non solo) nel suo complesso. Un'altro fronte problematico per la Vuelta e che completa a dipingerne un quadro decisamente sconfortante, si apre sul versante della sciagurata politica affarista e scriteriata dell'UCI, ad ogni latitudine costantemente a caccia dell'investimento a n-zeri da spremere fino in fondo infischiandosene altamente non del consolidamento, ma della sopravvivenza stessa, degli eventi più legati agli ingredienti fondanti del ciclismo. Oltre alle bizzare assegnazioni di categorie, date nel calendario continentale, licenze e via dicendo, all'incondizionato appoggio ad autentiche cattedrali nel deserto, o per essere più esplici sorte dal nulla tra le "pampas" argentine o le miniere messicane, sulle quali squadre venezuelane e cubane (alla faccia della fratellanza bolivariana!) hanno dirottato i propri tesserati, si seminano in giro per il mondo dirigenti "made-in-Aigle" a capo delle federazioni che non solo non contribuiscono concretamente alla tutela delle manifestazioni storiche e rilevanti del proprio paese, ma anzi non perdono occasione di mettergli più bastoni tra le ruote possibili per ridimensionarle a scapito delle loro creature più recenti. Un modello di sviluppo ciclistico a dir poco geniale che come si può intuire ha ormai raggiunto livelli capillari.
La Vuelta al Tachira quindi, isolata com'è, non se la passa granché bene, ma fino a quando continueranno ad esserci gli attori, le strade e la passione della gente, c'è da scommettere che nessuno dei suoi più o meno conclamati nemici riuscirà a farla morire.