Hai voluto la bicicletta? - Scopriamo il mondo di Eddy Ratti
Versione stampabile In uno sport come il ciclismo, in cui spesso e volentieri bisogna arrangiarsi ed andare avanti con le proprie forze, Eddy Ratti non pedala mai da solo. Ad accompagnare il lodigiano (Eddy è nato a Codogno il 4 aprile 1977) in bicicletta è Gesù Cristo. Eddy appartiene infatti al movimento "Atleti di Cristo", che vanta l'adesione di sportivi di ogni disciplina, tra i quali spiccano i calciatori Kakà e Legrottaglie ed il rugbista Miguel Alonso. Eddy Ratti è ad oggi fermo a causa del fallimento dell'Aeronautica Militare-Amica Chips-Knauf, squadra nella quale ha militato nel primo semestre del 2009. Tra vita sportiva e vita spirituale andiamo a conoscere meglio il 32enne ciclista lodigiano.
Buongiorno Eddy. Innanzitutto come stai?
«Dopo una stagione corsa nemmeno a metà come è stato per me il 2009 non mi posso certo dire soddisfatto ma per recuperare c'è sempre tempo».
Il tuo ottimismo ed il tuo nome ci fanno intuire che sia proprio innamorato del ciclismo, vero?
«Naturalmente sì! Il nome che porto è proprio dovuto al fatto che mio padre era un grande appassionato di ciclismo e tifoso di Merckx. È stato lui ad iniziarmi al ciclismo, anche grazie a mio fratello Giuseppe, che correva e mi ha fatto appassionare alla bicicletta. Già a sei anni ho iniziato a gareggiare e non dico che vincevo tutte le domeniche ma poco ci mancava. Ero un vincente e mi divertivo. Poi però ho smesso con la bici per un paio d'anni ed ho giocato a calcio. Forse vedere tutti i miei compagni i classe che si allenavano tirando calci al pallone era più stimolante o forse avevo solo voglia di cambiare. Mio padre non era molto contento della cosa, a dire il vero. Lui mi preferiva in bicicletta. Dopo due anni di calcio capii che non ero molto portato, diciamo così... E tornai a pedalare ed a vincere. L'ottimismo, invece, è parte del mio carattere. Credo in me e credo che Gesù ci guidi, non posso che essere fiducioso».
Come si è sviluppata la tua carriera ciclistica?
«Come ho detto, ho iniziato a correre a 6 anni e dopo la parentesi calcistica ho continuato a vincere ed ottenere importanti piazzamenti, tra esordienti, Juniores. Quindi ci fu il salto tra gli Under 23. Per me fu molto difficile il primo anno ed anche al secondo non avevo ancora ingranato. Poi però ho corso gli ultimi due anni veramente bene e forse, ripensandoci, sono passato professionista troppo presto. Un anno di apprendistato in più, infatti, forse non sarebbe stato male, mi avrebbe dato quell'esperienza che ci vuole quando si inizia a correre tra i pro'».
Specialmente se la tua prima squadra è la Mapei dei tempi d'oro...
«Esattamente! Nel 2000 passai professionista in Mapei. Era un mondo, non solo una squadra di ciclismo. Ricordo il mio primo ritiro della stagione, saremo stati quaranta persone tra meccanici ed atleti. Ci fu la solita "intervistina" sulla sedia da parte dei compagni più esperti alle matricole. Fu molto divertente ed anche un po' imbarazzante. Ma correre con persone come Bartoli, Museeuw, Bettini e Cancellara, tanto per dire quattro nomi, fu veramente un ricordo che serberò per tutta la vita».
Quali di questi campioni ti ha lasciato il ricordo migliore?
«Essendo un esordiente non potevo dire troppo la mia, mi limitavo ad ascoltare e seguire i preziosi consigli che ci davano questi ragazzi. Bartoli mi piaceva molto ed anche il "Betto", che non era ancora il campione che poi è diventato, si faceva notare. Si capiva che aveva la stoffa del grande corridore. Ma oltre a loro c'era anche un certo Pozzato. Lui sì che è passato esageratamente presto, non come me che ho fatto tutta la trafila tra gli Under 23. No, scherzi a parte, Pozzato ha fatto sì un salto notevole ma così come Bettini si vedeva in lui un qualcosa di particolare. Sarebbe diventato un grande, insomma».
E invece questo Ratti, cosa ci dici di lui, di quegli anni?
«Ratti iniziò subito bene, volevo dare tutto me stesso e correre meglio possibile. Purtroppo l'inesperienza e la troppa pressione a volte giocavano brutti scherzi, ma con il tempo ho imparato a domarla».
Però abbiamo visto ancora domenica, al Mondiale di Mendrisio, che la pressione ha giocato un brutto scherzo a tanti...
«Eh già, purtroppo per l'Italia la spedizione svizzera è andata male. Non sono riuscito a vedere la gara. Ero a Palazzo Reale, qui a Milano, all'ultima esposizione delle opere di mia moglie Geovana. Lei è scrittrice e pittrice. Più pittrice che scrittrice, veramente. Insomma, mi muovevo tra le sale della mostra per cercare un televisorino, una notizia da qualche radio, ma niente! Solo qualche aggiornamento ricevuto via sms dagli amici, poi alla sera ho rivisto tutto. È stato un peccato non vincere ma Evans se l'è meritata tutta la vittoria».
Tornando a noi, nel 2002 la Mapei chiude i battenti e Ratti passa alla Lampre...
«Già. In Lampre non mi rinnovarono il contratto di un anno e così dovetti cambiare squadra. L'annata in Lampre corsi male, non trovai mai i giusti ritmi, non so perché. Ma prima, quand'ero al mio ultimo anno con la Mapei, avevo vinto la corsa più importante nella mia carriera, almeno fino ad ora. Sto naturalmente parlando della Tre Valli Varesine. Non ero molto temuto quel giorno eppure sapevo di potercela fare, infatti il successo arrivò, ma fu tutt'altro che facile portare a casa quella corsa».
Dopo la Lampre hai girato molte squadre, a partire dal 2004, quando sei approdato alla Flanders - Afin.com. Non un'esperienza propriamente positiva per te.
«Assolutamente no. La squadra era appartenente al GS2, poi ebbe qualche problema con gli sponsor e dovette retrocedere a GS3. Il mio calendario si restrinse così ad una quarantina di giorni i gara, una cosa pazzesca. L'anno dopo andai al Team Nippo e la musica era più o meno la stessa. O almeno così mi sembrava, perché a fine anno porterò a casa tre tappe e la classifica generale del Tour de Hokkaido. Questo conta molto quando il tuo sponsor è giapponese. Nel 2006 ho corso con la Naturino–Sapori di Mare. Fu la mia stagione migliore perché riuscii ad avere un rendimento costante per tutto quell'anno».
Le cose sembravano mettersi bene, invece ci fu il caso Aurum Hotels a rompere ancora gli equilibri creatisi.
«Esattamente. La vicenda degli stipendi non pagati e la conseguente chiusura della squadra lasciò tutti con l'amaro in bocca. Fortunatamente trovai un posto nel Team Nippo–Endeka disputando anche una buona stagione. Poi quest'anno sembrava ben avviato con l'Aeronautica Militare-Amica Chips-Knauf, invece ancora una volta una squadra che fallisce».
Per il 2010 hai avuto qualche contatto?
«Sì, dovrei concludere l'affare in settimana».
Puoi svelarci qualcosa?
«Veramente preferirei non anticipare nulla. Sia chiaro, io credo in Dio e non sono scaramantico, però finché tutto non è messo nero su bianco meglio non dire niente...».
Chi è Eddy Ratti quando non si allena o non corre?
«Diciamo che sono un ragazzo tranquillo e socievole. Inoltre amo rilassarmi anche se il tempo scarseggia. Avendo infatti due figli, Victor di 10 anni ed Alicia di 7, non posso certo permettermi molti momenti di relax. Tra scuola, piscina, calcio, il tempo che rimane per me è davvero poco. E poi c'è anche mia moglie Geovana!».
E del tuo rapporto con Gesù, dell'appartenenza agli "Atleti di Cristo" cosa ci dici?
«Premesso che vengo da una famiglia cattolica, quindi sono sempre andato a messa, ho aderito a questo grande movimento nel 2004. Era appena finita la stagione con la Flanders-Afin.com ed ero giù di morale, mi mancavano gli stimoli giusti. Li ho trovati in Gesù, grazie a mia moglie ed all'arbitro Anderson Marques, che mi ha indicato il movimento degli "Atleti di Cristo". Noi siamo Evangelici, leggiamo la Bibbia in casa, cosa piuttosto anomala se pensi anche solo ad una famiglia cattolica come ce ne sono tante in Italia. Abbiamo i nostri pastori ed io stesso, quando corro in bici, penso di essere come un ambasciatore che ha il compito di portare la parola di Gesù in giro per il mondo. E quando vinco anche gli angeli in cielo sorridono».
Eddy, se non avessi fatto il ciclista che cosa ti sarebbe piaciuto fare nella vita?
«Bella domanda! Penso che avrei studiato. Io sono perito elettronico, però mi è sempre piaciuta la geometria e l'architettura. Ecco, penso che se non avessi fatto il ciclista avrei studiato per diventare architetto. Purtroppo troppo spesso i ragazzi sono costretti a scegliere se dedicare la propria vita allo studio o all'agonismo».
Come costruisci le tue vittorie? Che tipo di corridore sei?
«Sono un passista scalatore ma se sono in giornata vado bene anche a cronometro».
Il luogo di vacanze preferito?
«Non c'è luogo migliore dove andare in vacanza che casa, amo ripetere. Sia qui a Fombio, dove vivo attualmente con la famiglia, che a Maceio, in Brasile, stiamo benissimo. In estate stiamo qui in Italia, in inverno andiamo in Brasile, quando laggiù fa caldo. La nostra casa a Maceio è a pochi metri dalla spiaggia, mangiamo ostriche, intanto miglioro il mio portoghese, che parlo ma non comprendo molto bene».
Hai girato tanto per il mondo, quante lingue parli?
«Dunque, l'inglese lo mastico, più che altro per necessità, avendo corso all'estero ed avendo dovuto rapportarmi con corridori non italiani. Poi c'è lo spagnolo, anche questo lo parlo così così, quindi il portoghese, molto difficile. Non sono ahimé come mia moglie, che lo parla benissimo, essendo brasiliana, e mi prende in giro per i miei errori di pronuncia...».
Per finire, quale corsa sogni di vincere e che programmi hai per il 2010?
«I miei programmi per l'anno prossimo sono ambiziosi, molto ambiziosi. Voglio tagliare traguardi importanti. E quando parlo di importanza dei traguardi intendo le vittorie, anche perché nel ciclismo, purtroppo, ci si ricorda solo di colui che vince, il secondo lo si dimentica ben presto. Quanto alla corsa dei sogni è il Campionato italiano, che mio zio Giuseppe vinse quando correva con mio papà Gianluigi tra gli Esordienti; correre con la maglia tricolore mi darebbe una carica particolare!».