Qualcosa è cambiato - La crono del Giro '94 nel Ponente ligure
Versione stampabile «Moseeer! Moseeer!».
Chiuse il libro. Aveva capito che non sarebbe stata giornata, nonostante le buone intenzioni. La sera prima, l'idea di portare un libro di storia per impiegare utilmente il tempo tra l'arrivo sul percorso e l'inizio della cronoscalata, l'aveva reputata geniale. O forse, più sinceramente, un modo per mettersi a posto la coscienza: con la maturità di lì a quindici giorni, perdere una giornata al Giro d'Italia era una scelta azzardata.
«Moseeer! Moseeer!».
Il grido della folla a bordo strada l'aveva fatto balzare subito in piedi, sì e no dopo avere letto tre pagine, steso su quel prato che dalla foresta soprastante declinava dolcemente verso la strada, formando uno spalto naturale che lungo la giornata si sarebbe riempito all'inverosimile. Ripose il libro nello zaino, ripromettendosi di rimettersi a studiare da lì a poco, e si catapultò a bordo strada. Saranno state forse le 10, ma tra viaggio in macchina e lunga scarpinata per raggiungere il punto giusto per vedere la corsa, sembrava molto più tardi. Fece appena in tempo a vedere passare, maestoso e sorridente come un monarca in mezzo ai sudditi nel giorno della parata, il campione trentino che testava il percorso. Pochi mesi prima Moser aveva celebrato il decennale del suo 51,151 sull'Ora a Città del Messico, quello che segnò l'inizio del cambiamento, superando se stesso in una nuova prova in altura. 51,840. Una prestazione stupefacente.
Quell'8 giugno 1994, un assolato mercoledì di inizio estate, fu l'ultima volta che il Giro arrivò nel Ponente ligure con una tappa determinante per l'assegnazione della maglia rosa. Gli arrivi del 1999, a Rapallo (vittoria di Virenque) e del 2006, a Sestri Levante (Horrach) non rimarranno negli annali quanto vi rimarrà quella cavalcata contro il tempo da Chiavari al Passo del Bocco. Il Bocco, un nastro d'asfalto che sale dal mare di Sestri per riscendere in Val di Taro. In vetta incrocia un'altra strada, che da Chiavari sale a Monte Ghiffi (la strada effettivamente percorsa dalla crono) per poi ridiscendere per il Passo di Malanotte nell'Alta Val di Vara. Una dolce montagna appenninica dove il genovese diventa spezzino e l'Emilia incontra la Liguria a un tiro di schioppo dalla Toscana. Alta montagna, a pochi chilometri dal mare: è l'Italia, è il Giro d'Italia.
Era solo l'inizio della sfilata. Gli animi non si erano ancora placati che in perlustrazione passò tutta la Polti, con Gianni Bugno in testa. Era il più amato dagli appassionati italiani di ciclismo. Che dopo averlo visto trionfare alla sua maniera – cioè rischiando di perdere uno sprint già vinto – al Fiandre di due mesi prima, dopo averlo visto alzare le braccia al cielo nella tappa di Loreto Aprutino, attendevano dal taciturno monzese la stagione del definitivo riscatto. Un riscatto che tardava ad affermarsi. Anche per questo, ma non solo, la domenica precedente, nella gerarchia del tifo, erano cambiate molte cose.
La giornata si faceva dunque più esaltante del previsto. Il libro di storia era oramai dimenticato sotto i panini. Del resto storia non era materia d'orale, al limite poteva essere utile per la traccia del tema della prima prova. Che comunque poteva essere evitata optando per la traccia di letteratura. O per quella di attualità. E a pensarci bene, sotto il sole già alto, quando mai sarebbe uscita una traccia sul Novecento? Proprio quest'anno? Proprio adesso che tutto stava cambiando e si diceva che era tutto da dimenticare, o al limite da riscrivere? No, dai, impossibile. Di certo c'era che quel giorno, la storia sarebbe passata di lì, poco lontano da quel prato. O almeno, questa era la speranza. Alla peggio, sarebbe stata una grande festa popolare. Ma questo già si sapeva.
Ecco Podenzana. Per lui, maglia tricolore, un tributo speciale. Correva in casa, Podenzana. Spezzino di Bolano, un castello e qualche casa su un'altura che, a quaranta chilometri dal Bocco, all'estremo opposto della provincia di Spezia, annuncia l'incontro del Vara e del Magra e lo sprofondare dell'Appennino Ligure nella pianura verso il mare. Sei anni prima Podenzana si portò da quasi sconosciuto la maglia rosa sulle spalle per 9 giorni, comprensivi di una memorabile passerella su per i tornanti della Cisa. Praticamente le sue strade e la sua gente. Da campione nazionale in carica si apprestava ad una tappa che lo vide ovviamente tra i più acclamati, in una "visita parenti" che quel giorno – a differenza delle prove in linea – sarebbe durata tutta la tappa.
Il via vai di ammiraglie, mezzi pubblicitari, macchine della stampa, preannunciava uno spettacolo in linea con le attese. La Nazione, acquistata all'alba all'edicola offriva come notizia l'outing politico del capo classifica. Stava cambiando tutto. E per certa stampa l'allineamento della maglia rosa contava più della vittoria di Svorada il giorno prima o dello stato di forma dei pretendenti al successo. Il Secolo XIX, giornale della zona, annunciava nella locandina giù all'edicola in centro a Varese Ligure "150 mila appassionati oggi sul Bocco". E la Rosea, immancabile vademecum dell'appassionato a bordo strada, compiaciuta annunciava che il sindaco di Borzonasca, causa Giro, aveva decretato la chiusura dell'anno scolastico con un giorno di anticipo. Passa il Giro, belìn! Tutti in strada.
Al tempo, il Giro si faceva alla cieca, o quasi. Non c'era tempo per fare tutte le tappe più importanti nei mesi precedenti. Di provare le salite e le crono tre-quattro volte non se ne parlava nemmeno. Ci si fidava delle cartine, dell'esperienza del direttore sportivo, dei ricordi dell'ultima volta che la corsa era passata di lì. Non c'era tempo per le ricognizioni maniacali. Allora sarebbero state considerate delle americanate da perdi tempo. Al Giro ci si arrivava con le Classiche nelle gambe, sia quelle fiamminghe che quelle ardennesi, altro che ricognizioni e stage in altura! E per chi non amava il Nord, ecco pronta la Vuelta. La ricognizione mattutina della crono era considerata da molti una pratica anche troppo meticolosa. Sua Maestà Indurain la ricognizione la fece in auto. Come la maglia rosa, la meteora russa Berzin. Al tempo usava così. Di lì a poco, sarebbe cambiato tutto.
Segnali di fumo. Quello della brace dei tanti barbecue di chi celebrava il rito dell'attesa della tappa con un pic-nic adeguatamente innaffiato. Segno che la festa era oramai in corso. Anche se la gara doveva ancora partire. Anche se il fiume dei cicloamatori non si era ancora esaurito: un'interminabile processione di scomodi caschi alla belga e di sempre più evoluti caschi integrali, di antichi puntapiedi e di moderni sganci rapidi, di tradizionali telai in acciaio e di nuovi in alluminio, di scolorite maglie di lana e di sgargianti tessuti sintetici, di farfalle al telaio e leve al manubrio. Solo un elemento non era ancora comparso nella transizione: tra i tanti capellini con la visiera all'insù e le fascette tergi-sudore alla Silvano Contini, non si scorgevano bandane. Quelle no. Quelle non erano ancora arrivate. Ma non avrebbero tardato. Cambiando tutto.
L'urlo della folla più entusiasticamente violento arrivò istintivo e inaspettato. Era riservato a quei due. Al vedersi, i più sgraziati. I più bruttini. I meno regali. Il più vecchio e il giovane. Salivano in coppia, affiancati. E la folla impazziva.
Erano quei due che nell'immaginario popolare, avrebbero potuto far saltare il banco, a Les Deux Alpes, al Sestrière, due giorni dopo. Il più vecchio era quello che tra i due sembrava il più giovane. Tra un'eclisse e l'altra di Bugno, con più generosità ma meno classe aveva sfidato il soverchiante dominio di Indurain. Non riuscendo mai nell'intento di abbattere il moloch, tranne quel giorno al Tour di due anni prima in cui con una fuga kamikaze aveva davvero messo in difficoltà lo spagnolo. Era Claudio Chiappucci, il Diablo, già Calimero, un varesino figlio dell'emigrazione della gente di Lunigiana su al Nord.
Ma a fare versare fiaschi di adrenalina era quell'altro, il giovane che sembrava il vecchio. Magro, la barba non fatta, gli occhi sofferenti, la testa spelacchiata. Non certo un uomo immagine, nei mesi delle calze davanti alle telecamere e alla vigilia di un mondiale di calcio in cui esibire codini e cerchietti. Ma i cuori di tutti battevano per lui. Gli applausi e le urla lo ingigantivano. Il sabato precedente, la mattina nessuno sapeva chi era. Al pomeriggio si fece notare per avere vinto d'autorità la tappa di Merano al termine di una fuga di giovani di belle speranze. L'indomani incollò mezza Italia alla tv facendosi beffe dell'Imperatore Indurain e della maglia rosa Berzin tra il Mortirolo e l'Aprica. Lunedì mattina la Gazzetta, che al tempo apriva ancora con il ciclismo a nove colonne, elevava come peana "in prima" il motivo del momento: "Sei un mito". Il Bocco era il suo debutto nel ciclismo dei grandi.
Pedalando tra due ali di folla Marco Pantani, il futuro Pirata, sfiorava un maturando con un libro di storia nello zaino. La corsa sarebbe cominciata di lì a poco. Per entrambi. Lungo la Strada, avrebbero scritto nuovi capitoli.
Post Scriptum.
Poche istantanee della corsa vera e propria: Bugno che in partenza rischia di saltare giù dalla pedana. Berzin che vince mentre davanti alle telecamere qualcuno di molto competente suggerisce di naturalizzarlo per farlo correre in nazionale. Indurain che impressiona per la sua eleganza ma che fa solo secondo. Podenzana che sale osannato dalla gente di casa. Pantani solo terzo, ma indomito: «Se Berzin vorrà vincere il Giro, dovrà guadagnarselo». E così fu.
Anni dopo la scoperta che davvero, in quel periodo, stava cambiando tutto. Il giocattolo si è rotto ma rimane il più bello. Si cancellano le vittorie, ma non si cancellano le emozioni.