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Spenta la fiaccola... - ... è tempo di bilanci

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Si è spenta, nel mezzo di un variopinto e suggestivo passaggio di consegne da Pechino 2008 a Londra 2012, la fiaccola della XXIX Olimpiade estiva. È tempo di festeggiamenti per molti, per tutti è tempo di bilanci: a bocce ferme proviamo ad analizzare la prestazione complessiva della Nazionale italiana per le prove su due ruote.
Nell’abbuffata sportiva che sempre i Giochi comportano, il ricordo delle gare su strada, tenutesi nei primissimi giorni di competizioni, è quasi sbiadito. E tuttavia è da quelle che è necessario partire, giacché l’argento di Davide Rebellin e il bronzo di Tatiana Guderzo sono le uniche due medaglie tricolori regalateci dal ciclismo. Premesso l’annoso gap che ci relega nelle retrovie delle gare a cronometro, specialmente allorchè entrano in gioco gli specialisti, non si può dire che gli “stradisti” abbiano deluso.
Certo, in campo maschile alla vigilia l’obiettivo non poteva che essere d’oro, approcciando un’Olimpiade con il Campione del Mondo e olimpico in carica, alias Paolo Bettini, in squadra e una seconda punta esperta e adattissima al percorso come Rebellin. Ancor più l’acquolina in bocca l’aveva messa l’azione a tre che aveva visto protagonista proprio Davide insieme a Andy Schleck e Samuel Sánchez, entrambi battibili dal miglior Rebellin, in volata ristretta. Ma poi, a complicare l’attacco alla medaglia più pregiata ci si è messo il ricongiungimento con gli inseguitori, guidati da un incredibile Cancellara – la sua azione è uno dei gesti tecnici più di rilievo di tutta l’Olimpiade – e dal temibile Kolobnev, e la volata un po’ atipica scaturita da tutto ciò; ingrediente tutt’altro che secondario, il merito degli avversari, leggi Samuel Sánchez e la corazzata Spagna.
E allora, nonostante il sapore amaro che ogni secondo posto porta con sé, quest’argento cinese è tutt’altro che disprezzabile, è piuttosto la conferma ai massimi livelli del ciclismo maschile nostrano su strada e il premio a una Nazionale che si è comportata in modo egregio in tutti i suoi elementi, sebbene sia un po’ mancata – tatticamente e probabilmente anche di gambe – nell’uomo più rappresentativo e atteso.
Discorso pressoché analogo per la prova in linea femminile, con la significativa differenza che il pronostico della vigilia non era di certo favorevole ai colori azzurri. Per di più, con i giochi per le medaglie che parevano ristretti alle varie Arndt, Worrack, Cooke, Ljungskog, Cooke e soprattutto Vos, in casa Italia le maggiori aspettative erano riposte in Noemi Cantele, atleta che da tempo aveva fissato nella gara a cinque cerchi un obiettivo su cui puntare forte.
Invece è spuntata Tatiana Guderzo, outsider sicuramente di lusso, ma che non si attendeva a questi livelli sul circuito olimpico. E più ancora dello splendido bronzo, dietro ad una Cooke inarrivabile e a Johansson, è valore aggiunto e motivo di orgoglio per la nostra Nazionale la dimostrazione di forza offerta da Tatiana, indubbiamente la più brillante e decisa nelle sezioni in salita.
Si diceva di Marianne Vos: il talento olandese, “ciccata” del tutto la prova su strada, ha potuto rifarsi alla grande su pista, vincendo l’agognato oro in quella corsa a punti che doveva – sulla carta, ovviamente – essere foriera di soddisfazioni anche per l’Italia, grazie a Vera Carrara. La realtà è stata ben diversa, come sappiamo, ma, al di là della deludente prova dell’atleta lombarda, è stata soprattutto la complessiva impotenza dei ciclisti italiani per quanto rigurda le prove in velodromo.
Con una delegazione ben più che esigua, specialmente in rapporto alla posizione preminente del ciclismo italiano su strada, l’Italia delle due ruote è passata del tutto inosservata su pista, se si esclude il velleitario tentativo di Ciccone e Masotti nella Madison. Ripartire da zero, s’è detto: ebbene, non può che essere questo il verdetto che scaturisce dal bilancio olimpico del settore. E c’è da domandarsi specialmente cosa sia successo dal 1996 in qua, se è vero che ad Atlanta vi furono tre ori in otto gare per gli Azzurri. Perché non si può affrontare un’Olimpiade con due ragazzi – la coppia dell’Americana – volenterosi ma francamente di livello molto inferiore ai principali contendenti della loro categoria e due atleti – Carrara e Chiappa – di ottimo livello, ma a fine carriera.
Tornando en plein air e passando alle ruote grasse, poche gioie sono venute anche da MTB e BMX. In quest’ultima specialità è troppa la distanza rispetto alle Nazioni con maggior tradizione, tanto che in campo femminile nessun’atleta ha preso il via, mentre tra gli uomini è arrivata l’eliminazione in semifinale di un Manuel De Vecchi che s’è comunque battuto con onore.
Anche per quanto riguarda la mountain bike sono lontani i fasti di Atlanta e Sydney, targati Paola Pezzo, e ci si attendeva un po’ di più da Eva Lechner. Il podio era obiettivamente una chimera, ma a qualcosa più della 16esima posizione si poteva e doveva puntare. Si torna a sorridere invece grazie a Marco Aurelio Fontana e al suo ottimo quinto posto. Al di là dell’ottima prestazione e dell’egregio risultato, non si conoscono ancora i limiti del poliedrico giovane di Giussano, miglioratosi molto durante quest’anno, in cui è stato in grado di lottare con i migliori sia nel ciclocross che nel cross country.
Riassumendo, in un bilancio che è complessivamente appena sufficiente (ottimo per quanto riguarda la strada, disastroso per le prove su pista e al massimo discreto per BMX e mountain bike), emerge con forza lo “stradacentrismo” del movimento ciclistico italiano. Segreto di Pulcinella, si dirà, ma senz’altro qualcosa cui porre rimedio, anche perché non pare proprio avere controindicazioni allargare – si legga: destinare risorse, economiche e tecniche – a discipline ricche di fascino e spettacolarità diverse da quelle su strada.

Stefano Rizzato

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