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Le nuove divinità... - ...dell'Olimpo: Sánchez e Cooke | Cicloweb

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Le nuove divinità... - ...dell'Olimpo: Sánchez e Cooke

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24 settembre 2006. Salisburgo. Ultimo chilometro di un Campionato del Mondo non abbastanza selettivo, o quanto meno tale per le ambizioni di Spagna e Italia, riposte nei muscoli e nella classe di Alejandro Valverde e Paolo Bettini. In testa ad un gruppo, un gruppo per l’appunto troppo nutrito, c’è Pozzato, a tenere alta l’andatura, per stancare McEwen e Boonen, che già si leccavano i baffi al pensiero dell’imminente volata. Perché il vincitore è incerto, ma il copione, a meno di mille metri dal traguardo, è scritto.
C’è invece chi non rispetta il copione. Una maglia bianca risale il plotone sulla destra e piazza un poderoso allungo, pennellando una curva verso destra e lanciandosi verso il sottopasso e la successiva curva a sinistra, che immette sulla retta finale. È Luis Pérez, anzi no, è Samuel Sánchez, va come una locomotiva e infatti si porta dietro un trenino, composto dal compagno Valverde e da due volponi come Zabel e Bettini.
Il finale lo ricordiamo tutti: Valverde s’affloscia, Bettini vince il testa a testa con Zabel e Samuel finisce quarto. A cercare di non dar retta a quella vocina: “Oh se Valverde avesse fatto il buco!”. Una settimana dopo, il neo-campione olimpico vinceva la Classica di Zurigo. Uno zuccherino, in proporzione a ciò che sarebbe significato il successo a Salisburgo, ma anche la vittoria più prestigiosa ottenuta da Sánchez fino a l’altroieri.
Quel Mondiale, riletto alla luce di quanto accaduto pochi giorni fa a ridosso della Grande Muraglia, è significativo soprattutto perché ci racconta quello che era – e quello che in verità è stato anche a Pechino - il ruolo di Samuel nella Spagna di Freire e Valverde: ovvero, quello della cosiddetta “seconda punta”, una carta da giocare, eventualmente, a ridosso del finale, un uomo gregariabile all’occorrenza e comunque subalterno ai Fenomeni del team. Tutto sommato, figlio di un dio minore.
Vero è che Sánchez, come si dice in questi casi, è tutt’altro che un predestinato. Nato nel febbraio del ’78 a Oviedo, Asturie, passa professionista con l’Euskaltel-Euskadi nel 2000, dopo tre anni di gavetta dilettantistica nel team vizcaino Olarra, che garantiscono a Samuel una sorta di cittadinanza onoraria basca e la possibilità di arruolarsi nell’equipo naranja.
Nulla più che un gregario per varie stagioni, dopo un 2003 in cui si segnala solo per essere finito fuori tempo massimo nella tappa dell’Alpe d’Huez al Tour, il 2004 è l’anno del salto di qualità. Bene a Parigi-Nizza e País Vasco (due secondi posti parziali e 18° e 8° finali), nei venti anche alla Sanremo, Samuel scopre la sua vena da clasicómano sulle Ardenne. Nella stagione del dominio di un tal Davide Rebellin (strano il destino, eh?), l’asturiano è 12° alla Freccia e 4° alla Liegi.
Non si ripete però nel 2005, quando però arriva anche la prima vittoria da professionista, nella tredicesima frazione di una Vuelta che lo vede protagonista di altre ottime prestazioni e decimo generale. Vuelta che è anche un discreto trampolino per un buon finale di stagione, con il successo alla Scalata al Montjuic e il quinto posto a Zurigo (vinse Bettini, guarda caso).
È però il già citato 2006 a segnare un ulteriore scarto in avanti della carriera di Sánchez: 4° alla Parigi-Nizza, fa la felicità del team vincendo due tappe ai Paesi Baschi e torna con decisione all’attacco delle Ardenne. Quindicesimo ad Amstel e Liegi, solo Valverde – già, proprio lui – gli nega la gioia della vittoria in cima al Mur de Huy. Si consolerà con un’altra tappa alla Vuelta che finisce settimo in classifica generale e con la già citata Classica di Zurigo, prima di concludere con un altro secondo posto, dietro a Bettini, nel Giro di Lombardia.
Siamo quasi ai giorni nostri. Il 2007 è l’anno dell’attacco alla Vuelta. Vincitore di tappa al País Vasco, sostanzialmente anonimo sulle Ardenne, conquista tre tappe nell’ultima settimana del giro di Spagna, dando spettacolo in discesa – ah sì, è la sua specialità – in salita e a cronometro e finendo terzo, primo atleta dell’Euskaltel a conquistare il podio di una grande corsa a tappe. A Stoccarda, di nuovo, parte dietro Freire e Valverde e ciò nonostante è il primo spagnolo, settimo e frustrato per aver perso le ruote dei migliori. Sarà quindi terzo al Lombardia.
Eccoci al 2008. La novità, discussa e discutibile, è la decisione di saltare a pié pari la prima parte di stagione, per rincorrere un piazzamento al Tour e puntar forte su Olimpiade, Vuelta e Mondiali. C’è spazio giusto per una vittoria di tappa nella corsa di casa, al Giro delle Asturie e per un po’ di vetrina con il secondo posto sull’Alpe d’Huez, nella giornata magica di Sastre. È settimo generale, in un Tour negativo soprattutto a cronometro, e settimo pure a San Sebastian, dove Valverde sbaraglia la concorrenza e s’impone una volta di più come leader della Nazionale olimpica.
Strano il destino, si diceva. Strano sì, perché a Pechino è stato proprio Alejandro, insieme a Bettini e alla marcatura incrociata tra i due, a restituire a Sánchez quanto gli aveva, in vario modo, sottratto in precedenza. Certo, il buon Samuel ci ha messo non poco del suo.
Perché ci voleva uno come lui, uno spagnolo che attacca in discesa, un asturiano che corre per l’Euskadi, uno che non segue il copione, per l’appunto, e le gare le ha lette spesso in modo fantasioso e talvolta in modo proprio sbagliato. Ci voleva un corridore come lui per andar dietro a Schleck il Giovane e Davide l’Esperto. E ci volevano la sua tenacia, il suo spunto e la sua forza per mettersi alle spalle lo splendido Rebellin di sabato, su un arrivo come quello di sabato.
Aupa Samuel, te la sei meritata! (Stefano Rizzato)


Gli ultimi mesi vissuti un po’ in sordina avevano fatto serpeggiare qualche dubbio sulle sue reali condizioni di forma. Se poi aggiungiamo che, di contro, atlete del calibro di Judith Arndt si presentavano in grande spolvero e con la fenomenale Marianne Vos anch’essa presente, il che spesso e volentieri rischia di tradursi in “lotta ristretta dalla seconda posizione in giù”, i dubbi rischiavano di amplificarsi.
Chi però ha imparato a conoscere Nicole Cooke in tutti questi anni poteva immaginare come il sacrificare qualcosa nella prima parte di stagione doveva avere per forza un secondo fine. Detto fatto: un oro olimpico che non fa che aggiungersi ad un palmarès straordinario, donandone però un lustro inestimabile, di quelli che da soli possono valere una carriera.
Eppure quanto fatto ieri dall’atleta gallese, nata il 13 aprile 1985 a Swansea, non è stata che l’ulteriore dimostrazione che quanti ne vedevano un talento dal sapore di predestinazione avevano probabilmente visto giusto. Praticamente imbattibile nelle categorie giovanili, è tra le juniores che si è rivelata al mondo: la vittoria a 16 anni nel Campionato nazionale britannico su strada del 1999 – gara di cui ancora oggi è la più giovane vincitrice di sempre – sancì l’inizio di un dominio che, fatta eccezione per l’annata 2000, l’ha vista conquistare il titolo ininterrottamente fino ad oggi.
Nel 2000 e nel 2001 però sono state le ben 4 maglie iridate a livello juniores a consacrarla come campionessa dal sicuro avvenire: iride su strada a Plouay e Lisbona, iride a cronometro sempre nella rassegna portoghese (cosa riuscita a pochissime) e, tanto per non farsi mancare nulla, titolo mondiale anche nella mountain bike in Colorado, sempre nel 2001, a dimostrare anche la formazione completa della Cooke, capace di fare la differenza anche nel fuoristrada (può vantare il titolo nazionale anche nel ciclocross).
Con le credenziali di atleta fortissima sia in salita che sul passo era praticamente inevitabile attendersi presto successi notevoli nelle gare in linea, con la convinzione che ancora oggi le cosiddette corse di un giorno possano rappresentare le competizioni in cui la britannica può dare il meglio di sé. Per rendersene conto basta citare i tre successi nella Freccia Vallone (2003, 2005 e 2006), il Giro delle Fiandre 2007, il Trofeo Alfredo Binda 2007, il GP di Plouay 2003, il Geelong Tour 2007, l’Amstel Gold Race 2003, il GP Castilla y Leon 2006 o la medaglia d’oro nei Giochi del Commonweatlh del 2002.
Sono stati soprattutto i successi sul leggendario Muro di Huy a lanciarla verso la conquista della Coppa del Mondo, finita nel palmares in due occasioni (nel 2003 e 2006), che potevano diventare tre lo scorso anno se un problema al ginocchio (che poi la costrinse anche a saltare il mondiale di Stoccarda) e l’obbrobrioso regolamento UCI, che raddoppiava il punteggio dell’ultima prova e finì per premiare la pur meritevolissima Vos, non si fossero messi sulla sua strada.
Il mondiale, già: per la Cooke, che per circa un anno (dal metà 2006 a metà 2007) è stata anche numero 1 nella classifica UCI, resta ancora il più grande scoglio da domare, se è vero che dopo i trionfi da juniores è l’unico titolo che ancora le manca da conquistare tra le Elite, dove i suoi sogni si sono arrestati alle medaglie di bronzo di Hamilton e Salisburgo e all’argento di Madrid.
Se si fa attenzione a questo, se ne ottiene la dimostrazione di come la Cooke sia da sempre dotata anche di uno spunto veloce ragguardevole, che, in assenza di atlete catalogabili anche alla voce “velociste”, spiega come ieri a Pechino fosse praticamente impossibile sbagliare.
Come detto anche in precedenza, un altro dei punti di forza della Cooke è rappresentato dalle doti sul passo, fondamentali per essere competitiva anche nei grandi giri. Anche qui difatti la gallese ha saputo ritagliarsi alla grande il suo spazio: vincitrice in maglia Safi Zara Manatthan del Giro donne 2004, quando ebbe la meglio su Fabiana Luperini al termine di uno splendido duello sul Ghisallo, è riuscita a dominare anche le strade francesi nel 2006 e nel 2007 con i successi nella Grand Boucle Feminine, oltre a conquistare un’altra importante affermazione nel Thuringen Rundhfarth, sempre nel 2006.
In questo modo oltre alle gare in linea non sono preclusi neppure i successi nelle piccole e, soprattutto, grandi corse a tappe, elemento che la distingue da Marianne Vos, dal momento che se la Cooke ha già maturato una notevole esperienza in questo tipo di gare, alla talentuosa olandese ciò che manca tuttora è proprio il successo in un grande giro.

Chissà, magari ora con il successo nella gara in linea e la consapevolezza di una gran condizione è molto probabile che l’appetito venga mangiando e che Nicole provi a piazzare la zampata anche nell’imminente prova a cronometro olimpica. Di sicuro tra quattro anni, se le cose andranno come devono andare, con una nazione intera a sostenerla sulle strade di casa, la possibilità di difendere l’oro non la spaventerà minimamente.

Vivian Ghianni

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