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Il bastian contrario - Inchiesta disoccupati: Bordonali | Cicloweb

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Il bastian contrario - Inchiesta disoccupati: Bordonali

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Il salto di qualità è quello che dalla piccola Tenax lo ha portato a guidare la ben più ambiziosa nuova LPR. Fabio Bordonali tornerà a lottare per il Giro d'Italia, guidando dall'ammiraglia il vincitore uscente (Di Luca) e un altro pezzo da novanta come Savoldelli. Però ogni trapasso lascia per strada qualche scoria, nel nostro caso in forma di alcuni corridori rimasti disoccupati. E ne parliamo proprio con Bordonali.
Iniziamo dalla fine: buona fortuna per la stagione che inizia.
«Grazie, ce ne sarà bisogno vista la situazione del ciclismo».
Stiamo facendo un'inchiesta sui corridori disoccupati: le già poche squadre italiane si fondono...
«Precisiamo subito una cosa: in 15 anni da team manager non ho mai fatto fusioni. La LPR l'ho portata io nel ciclismo nel 2003, poi c'è stato un intermezzo in cui l'azienda si è affidata ad altri manager, evidentemente con scarsi risultati, se è vero che ora è tornata da me».
Prendiamo atto della precisazione, però le squadre sono sempre poche, i corridori molti, ed ora per precisa scelta della Federciclismo non ci sono più nemmeno Team Continental affiliati in Italia.
«Gran risultato! Nel 1980 al Giro di Sardegna c'erano 100 partenti, ma erano 100 corridori di qualità. Oggi magari ne avremo 200, ma la qualità dov'è? Il ciclismo è pieno di persone con poca qualità, pare che interessi solo il numero. E invece se ci fosse una selezione più adeguata avremmo corridori la cui carriera professionistica dura 8-10 anni, e non 2».
Torniamo a noi: nel passaggio di sponsor, lei ha comunque assunto qualche corridore del vecchio Team LPR, e ha tenuto con sé diversi uomini che erano alla Tenax. Su che valutazioni si è basato nel fare queste scelte?
«Sulla mia esperienza, pensando all'apporto che ognuno dei ragazzi poteva dare alla squadra, non soltanto in termini di vittorie. L'anno scorso con un team piccolo abbiamo vinto la Coppa Italia, grazie all'aiuto di tutti: ognuno ha avuto le sue possibilità di fare la corsa, quando se l'è sentita, e così sarà anche nel 2008, indipendentemente dai nomi, e contando anche sul fatto di poter "fare" finalmente il calendario che - senza falsa modestia - mi compete, con le corse più importanti».
Qualche suo corridore è stato ovviamente penalizzato dalle sue scelte. Ne vengono in mente almeno un paio, uno è Solari.
«E l'altro?».
L'altro è DeMatteis, balzato agli onori delle cronache per quella vicenda.
«Quale vicenda?».
La famosa lettera alla Gazzetta. Visto che ne parliamo, e visto che sappiamo di cosa parliamo, andiamo subito al dunque: è vero che Miculà va a pane ed acqua?
«Io stimo DeMatteis, ma faccio il team manager. Parto dal presupposto che se uno fa il professionista, lo fa in maniera corretta. Io dico ai medici e ai preparatori cosa voglio dalla squadra, ma poi non vado a dormire coi corridori, non posso sapere minuto per minuto quello che fanno».
Questa è una risposta diplomatica.
«E allora diciamo che lo sport è una cosa, ma è una cosa diversa da quello che facciamo noi. Questo è un lavoro nel vero senso del termine. Lo sport è la pedalata dell'amatore la domenica mattina, la partita di calcetto con gli amici, la nuotata in libertà. Il ciclismo, almeno da quando Magni introdusse le prime sponsorizzazioni negli anni '50, è né più né meno che un lavoro. Privilegiato, certo, perché coincide con la nostra passione, ma pur sempre un lavoro; solo che a differenza di tutti gli altri lavori abbiamo l'antidoping. Che se ci fosse anche in altri ambiti, ci farebbe scoprire quanto doping esiste nella nostra società».
Noi invece abbiamo la certezza di averlo, e di dover in qualche modo fronteggiare il problema.
«Tornando indietro di 20 o 30 anni, magari. Meno corridori, meno corse, meno esasperazione, meno obiettivi da raggiungere. E forse meno spinta a prendere scorciatoie. Qui invece si vuol combattere il doping, e poi però si impone alle squadre di correre da gennaio a novembre: dov'è la coerenza?».
Non nel Pro Tour, evidentemente.
«Ma a parte l'Uci, chi ci ha guadagnato dal Pro Tour? È completamente fuori mercato, costa troppo. Ecco perché gli sponsor non entrano, non certo per il doping. Dall'altra parte ci sono le Continental, che sviliscono l'ambiente e la professione, sono troppo vicine al dilettantismo. Bisogna invece rendere appetibile il prodotto ciclismo: una volta un professionista era stimato e rispettato, perché le differenze col resto dei pedalatori balzavano agli occhi. Oggi invece se prendi un prof e un amatore quasi non c'è distinzione».
Abbiamo lasciato a metà il discorso su DeMatteis.
«Se c'è una persona che DeMatteis deve ringraziare nel ciclismo, quello è Bordonali, che gli ha dato la possibilità di correre per due anni, che ha sempre mantenuto gli impegni presi, che l'ha sempre pagato puntualmente, e che oggi si augura che trovi un'altra sistemazione. Ma io al mattino quando mi alzo devo fare delle scelte: nell'allestire il nuovo team avevo una soglia psicologica, che era di 20 corridori. Di più non ne volevo, e ho detto di no a tanti ragazzi, non solo a Miculà. Magari lui era proprio il 21esimo».
Ma come mai proprio solo 20 corridori?
«Avrei dovuto fare una formazione Pro Tour? Forse non è chiaro che il Pro Tour mi dà la nausea, lo rifiutai già nel 2004, quando me lo proposero, e continuo a rifiutarlo oggi. Perché dovrei impelagarmi in un calendario che mi obbliga a correre qua e là? Non mi interessa proprio. Da quindici anni vivo sulla mia pelle la deriva del ciclismo, da quando ho iniziato a fare il team manager. Ma sono uno che si prende le sue responsabilità e che parla chiaro, quindi sono convinto che se andate a chiedere di me a Miculà non potrà che dirvi cose positive».
Però le vostre strade si sono divise. E dire che lei aveva appoggiato in pieno la decisione di inviare quella lettera.
«Ma guardi che DeMatteis, in teoria, era da confermare anche solo per quella lettera: neanche se avesse vinto la Milano-Sanremo avrebbe avuto sui giornali lo spazio che ha avuto con quella dichiarazione [di estraneità al doping, ndr]».
E allora che cos'è che non quadra? Anche a voler essere puramente cinici, non sarebbe stata un'ottima mossa di marketing per il Team LPR?
«Ma ce ne sono tanti del valore di DeMatteis che hanno smesso. E tanti anche meglio di lui. Altri anche dopo compromessi pesanti. Bisogna mettersi in testa che noi non siamo un'associazione caritatevole, ma una squadra che deve ottenere dei risultati».
Ma risultati anche a livello di immagine, e pare che DeMatteis li avesse ottenuti.
«Parliamoci chiaro: non possiamo guardare sempre solo una faccia della medaglia, perché ce n'è anche un'altra. E come si dice, io la mano sul fuoco non la metto per nessuno. Potrei fare i nomi di milioni di corridori che giuravano e spergiuravano di non prendere niente, e poi... Prendiamo il caso che DeMatteis quest'anno lo beccavano positivo: quanto avrebbe sputtanato la squadra?».
Quindi la lettera, in un modo o nell'altro, c'entra con la sua mancata conferma.
«No che non c'entra. Quelle sono scelte personali che io rispetto e - in questo caso - condivido anche. Ma, appunto, sono scelte personali: perché dovrebbero condizionare le decisioni di chi è chiamato ad allestire una squadra e a rendere conto allo sponsor di determinati risultati? Perché poi lo sponsor vuole le vittorie».
Non ha avuto alcuna pressione per lasciar fuori Miculà?
«Assolutamente no. Io decido da solo. Il ciclismo mi ha stufato 15 anni fa, quando sono sceso dalla bicicletta malgrado tanti mi dicessero di continuare a prendere due o tre anni di stipendio da corridore; oggi faccio semplicemente un lavoro, e faccio le mie scelte in totale autonomia, assumendomi sempre la responsabilità di quel che faccio. Ecco, questa è la grande malattia dei nostri giorni: tanti non si prendono le proprie responsabilità, ed ecco che poi arrivano mille scusanti per giustificare la mancanza di risultati».
Per non parlare solo di DeMatteis, dicevamo che c'era anche Solari tra gli esclusi eccellenti del nuovo Team LPR.
«Stesso discorso: fosse per la caratura morale, questi ragazzi andrebbero tenuti tutti: nel ciclismo è difficile trovare cattivi soggetti, perché è un'attività che comporta tanti sacrifici. Però siam sempre lì: io devo prendere in esame delle valutazioni tecniche, e su quelle mi baso per mettere insieme una squadra. Però, ripeto, essendo sempre franco coi miei dipendenti, così come lo sono stato con Solari e con DeMatteis».
A cui però ha tolto la bici...
«Non io! Il 31 dicembre 2007 scadeva il contratto con Pinarello, ed entro il 30 novembre dovevamo rendergli le biciclette e tutti i materiali che ci aveva messo a disposizione. La bici non era né di DeMatteis né di Bordonali. E del resto anche 20 anni fa funzionava così: a fine stagione dovevi dare indietro la bici, e averne una tua con cui allenarti fino all'anno nuovo».
Rimpiange molto i tempi andati.
«Come si fa a non rimpiangerli? Tutto è peggiorato nel ciclismo, a tutti i livelli. Faccio un esempio: qualche mese fa sono andato ad assistere a una corsa di dilettanti nel bresciano: 100 corridori al via, vince un 25enne. Ma dev'essere il contrario, 100 dovrebbero correre tra i professionisti, e 250 nei dilettanti. Il problema è che ormai anche il ciclismo dilettantistico è diventato un lavoro: ci vorrebbe un tetto alle sponsorizzazioni, perché chi investe troppo fa sparire le squadre più piccole, basate principalmente sulla passione di chi le gestisce, una passione che porta a mettere quel di più, che significa anche insegnare ai giovani maggiori valori e più educazione. Invece succede che uno a 18 anni prenda tanti soldi, poi chiaramente a 24 non accetti di poter non essere all'altezza del professionismo, e magari paga per correre».
Una situazione tristemente diffusa.
«Perché metà gruppo non ha dignità né rispetto di se stessi. Sono ragazzi disposti a firmare qualsiasi cosa. Cade un nuovo regolamento dal cielo? Loro firmano».
È che il loro sindacato è come se non ci fosse: quando rivedremo un bello sciopero come quelli dei tempi di Moser e Hinault?
«E torniamo sempre lì, al ciclismo di 20-30 anni fa. Qui ognuno pensa solo per sé, anche perché non abbiamo durata, con un colpo di vento veniamo spazzati via, come si fa a dare continuità a qualsiasi discorso? Ma il problema è anche un altro: come può coincidere l'interesse di chi gira in Ferrari con quello di chi paga per correre?».
Troppi corridori che diventano professionisti?
«Troppi, troppi. E disposti a tutto, a pagare per correre. Intendiamoci: per un anno posso anche soprassedere, può capitare che ci siano determinate condizioni che spingono un giovane a darsi un'altra possibilità, a investire su se stesso. Ma non quando l'andazzo si protrae: ci sono corridori che vanno avanti così per 5, 6 anni: li mantiene la famiglia che gli dà i soldi per mangiare la pizza con la fidanzata, e invece a questi ragazzi bisogna dire chiaramente che stanno perdendo tempo».
Emerge un quadro devastante.
«Come potrebbe essere diversamente? Per gestire il ciclismo servirebbe politica più marciapiede: invece all'UCI pretendono di comandare tutto dalle loro poltrone, e non scendono mai tra noi per capire come stanno veramente le cose. E in più, fanno anche scelte discutibili: ma come, dopo lo scoppio della bolla nel calcio, con squadre che sono fallite perché vivevano al di sopra dei loro mezzi, arriviamo noi intelligentoni col Pro Tour a cercare di battere la stessa strada perversa?».
Bocciatura su tutta la linea per l'UCI?
«Troppe regole liberamente interpretabili a seconda del caso, troppa confusione; la verità è che ci hanno messi a 90°, e noi sottostiamo. E gli sponsor se ne fregano, tanto se le cose vanno male fanno in fretta a chiudere la baracca e andare a investire nel tamburello, dopo aver succhiato tutto quello che potevano succhiare. Quando da un giorno all'altro chiuse la Mapei rimasero in mezzo a una strada 70 famiglie di persone che lavoravano nello staff, ma nessuno parla mai dei massaggiatori o dei meccanici».
Come si permette di criticare Squinzi, che ora sponsorizza lo sport più pulito del mondo?
«Bella storia».
 

 

Marco Grassi

 


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