Maginot Di Rocco - In trincea con la Fci: «Uci, sbagli»
Versione stampabileUna passeggiata a piedi tra il Salone d'Onore del Coni e i campi da tennis del Foro Italico, dove è stato allestito il pranzo, passando sotto lo Stadio Olimpico, in compagnia di Renato Di Rocco. Una breve passeggiata, a concludere la bella festa organizzata dalla Federazione Ciclistica Italiana per suggellare l'ottima annata dei colori azzurri in bicicletta, che ci ha permesso di fare una chiacchierata, sotto il cielo limpido di Roma, con il numero uno del ciclismo italiano, spaziando tra educazione stradale, rilancio della bicicletta, programmi federali, doping ed Unione Ciclistica Internazionale. La prima domanda la fa lui a noi: «Allora, piaciuta la cerimonia?».
È stata sicuramente un bell'appuntamento, viste anche le presenze di Prodi e Melandri. Sono segnali importanti, queste due rappresentanze dello Stato, dopo l'appello lanciato da Petrucci durante la presentazione del Giro d'Italia, quando il presidente del Coni ha ricordato alle istituzioni che l'Italia non è solo calcio, con gli Europei 2012, ma è anche tanto altro, o sono da leggersi solamente come "visite di cortesia"?
«Devo dare atto a questo Governo del fatto di essere molto vicino ai nostri richiami. Forse dipende anche da Prodi, che è un praticante tesserato Fci, ma parlando seriamente credo più che avendo avuto un'esperienza a livello europea, l'attuale presidente del Consiglio abbia visto qual è il grado di civiltà verso la bicicletta raggiunto nel Nord Europa, sia a livello stradale, sia a livello ecologico, livelli che la Fci sta cercando di raggiungere. In più mi sento di fare un plauso alla coraggiosa linea intrapresa dalla Ministro Melandri, al fine di civilizzare gli italiani attraverso lo sport. Un segnale forte, anche perché da alcuni nostri progetti ci risulta che molti giovani di oggi non sanno andare in bicicletta a 6-7 anni, ed è preoccupante esattamente come il fatto che tanti bambini non sappiano nuotare, nonostante la nostra nazione sia una penisola. Sono fenomeni e problemi più sociali che sportivi. La Ministro sta diventando il difensore civico dell'attività sportiva, certamente aiutata anche dal lavoro delle varie federazioni nazionali che hanno raggiunto tutte ottimi traguardi. Con il Ministero dell'istruzione, inoltre, abbiamo attuato un progetto di donazione di vari tricicli alle scuole, e da parte dei direttori scolastici abbiamo avuto dei riscontri più che positivi: erano addirittura sorpresi del fatto che glieli avessimo mandati, dopo averglieli promessi. In più abbiamo regalato una piantina con i vari giochini, percorsi, per testimoniare che non cerchiamo "propaganda", ma semplicemente cercare di far divertire in maniera diversa i bambini. Anche con le scuole superiori abbiamo lanciato il progetto Velothon, e siamo riusciti a mettere in bicicletta 48.000 alunni di 357 scuole: numeri che ritengo straordinari per essere il primo anno. In più abbiamo pianificato cinque eventi benefici, grazie ai quali il nostro sponsor ha devoluto 1 euro pagato da ogni bambino partecipante alla costruzione di scuole e case nel terzo mondo. Questa è una linea che puntiamo a mantenere, così come puntiamo al rilancio del fuoristrada, anche grazie ad alcune regioni che hanno riconosciuto la qualifica di "maestro di mountain-bike" come albo regionale, in modo tale da completare attraverso la bicicletta il rilancio turistico e promozionale delle nostre belle città, sia al mare sia in montagna».
L'importanza di veicolare il messaggio ai giovani è strettamente legata all'educazione ed alla sicurezza stradale. Da un canto il ritorno in auge dei velodromi e dall'altro l'ampliamento della rete delle piste ciclabili possono essere visti come i progetti portanti?
«Sì, stiamo lavorando su questo in strettissima collaborazione con il ministero, in primis proprio sull'ampliamento delle piste ciclabili, un progetto che può coinvolgere, come già detto, anche la promozione turistica delle cittadine. Ma anche per un discorso di salute: sappiamo che tra i 7 e i 12 anni sono molti i bambini obesi, e dar loro uno spazio sicuro dove praticare un'attività sportiva può indurre anche le famiglie a fidarsi di più del mezzo "bicicletta". Non siamo soltanto dirigenti sportivi, ma siamo innanzitutto dei cittadini italiani. Il futuro è la bicicletta: abbiamo strettissimi rapporti con le città "ciclistiche" di Ferrara, Parma, Reggio Emilia, Padova, Bolzano, dove addirittura si è realizzata la pista ciclabile più lunga d'Italia, con partenza proprio da Bolzano e fine nei dintorni del Lago di Garda, e vi assicuro che ci vediamo soltanto turisti stranieri. La cultura del turista italiano, purtroppo, non è ancora rivolta a questo. Il turista italiano invece è molto attratto dall'offerta turistica austriaca, dove c'è lo spazio per il meccanico, per lavare le biciclette, custodirle durante la notte e treni e percorsi ad hoc per l'utilizzo esclusivo della bicicletta. Arrivare a questo traguardo è per noi fondamentale. E l'altro aspetto riguarda i velodromi, e per due aspetti fondamentali: uno è prettamente tecnico, per via del bagaglio che può fornire la pista tramite le sue specialità, il rapporto fisso, il contatto gomito a gomito con il compagno; e dall'altra perché al di fuori dell'anello stiamo allestendo degli spazi protetti dove insegniamo ai ragazzi l'educazione stradale. Faccio l'esempio di Padova, dove il progetto è già lanciato da più di un anno: le scuole ci vengono a trovare in questo spazio protetto, i bambini conoscono e prendono confidenza con le biciclettine e poi sono gli stessi vigili del Comune di Padova ad insegnare loro il significato dei cartelli stradali principali. Possiamo essere anche utili e propedeutici, insegnando l'educazione stradale agli italiani sin da bambini. Il problema del ciclismo, senza nasconderci, riguardano in fondo questi due grandi rami: la salute e la sicurezza. E fornendo progetti gratuiti alle amministrazioni comunali abbiamo già raggiunto un incremento di 34 circuiti ciclabili in tutta Italia, con 8 piste ciclabili nella sola Umbria, trovando dunque un'apertura anche nelle regioni meno sensibili al ciclismo verso questo progetto della Fci. Soprattutto per le fasce più sensibili, che riguardano i bambini fino ai 14 anni, credo che progetti simili possano consentirci di affrontare corse ed allenamenti in tutta sicurezza».
La sensazione è che tanti si riempiano la bocca parlando di "doping", ma in pochi fanno caso alla "sicurezza sulle strade". C'è un modo per scindere il connubio "doping=ciclismo" che è tanto deleterio quanto inverosimile, visto che tanti altri sport hanno da fare i conti con tale piaga?
«Quest'ultimo anno, pur avendo trovato positivi alcuni atleti, abbiamo evitato la loro demonizzazione sbattendoli in prima pagina. La prevenzione e la cultura può essere fatta anche sotto questo aspetto, dunque. Il dramma esiste non solo per il ciclismo, non solo per l'Italia, ma investe tutto lo sport mondiale. Da parte nostra c'è grande senso di responsabilità e la voglia di non abbassare la guardia, ma anche la volontà di affrontare la questione in maniera culturale, e lo stiamo facendo coinvolgendo gli atleti in un grande numero di convocazioni nazionali anche in discipline non olimpiche come il ciclocross. Lo facciamo per dare un segnale, per far capire che la Fci può educare l'atleta a prepararsi dal punto di vista tecnico, scoraggiandolo così a cercare scorciatoie per emergere. Per cui la determinazione nel non abbassare la guardia l'accompagniamo con questa crescente ricerca nell'educare tecnicamente l'atleta non facendolo sentire mai solo».
Parlando di professionismo, l'Uci e la Fci hanno affrontato in maniera diametralmente opposta l'ormai famigerata questione dell'Operacíon Puerto. Questa differenza di vedute è un problema che può ripercuotersi sui ciclisti, che poi sono i veri attori di questo sport?
«Assolutamente sì. Il timore è proprio quello. Abbiamo alzato il livello di confronto con l'Unione Internazionale proprio per farli ragionare. L'Uci sta portando avanti un metodo che guarda esclusivamente a fini economici, mentre noi vorremmo che fossero salvaguardati i discorsi tecnici, ovviamente anche perseguendo dei fini economici, visto che poi vengono richiesti. Il problema è reale anche perché adesso sembra che ci sia quasi una "caccia" verso Basso ed Ullrich, mentre invece se una legge deve essere applicata deve essere applicata con tutti i 58 ciclisti presunti coinvolti in Operacíon Puerto. Andare a cercare di colpire soltanto i due ciclisti che hanno maggiore immagine è qualcosa di demagogico e di eticamente insostenibile. Peraltro, proprio sul caso Basso, noi abbiamo alzato la voce proprio per questo: l'Uci ci aveva detto di aprire un procedimento disciplinare. In Italia abbiamo la fortuna che dei procedimenti disciplinari se ne occupa la procura dell'antidoping del Coni, istituzione che non è legata a noi in alcuna maniera, per cui noi eravamo sereni e tranquilli e al Coni hanno potuto lavorare in completa autonomia. Nel momento in cui il procedimento è stato fatto ed è stato poi successivamente chiuso, perché non sussistevano argomenti per tenerlo aperto, dall'Uci ci hanno detto che non dovevamo chiuderlo. Ma allora perché il procedimento disciplinare non l'ha aperto l'Uci? Qui entrano in ballo anche delle responsabilità: perché se l'Uci pensa che questa "operazione" possa portare a dei risultati, che apra dei procedimenti e se ne assuma la responsabilità. Noi non possiamo non considerare la legge sulla privacy, il diritto al lavoro, ci sono tanti vincoli in Italia per via della legge 91, e non capisco perché dobbiamo rischiare noi in luogo loro, che vivono in un regime governativo e legislativo completamente differente».
E sulla querelle con i Grandi Giri?
«L'Uci non dialoga con i Grandi Giri, soprattutto sul numero delle licenze. I Grandi Giri che sono sostenuti da noi federazioni, perché hanno detto all'Unione Internazionale: "Voi Uci avete dato queste licenze, non datene altre. Noi rispettiamo gli impegni che avete preso, invitando tutte le 18 squadre che hanno già la licenza, anche se non condividiamo il meccanismo chiuso delle licenze, ma lasciateci invitare 4 squadre e non 2, così noi vi garantiamo la partecipazione dei Grandi Giri al circuito Pro Tour". Era un venirsi incontro che l'Uci non ha ha voluto capire, visto che ha dato la diciannovesima licenza [alla Unibet.com, ndr] e presto ne darà un'altra [poi assegnata all'Astana Team, ndr] per arrivare a 20 licenze, che è un numero assurdo. Abbiamo quindi un'Unione Ciclistica Internazionale che non ha un senso logico».
Nel comunicato in cui i Grandi Giri hanno ufficializzato la loro uscita dal Pro Tour, c'è un punto, il cinque, che dà discrezionalità agli organizzatori nel non invitare squadre e corridori che possono ledere l'immagine della corsa. Cambia dunque soltanto l'arbitrarietà, degli organizzatori e non più dell'Uci?
«È un articolo verso il quale noi federazioni abbiamo già espresso la nostra riserva, ma è un articolo che fa parte dei regolamenti Uci e che praticamente è stato già in vigore nel 2006, e faccio l'esempio del Tour de France, con la decisione dei team manager e non dell'Uci, e del Giro di Lombardia, con il mancato protocollo delle premiazioni, che tra l'altro vedevano anche Bettini vincitore con la massima effigie della stessa Uci, la maglia di campione del mondo. Questo è un chiaro segnale di incompetenza: l'Uci vuole fare marketing, ma alla fine dimostra di non saperlo fare. Secondo me l'Uci cammina senza alcuna rotta».
È così difficile capire che determinate politiche portano all'esasperazione i tifosi e gli appassionati di ciclismo e danneggiano i corridori?
«Questa è la cosa che spaventa di più, almeno noi. La disaffezione del pubblico è un danno per tutti. Lo sponsor non è ripagato dalla vittoria di un campione in una grande corsa se poi questo campione non ha alcun contatto pubblicitario con il pubblico, è questo è un problema. Lo ripeto: ho detto a tempo debito che il Pro Tour sarebbe stato una bufala, una bufala si è rivelata, ma purtroppo abbiamo un'Unione Ciclistica Internazionale che non riesce a capire lo spirito intrinseco del ciclismo».
Non riesce o non vuole?
«Secondo me non vuole per motivi economici. Avere 20 squadre significa avere 50.000 euro da ogni squadra, un portafoglio piuttosto considerevole. Si cerca l'espansione, che può anche starci sotto alcuni punti di vista, ad esempio la proposta dei Campionati del Mondo in Bahrein per il 2010 l'abbiamo considerata, ovviamente, a patto che ci sia una quattro giorni ben organizzata, attraverso la quale il ciclismo europeo possa lanciare un messaggio promozionale, anche sacrificandosi un pochino, ma comunque per una giusta causa. Cercare di coinvolgere gli altri Stati offuscando la Vuelta a España e il Giro d'Italia, contrapponendoli al Giro di Polonia ed al Giro di Germania, testimonia l'evidenza di quanto l'Uci stia bluffando».
Il lavoro con le altre cinque federazioni europee come procede?
«Bene, ci siamo incontrati prima della presentazione della Vuelta a Madrid, seguendo il comunicato dei Grandi Giri, proprio per testimoniare il nostro appoggio agli organizzatori dei GT. Il risultato è che adesso l'Uci non vuole dialogare neanche con le federazioni, anche se in fondo il lavoro dell'Uci è scaturito dal lavoro delle federazioni nazionali, e noi siamo soci dell'Unione Internazionale. Ancora per un po' prevedo tempi niente affatto sereni».
È così difficile raggruppare i corridori in un sindacato serio?
«Il problema del Cpa [Sindacato Corridori Europei, ndr] è che i corridori vogliono scegliere in maniera autonoma i propri rappresentanti, così come avviene in Italia. Quella sarebbe una rappresentanza democratica ed "etica", visto che ultimamente va tanto di moda questo termine. E invece nel Cpa vengono mano a mano rimossi tutti coloro che si trovano in disaccordo con le decisioni degli altri enti, e le sostituzioni vengono fatte con altri corridori che sono sulla lunghezza d'onda dell'Uci. Non credo che questa sia una rappresentanza seria. Tramite elezioni e tramite un rappresentante per ogni squadra, invece, il sindacato sarebbe molto più meritocratico. I corridori sono maturi per far sentire la propria voce».
Anche qui c'è la netta sensazione che non si voglia un sindacato dei corridori serio.
«Infatti l'Uci vuole applicare un Codice Etico che ha soltanto la parvenza dell'etica. Un codice che si definisce "etico" deve partire da alcuni capisaldi imprescindibili quali la democrazia, l'autonomia dell'ente disciplinare...».
...la presunzione d'innocenza...
«...questa può essere un'optional, perché si potrebbe agire anche con una paritaria presunzione di colpevolezza, ma adesso come adesso non si governa né con l'una né con l'altra presunzione. La sensazione è che ci sia grande arroganza e presunzione da parte del massimo organismo ciclistico mondiale, e purtroppo se non si è aperti al dialogo non si riesce ad andare lontano».
Un desiderio per il 2007?
«Riunirsi tutti in una stanza, parlare di quello che serve, darsi anche qualche schiaffo se è necessario, ma una volta usciti da quella stanza fare un percorso serio per il ciclismo, altrimenti la gente non ci capisce più niente».