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Infinito Konyshev - Gran fuga di Dimitri, vince McEwen

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Questo articolo non è un articolo, ma un'apologia: un'apologia di Dimitri Konyshev.
Questo corridore si affacciò al professionismo quando gli adolescenti di oggi non erano ancora nati, quando i giovani andavano all'asilo, quando gli adulti studiavano e quando i pensionati lavoravano. Quando Adriano De Zan, mai rimpianto abbastanza, lo adorava e non ne faceva mistero, innamorato dello stile di questo sovietico un po' atipico, radici da atleta dell'Armata Rossa, come tutti i suoi connazionali all'epoca, ma ghigno sornione, consapevolezza delle sue (enormi) potenzialità e, forse proprio figlia di tale consapevolezza, poca voglia di lavorare.
Che Dima Konyshev fosse il più talentuoso della covata di ciclisti che vennero a correre nell'Alfa Lum di Primo Franchini, nel 1989, nessuno lo potè mai mettere in dubbio; ma che fosse anche quello che avrebbe raccolto di meno, in rapporto alle possibilità, questo non è opinabile, è verità storica. Nel 1989, nell'anno del suo esordio tra i big, quando il Muro di Berlino doveva ancora cadere e quei ragazzi dell'Est muovevano i primi passi in un mondo che era completamente agli antipodi rispetto a tutto quello che fin lì avevano conosciuto, Konyshev si piazzò secondo al Mondiale di Chambery, nel giorno di Lemond; nel 1992, all'indomani del crollo del gigante sovietico, in un'epoca politicamente e geograficamente incertissima, colse un'altra medaglia iridata, stavolta un bronzo, a Benidorm, mentre Bugno si fregiava del secondo Mondiale consecutivo.
Che queste due presenze sui podi mondiali siano rimaste le due più elevate vette della carriera di Konyshev, uno capace di vincere 4 tappe al Giro e 4 al Tour, di essere campione nazionale sovietico nel 1990 e poi solo russo nel 1993 e nel 2001, di conoscere una bella rinascita in età già avanzata, tra il '99 e il 2001 (due Sabatini, un Romagna, un Fourmies), è esemplare della sua carriera di dissipazione. Per tornare a De Zan, "se Konyshev si allenasse per bene, cosa potrebbe vincere?".
Trovare una risposta a questo dubbio è ormai utopia (mentre la diatriba tra Konychev con la c e Konyshev con la s l'abbiamo ormai archiviata in favore di quest'ultima dizione): gli anni sono passati, si sono sovrapposti l'uno all'altro, le foto anche se erano a colori si sono ingiallite lo stesso, e il giovane Konyshev, quello che avrebbe potuto dare adito ancora a qualche rimpianto, non c'è più da oltre un decennio. Ha lasciato il posto ad un corridore via via più maturo, sempre il solito gattone beffardo, il solito scavezzacollo in discesa, il solito punto di riferimento di un gruppo che è totalmente cambiato intorno a lui: andate pure a spulciare gli almanacchi, tutti quelli che correvano in gruppo con Dimitri in quel lontano e fatidico 1989 non ci sono più. C'è chi è salito in ammiraglia, chi si è accomodato dietro ad un microfono, chi è rimasto a vario titolo nel ciclismo e pure chi se n'è andato proprio e fa tutt'altro.
È lui l'ultimo sopravvissuto del ciclismo degli anni '80, il ciclismo che non aveva ancora conosciuto l'onta dell'Epo (perlomeno non si sapeva che ci fosse, ma qualcuno già la usava), il ciclismo pre-ItalianRenaissance, il ciclismo che non sapeva cosa fosse la programmazione esasperata, si correva da marzo a ottobre, e sempre per vincere (anche se Lemond iniziava a fare lo schizzinoso, e veniva al Giro solo per preparare il Tour, orrore!, peccato che poi questa china divenne praticamente irreversibile, almeno fino a Marco Pantani e, oggi, Ivan Basso).
Quando Konyshev iniziava, finivano Saronni e Moser, e Hinault, e Visentini, e la scena era dominata dai Lemond, dai Fignon, e poi dagli Indurain e Bugno e Chiappucci. Il transatlantico Dimitri, battente bandiera apolide, russo per caso, italiano per adozione, cosmopolita per indole, ha attraversato i mari di epoche diverse, ha traghettato la sua arte da un ciclismo che oggi ci appare come ancora romantico e dedito a una certa improvvisazione, a quello odierno, scientifico, quasi meccanico negli allenamenti, nelle tattiche, dal ciclismo delle sensazioni a quello delle radioline, e non stiamo ovviamente esprimendo giudizi di merito, perché il ciclismo delle radioline, che poi è quello che vediamo quotidianamente, ci piace da matti, esattamente come ci piaceva quello di 15 e 20 anni fa.
Ma Konyshev, Konyshev. Konyshev ha compiuto 40 anni in febbraio, ed è ancora lì a prendere freddo e pioggia. È un monumento nazionale, di più, è un monumento internazionale, per piacere signori amici della Roubaix, preservatelo voi come già fate con le vostre pietre. Che il tempo che si ostina a scorrere ancora non ce lo scalfisca ulteriormente, il nostro Dimitri, che ce lo lasci con un minimo almeno di voglia di mettersi alla prova, quando gli va, quando gli gira, ma sempre col massimo dell'onestà, perché lo stipendio non lo vuole certo rubare, figurarsi, non lo rubava quando correva nelle squadre importanti, non lo farà certo nella piccola L.P.R. di oggi.
Però questo splendido fossile vivente (lo scrive col massimo rispetto un amante della paleontologia), quest'entità che commuove a vederla muoversi in gruppo col piglio dei giorni migliori, questo fantastico atleta ha un motore che funziona ancora alla grande, e che gli permette, oggi, di inventarsi una fuga ultracentenaria, ultracentenaria nel senso dei chilometri, ovviamente: 123, per la precisione, nelle strade romande intorno a Payerne, con la pioggia che batte e il gruppo che per un po' lascia fare, e poi però si mette a inseguire, e si sa che quando quelli dietro fanno sul serio, non è mai facile per chi è all'attacco (poi vince MagicEwen sui nostri Lorenzetto, Bennati e Gasparotto; ma per un giorno la cronaca la lasciamo da parte).
Se c'è uno sport che è la sublimazione degli attacchi folli, insensati, fini a se stessi e a un'idea puramente estetica dell'atto fisico, quello è il ciclismo; e se nel ciclismo un esemplare di 40 anni tondi si concede e ci concede un'azione come quella cui abbiamo potuto assistere oggi, questa è davvero la sintesi della follia e della bellezza, la follia nella bellezza, la bellezza nella follia. Non serve a niente, diranno gli almanaccari, ma sì che serve invece, è una fuga contro il vento e contro il gruppo, ma soprattutto contro il tempo, quel tempo che insiste, quello che rema contro, quello che vuole a tutti i costi passare, su di noi, sul nostro presente che diventa immediatamente ricordi, sulla nostra testa che si ribella. Già, la testa: "Le gambe non seguivano più la testa", disse Cipollini annunciando il suo ritiro. Nel caso di Konyshev, questo assunto non è ancora vero (per fortuna, ragazzi): le gambe la seguono, quella testa che a tanti parve sfasata. Forse proprio per questo, forse il segreto è lo sfasamento. Questo sfasato di Konyshev ci dà ancora saggi, ci fa ancora divertire. Che bella la vita, a 40 anni.

Marco Grassi

 

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