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L'autunno del patriarca - Intervista a Ferretti, ex tm Fassa

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Per anni è stato uno dei più vincenti direttori sportivi del ciclismo italiano. Dopo aver accompagnato a successi importanti corridori come Argentin, Sorensen, Bartoli, ha guidato l'esplosione di Alessandro Petacchi, l'ultimo dei suoi pupilli, forse il più amato. Ora però Giancarlo Ferretti, il decano dei nostri diesse, è senza ammiraglia: dopo i trionfi con la Fassa Bortolo e l'uscita di scena dello sponsor veneto, "Ferron" non è riuscito ad allestire una nuova formazione di vertice, e ha preferito star fermo un giro.
Un'uscita di scena inattesa, la sua: cosa prova?
«Non si può dire che non fossi preparato all'eventualità: per tutto l'anno, sin dalla fine del 2004, cercavo un nuovo sponsor. Il fatto che non l'abbia trovato non è stato quindi un fulmine a ciel sereno».
Eppure a un certo punto la squadra sembrava fatta, con Sony-Ericsson sulle maglie e tanti corridori forti in formazione. Poi cos'è accaduto?
«È successo che l'intermediario con cui trattavo mi ha fatto conoscere uno svedese, presunto rappresentante dell'azienda, che poi in realtà non c'è più stato. E l'intermediario, ovviamente, è stato denunciato e subirà un processo».
Adesso che prospettive ha?
«Nessuna. A un certo punto ho smesso di cercare altri sponsor perché era tardi per mettere insieme una squadra. Io sono nel ciclismo dal 1973, sono tanti anni; non ho l'età per fare lunghe pause, rischio poi di diventare troppo vecchio e di perdere l'abitudine al dinamismo che serve in questo lavoro. Si tratterà di trovare un nuovo sponsor, ma non uno qualsiasi: è necessario avere a che fare con aziende importanti».
Ma se uno della sua esperienza è incappato in una simile storia, questo significa che il ciclismo sconta un management non all'altezza delle necessità attuali?
«I rappresentanti delle aziende che investono nel ciclismo sanno bene cosa vogliono; e noi del ciclismo sappiamo parlare bene, io non ho mai promesso numeri, ma ho sempre spiegato la forza del ciclismo. Anche noi abbiamo fatto studi che ci permettono di parlare, non vendiamo vino per acqua».
Fassa ha detto che potrebbe rientrare nel giro, nei prossimi anni.
«Sì, ma non è facile, e lui per primo lo dice. Ci vogliono milioni su milioni; ma immagino che se avrà una nuova linea di prodotti da lanciare, possa provare a rientrare nel ciclismo che conta».
In quel caso la richiamerebbe alla guida dell'ammiraglia?
«Mi richiamerebbe?».
Ce lo dica lei.
«Quando ha iniziato col ciclismo aveva 5 stabilimenti. Ora ne ha 12, e lo conoscono tutti in tutto il mondo. E questo grazie a chi?».
Quindi la richiamerebbe.
«Se le cose vanno come devono andare, certo che mi richiama! Con chi volete che costruisca una nuova squadra?».
Che ne pensa del Pro Tour? È vero che favorisce i più forti?
«Il Pro Tour ha dei vantaggi, certo c'è anche qualcosa da correggere».
4 anni non sono troppi per le licenze? Magari qualche sponsor non se la sente di investire per un periodo così lungo, e evita di avvicinarsi al ciclismo.
«No, 4 anni non rappresentano un impegno lungo, anzi! Sono il minimo, se si vuole avere un ritorno d'immagine».
Però è anche più difficile il ricambio tra squadre.
«Questo è vero. Per questo dico che bisogna vedere che ciclismo troverei, se tornassi in sella. Nel Pro Tour ci sono 20 squadre, e quelle sono. Se nel calcio la Juve arriva ultima, anche se è la Juve va in serie B; nel Pro Tour no, è difficile entrare perché non si liberano dei posti».
Si diceva che lei potesse trovare posto con Masciarelli, alla Acqua & Sapone.
«Io con Masciarelli? Semmai Masciarelli con me! Io ho vinto 900 corse, non devo per forza stare nel ciclismo, ho già di che vivere. Mi faccio una squadra Continental? Ma per rientrare a fare cosa, per correre in Cina, in Slovenia, in Malesia? Ne vale la pena? Dopo essere stato ai massimi livelli, rientrerei solo nel ciclismo che conta. Oppure con una squadra anche piccola, ma che potesse ambire a salire fino ai massimi livelli. Ma purtroppo il sistema è questo, non ci sono le retrocessioni dal Pro Tour, e perciò non ci sarebbero stimoli nemmeno a partire dal basso, perché più su di un certo livello non si può più andare. È come il tabaccaio: ti danno la licenza, e te la tieni per tutta la vita. Ma lo sport non è così, lo sport si basa su altri termini».
Quindi meno squadre per un Pro Tour migliore, e la possibilità di un ricambio.
«Attualmente il Pro Tour non è regolato da una legge sportiva, ma solo economica. Paghi, e tutto va bene, e pazienza se poi non ottieni nessun risultato. Ho visto squadre andare alle corse solo per fare atto di presenza, ma io dico che noi siamo lavoratori che pagano i contributi all'Enpals, non all'Inail: noi facciamo parte del mondo dello spettacolo, e dobbiamo dare spettacolo, siamo pagati per questo. Bisogna correre bene, farsi vedere, andare all'attacco, essere presenti, magari un corridore può esserci solo da marzo a maggio, ma quei tre mesi li deve fare bene».
A proposito di squadre che fanno atto di presenza, come vede 5 team francesi nel Pro Tour 2006?
«La Francia ha un solo corridore discreto: Moncoutie. Gli altri non sono all'altezza degli italiani, eppure anche l'AG2R è entrata nel circuito. L'ho detto, basta pagare».
Non sarà che se ci fossero meno corse, le squadre potrebbero spremersi meno ed essere più competitive?
«Questo è un altro punto della questione: il calendario Pro Tour è in effetti troppo folto, andava bene anche senza il Giro del Benelux o della Polonia, o senza l'inutile cronosquadre di Eindhoven. Magari con corse che entrano nella challenge a rotazione, un anno la Tre Valli, un anno il Giro del Lazio, un anno l'Emilia, un anno Plouay».
Torniamo alla strada: Petacchi si ripeterà nel 2006?
«Penso di sì».
Non ha finito benissimo il 2005, col Mondiale andato male e la rinuncia a cercare un'immediata rivincita alla Parigi-Tours: i tifosi non sono stati contenti di questa scelta.
«Queste cose le dicono le malelingue, non i tifosi veri. Petacchi nel 2005 è stato bravissimo, ha vinto oltre 25 corse, la Milano-Sanremo, tappe al Giro, alla Vuelta. È un velocista, ha vinto tanto, che deve fare di più? Ha sbagliato a Madrid, ma capita a tutti di sbagliare una giornata; sono anni che corre due grandi giri in una stagione e li porta a termine, e qui ancora si sente dire che non ha carattere».
Più in generale, come sarà il 2006 appena iniziato?
«Sarà un anno di interrogativi: Petacchi si ripeterà? Senza Armstrong, Basso vincerà il Tour? Heras sarà riabilitato? Di Luca si confermerà ad alti livelli? Cunego tornerà quello del 2004? Solo a parlare di queste cose, mi entusiasmo. Naturalmente spero che gli italiani vadano bene, spero che Cunego si riprenda dopo il passaggio a vuoto patito nel 2005. Penso che Basso andrà meglio al Giro piuttosto che al Tour; Petacchi - l'ho già detto - lo vedo molto bene, è all'apice della carriera».
E i giovani? Che ci dice di Nibali, per esempio, suo corridore l'anno scorso?
«Che è ancora troppo giovane, ci vogliono almeno altri due anni per vederlo esprimersi ad alti livelli. Purtroppo coi giovani l'errore è sempre in agguato: se uno di loro è atteso e vince una o due corsette, diventa subito un campione, la stampa e i tifosi gli mettono troppa pressione addosso, e il ragazzo si crede già Gesù Cristo quando non è ancora nemmeno un apostolo. I giovani hanno bisogno di tempo e di tranquillità, e di programmi leggeri, all'inizio della carriera da professionisti».
Lei aveva fama da burbero, ma con Petacchi è parso addolcirsi.
«Senta, ma perché mi provoca?».
Nessuna provocazione, è una voce diffusa in gruppo.
«Non è vero! Io ho sempre fatto ciclismo in maniera seria, e allora alcuni subito a dire che ero burbero... Chiedetelo ai miei ciclisti, se ero burbero. Non è che con Petacchi mi sia addolcito, ma è che lui ha vinto più di tutti, 105 corse in 6 anni, e allora se gli ho concesso qualcosa, se ho accettato qualche diversità è perché poi lui, quando gli toccava, vinceva sempre, senza tante storie».
Il 2005 le ha regalato anche il caso Frigo.
«Non l'ho più sentito, né intendo farlo. Sarò anche stato duro, ma quando uno ripete gli stessi errori... Un conto è tagliarsi un'unghia, un conto un dito o una mano. Io spero che lui stia bene, che abbia altre occasioni nella vita, ma che non si faccia più vedere nel ciclismo».
Però il pubblico si è un po' stufato di questo gioco delle parti. Nessuno in gruppo osa dubitare di un Armstrong che come se niente fosse sopravvive a un cancro e poi vince 7 Tour; poi, guarda caso, vengono fuori delle prove (illegittime, ma prove) che si dopava. Invece il pesce piccolo Frigo, se lo pescano, è una canaglia.
«Non ho capito la domanda, dove vuole arrivare?».
È mai possibile che ogni volta che viene trovato positivo un corridore, il direttore sportivo cada sempre dal pero? È possibile che mai nessuno all'interno della squadra sappia niente, prima?
«Ma qui nessuno cade o non cade dal pero! Alcuni sanno, altri no, e garantisco che stanno molto attenti! Ma guardate che Fassa può aver smesso anche per questo, per il caso di Frigo! Ma io mando a spasso 52 persone della mia struttura pur di vincere una corsa in più? Ma mi prendete per matto?».
Chi ha fatto la soffiata alla Géndarmerie che ha fermato la moglie di Frigo con le sostanze dopanti in macchina?
«Non lo so, non lo so! Non ne so niente, non ero in Francia, non so se ci sia stata una soffiata, non ero informato su niente!».
Nessuno sapeva?
«Ma non crediate che noi possiamo seguire sempre, metro per metro, quello che fanno i nostri corridori!».
Ed è sempre stato così?
«Quando 15 anni fa i corridori iniziarono a usare l'Epo, ero a conoscenza di questo nuovo prodotto, sapevo che faceva bene, che aiutava le prestazioni, ma per me era un medicinale come un altro, come il ferro, per dire. Poi si è saputo quello che si è saputo, che faceva male, che rendeva il sangue denso, che poteva causare la leucemia. E allora mi sono spaventato, tutti ci siamo spaventati, e ho iniziato a dire ai miei di smetterla, di non rischiare la salute. E siamo in tanti ad aver agito così. Poi, è normale che ognuno è diverso dagli altri: c'è chi uccide per cinquemila euro, e c'è chi prende pillole per avere un contratto da 500mila euro anziché da 50mila».
Quindi la responsabilità è dei corridori.
«Ognuno pensa di essere lui il più furbo, c'è gente che di colpo inizia ad andare forte. Ma in gruppo si conoscono molti casi; se alcuni corridori quotati, forti, non trovano spazio in squadre di rango, è perché si mormora che usino certe sostanze, e nessun ds che abbia un po' di senno vuole rischiare la faccia. Se alcuni corridori accettano di scendere da 800mila a 300mila euro di ingaggio, è per questo motivo, perché altrimenti nessuno li prenderebbe. I tecnici che cosa possono fare, dal loro punto di vista? Non possono conoscere la medicina, ogni nuovo prodotto: quando vediamo i corridori, noi parliamo di programmi, non di medicine».
E i medici delle squadre?
«Loro hanno la responsabilità di vigilare perché i corridori non facciano stupidaggini, e lo fanno in ogni modo: poi però di fronte a certi attacchi, si inviperiscono: quando si è diffuso l'uso delle centrifughe da parte dei dottori in gruppo, qualcuno ha iniziato a dire che era per verificare che l'ematocrito degli atleti non superasse il 50%; e invece era proprio il contrario, quelle centrifughe servivano per capire se un corridore stava facendo o meno uso di sostanze proibite».
Torniamo ad argomenti più leggeri. Chi, tra i suoi campioni, ricorda con più piacere?
«In tanti mi hanno dato grandi soddisfazioni. Bartoli mi ha vinto 6 classiche in 6/7 anni; c'è Petacchi che è bravissimo; Sorensen ha vinto belle corse, ma soprattutto era un corridore che ti faceva venire la pelle d'oca ogni minuto, sempre in fuga, sempre all'attacco, un'emozione continua; però insomma, sì, Petacchi, una gioia al giorno, quando vinceva».
Rimpianti?
«Tanti. Gli errori fatti in gara, e sono tanti: dirigi la corsa dalla macchina, senza vedere i corridori, è facile sbagliare valutazioni se non puoi guardare come sta il tuo ragazzo e come sta il rivale. Nel calcio è più facile, sei in panchina, hai tutta la situazione sotto gli occhi. Certo, ora ci sono le radioline, ma non sempre funzionano. I maggiori rimpianti, comunque, sono quelli che derivano dalle giornate in cui si perde senza lottare: mi piace vincere, vado alle corse per vincere, non mi sta bene chi va a correre per allenarsi. Si può anche perdere, poi, ma dopo aver lottato».
Le piacerebbe guidare la Nazionale?
«Tempo fa mi avevano proposto qualcosa, ma era un incarico a metà e ho rifiutato. In ogni caso, tra fare il ds e fare il ct, preferisco sempre fare il ds, perché posso seguire i corridori tutto l'anno, mi sento più partecipe, sento più mie le vittorie. Il ct, invece, non ha nemmeno la riprova il giorno dopo, e se un atleta non sta bene, salta tutto il lavoro di un anno».
Le piace internet?
«Non navigo, non so usare il computer e nemmeno voglio imparare. Quando eravamo in gara, la mattina le segretarie mi stampavano le cose che ci riguardavano, io leggevo ed ero sempre aggiornato, la mattina sapevo le cose scritte la sera prima, e la sera sapevo le cose scritte durante il giorno. Comunque, tutto sommato ho un buon rapporto con internet, il bello è che gli articoli rimangono sempre a disposizione, il giornale lo butti, invece su internet hai la comodità di ritrovare tutto quello che ti serve».
Come passa le sue giornate, adesso?
«Ho sempre l'ufficio di quando guidavo la Fassa, mi arrivano ancora materiali, ho l'inventario da fare, e ci sono casi aperti da sistemare: cadute, assicurazioni, rimborsi spese... Certo, tutto è più tranquillo, è chiaro che un anno fa ero più impegnato, sì, mi manca qualcosa... mi ci devo ancora abituare, è solo da poco che non devo pensare a bici, indumenti, borracce, cappellini, hotel... lo ammetto, ho un po' di tristezza. Anche un po' più, di un po' di tristezza».

Marco Grassi    

 

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