Sorensen, fuga felice - Vince il danese, Bettini si ritira
Ragazzi, che fatica scrivere di questa Vuelta quando si arriva al ventesimo giorno, il risultato è già bello che archiviato da tempo e davanti abbiamo ancora tre tappe dall'aria ornamentale.
Domani rivedremo all'opera Petacchi (almeno ci speriamo), dopodomani ci sarà una crono che potrà dare un contentino a Menchov, il battuto di questa edizione, e domenica il gran finale (gran? ci sarà almeno a Madrid un po' di pubblico, o gli appassionati di casa aspetteranno la domenica successiva - il Mondiale - per riversarsi sulle strade?) chiamerà ancora a raccolta quei tre o quattro sprinter rimasti in gara.
Pochi, è vero, perché la stragrande maggioranza ha abbandonato la barca. Si sa che la Vuelta è per tanti corridori solo un'occasione per "fare la gamba" in attesa della corsa iridata; altri ci arrivano sfiatati (quest'anno più che mai: il Pro Tour ha obbligato molti atleti agli straordinari, mentre gli specializzati hanno fatto le loro solite due o tre gare); quindi è più che normale, se vogliamo essere realisti, che ci sia questa grande morìa man mano che si va avanti. Partiti in quasi 200 da Granada, in gruppo sono rimasti meno di 130 ciclisti.
Il piano etico, quello sta da un'altra parte, e se lo si affronta molti storcono il naso. Pazienza, lo storceranno. Oggi, tra i tanti abbandoni, ha salutato la corsa Paolo Bettini, che non è nemmeno nuovo a queste imprese: l'anno scorso lasciò il Giro di Svizzera prima dell'ultima tappa, dopo aver vinto la sua brava frazione il giorno prima, e ovviamente gli organizzatori la presero malissimo. Paolino fece spallucce ed evidentemente non ha perso l'abitudine.
Per carità, non vogliamo gettare la croce addosso al simpatico cecinese: non è l'unico ad avere certi comportamenti, né dev'essere il capro espiatorio della situazione. È anche presumibile che, conquistato il successo l'altro giorno, abbia avuto un calo di stimoli, e il fatto che tra poco più di una settimana ci sarà il Mondiale avrà fatto il resto, facendo passare a Bettini la voglia di perdere tempo in queste ultime frazioni di Vuelta.
Ma siamo sicuri che questo tipo di atteggiamento sia professionale? Non è un piegare le corse (che hanno una loro storia, una loro tradizione, una loro dignità, e non è giusto sminuire tutto questo) al proprio comodo? Non è fare un uso privato di un mezzo pubblico (in fondo la Vuelta è di tutti, di chi la guarda e anche di chi la corre da capo a fondo con impegno)? Noi più volte, in questi anni, ci siamo lamentati che McEwen, al Giro, si ritiri dopo 10-12 tappe, senza altro motivo se non il suo dover preparare anche il Tour. Siamo contenti poi di vedere Magic anche in Francia (ci fa divertire sempre), ma è proprio obbligatorio sacrificare una corsa in nome di un'altra? La domanda è retorica, perché in tempi di specializzazione le cose vanno spesso così, e dovremmo metterci l'anima in pace.
Però segnali contrari ce ne sono: per un Bettini che se ne va, c'è un Petacchi che, coinvolto anche nella lotta per la maglia della classifica a punti (aggiornamento: Heras oggi ha allungato di 4 punti ed è a quota 149, con AleJet fermo a 132 e Menchov in avvicinamento a 128), resta indomito sulla tolda (questa metafora andava bene nel 1932, avete ragione) e non lascia la competizione. Se allarghiamo lo sguardo all'intera annata, abbiamo visto diversi corridori (cercare di) fare bene in almeno due grandi giri: da Basso a Mancebo, gli esempi, anche eccellenti, ci sono. Non si può parlare di inversione di tendenza, ma vedere che c'è chi ci prova scalda il cuore di noi amanti delle cose buone e giuste.
Dopo quest'ampia digressione, questa sorta di corsivo della settimana, possiamo dedicarci ai personaggi del giorno. Prima di tutto, uno che non ha vinto: José Vicente García Acosta è uno dei veterani del gruppo, ce lo ricordiamo da una vita, quasi mai protagonista, ma spessissimo impegnato in compiti di gregariato. Il tranquillo finale di Vuelta è l'ideale per far venir fuori corridori di questo tipo. Oggi García Acosta è andato in fuga al mattino, è rimasto davanti per tutto il giorno e poi nel finale, sulla penultima salita di giornata, ha giocato la carta dell'azione solitaria.
Quando, approfittando dello sbandamento dei suoi ex compagni di fuga, "Chente" ha messo insieme oltre 1' di vantaggio su questi ultimi, sicuramente un pensierino ce l'avrà fatto. Ma poi dietro si sono riorganizzati (tagliando i rami secchi, ovvero staccando quelli che non collaboravano) e la rincorsa ha preso vigore, lanciando, sulle rampe del Puerto de Navalmoral, prima Pascual Rodríguez e poi Sorensen, che in quest'ordine hanno ripreso e staccato il fuggitivo solitario.
Sulla discesa (mancavano meno di 20 chilometri al traguardo) nessuno avrebbe scommesso che García Acosta, rimasto da solo a mezza strada tra i nuovi capocorsa e tutti gli altri, potesse tornare sui primi. E invece, pedalata dopo pedalata, metro dopo metro, rosicchiando un centimetro per volta, Vicente è riuscito a riavvicinare Pascual e Sorensen e a riprenderli addirittura quando le splendide mura di Ávila scontornavano già l'orizzonte. Un'azione di una tenacia rara, culminata poi (abbiamo fatto 30, facciamo 31...) in un contropiede azzardato dallo stesso García Acosta una volta rientrato sui due colleghi.
"Chente" è partito secco (per quanto gli permettevano le sue gambe a quel punto) a un paio di chilometri dalla conclusione, quando l'asfalto lasciava il posto a una sorta di iberico pavè. Per un attimo ha anche dato l'idea di poter davvero staccare gli altri due, ma quelli erano assatanati e non gli hanno più dato spazio. Sorensen è andato sullo slancio del ricongiungimento, Pascual gli si è messo alle costole e ciao ciao Vicente.
La volata a due ha poi premiato il danese, alla prima affermazione di un certo rilievo. Pascual, già vincitore di tappa alla Vuelta (l'anno scorso), se ne farà una ragione; così come se ne farà una ragione Mancebo, che ha provato a più riprese ad attaccare e a inseguire un posticino sul podio, ma tutto quello che ha ottenuto è stato di precedere di 3" gli altri uomini di classifica.
Classifica da cui è uscito in maniera brutale Santos González. Senza dilungarci troppo, diciamo che allo spagnolo è stata sfilata la bicicletta da sotto al sedere, e a farlo è stata la sua stessa squadra, la Phonak, che lo ha sospeso in seguito ad un test del sangue che ha evidenziato valori un po' così. Un test interno al team e non richiesto da nessun ente; proprio per questo, un test che ci piace in maniera particolare: forse (sottolineiamo: forse) è un segnale, una spia che indica la voglia, da parte di quella squadra parecchio chiacchierata, di opporre con serietà un argine a certe pratiche illecite. Se è così, applausi; se non è così, brividi (perché avrebbero immolato così González Capilla su pubblica piazza?). Ovviamente speriamo nella prima ipotesi.