Morini vuole correre - "Il mio rientro uno spot per il ciclismo"
Versione stampabileFederico "Fred" Morini alla sua prima stagione da professionista è riuscito a vincere una corsa. Non tutti i ciclisti ci riescono, e non tutti gli appassionati se lo ricordano. L'anno era il 2001, la squadra che gli aveva permesso il passaggio da dilettante a professionista era la Gerolsteiner e la corsa in questione era una tappa del Giro d'Austria. Prima di questa parentesi fortunata e felice, la carriera di Fred aveva incontrato senza soluzioni di continuità gli infortuni e gli ospedali.
Molte volte ha preso in considerazione l'ipotesi del ritiro, molte altre - esortato dall'amore e dall'affetto di familiari ed amici stretti - è risalito sulla bicicletta per provare a (ri)inseguire il proprio sogno: fare il ciclista professionista.
Mese di dicembre, l'anno è sempre il 2001: alla fine di un allenamento, sulla strada verso casa, Fred inciampa in una buca, in discesa. Cade, sbattendo contro un guard-rail e rischiando di finire sulla statale che, in basso, corre parallela alla strada di allenamento. Si salva dal burrone per un pelo, trovando la forza di contattare il servizio medico che provvederà al recupero di un ormai quasi paralizzato ciclista. Nonostante lo schiacciamento delle vertebre lombari con l'interessamento del midollo spinale, quel "quasi" non si tramuterà mai in "totale".
Forza di determinazione di Fred, senz'altro, ma anche grande aiuto del dottor Zampolini, del preparatore Mariani e di una famiglia che sempre gli rimane vicina.
Qualche mese più tardi, la Settimana Lombarda segna il ritorno alle corse, cui poi seguiranno Giro di Romandia e Giro del Veneto. Proprio la corsa veneta rimane l'ultima (finora) gara disputata da Federico "Fred" Morini con i gradi del professionista. I formicolii che avvertiva alle mani non gli permettevano di stringere bene il manubrio e, di conseguenza, guidare bene la bici. Capì che erano situazioni troppo instabili per essere affrontate. Ora, a tre anni di distanza, Federico "Fred" Morini è pronto a tornare in sella, si sente bene, ma non tutto è definito, anzi.
La Gerolsteiner, la tua ex ed ultima squadra, sta tentando di ingaggiare - dopo la squalifica per stimolanti dello scorso anno - Danilo Hondo e si è accaparrata le prestazioni di Stefan Schumacher, già sospeso per problemi di doping nel 2005 e poi riabilitato dalla federazione tedesca. Dall'altra parte, Federico Morini si trova senza contratto. Cosa c'è che non quadra?
«Evidentemente lo sport non fa che ricalcare le tracce di ciò che ci propone la vita quotidiana, dove non sempre chi ha la coscienza pulita riesce a farsi largo e trovare i giusti spazi. Personalmente non ho voglia di giudicare con cattiveria, anche se in queste circostanze lèggere alcune cose mi dà molto, ma molto, fastidio. Sapere di essere fuori per un infortunio, anzi, per un incidente e rendersi conto di non riscuotere più alcuna fiducia è brutto, soprattutto se si è convinti di meritarne ancora».
Sovente viene detto che chi sbaglia - dopandosi - una volta ha il diritto alla riabilitazione. Allora, chi è sfortunato e si infortuna che cosa meriterebbe?
«È anche vero che "chi sbaglia paga" ed è giusto così, ma nel mio caso non penso proprio di aver sbagliato, se non ad impostare quella curva. Non è giusto che io paghi l'inattività "forzata" come la pagano gli altri, quelli che ricorrono a pratiche illecite».
Immaginiamo che gli ultimi periodi siano stati concentrati verso la ricerca, o comunque l'attesa, di un contatto - e di un contratto - da cui ripartire per il 2006. Alla luce di quella che chiami "inattività forzata", puoi dirci come si sono svolte finora le cose?
«È stata una continua ricerca, ed un continuo chiedere. Verso tutti, o quasi. L'ho fatto con forza ed in alcuni casi, non mi vergogno di certo nel dirlo, anche implorando. Implorando fiducia nei miei confronti, nei confronti di una persona che ha passato dei bruttissimi momenti e di quello che ho dovuto vivere, ovviamente insieme alle persone che mi sono state più vicine, continuando a credere di poter tornare a correre, a dare tanto, a dare tutto in allenamento, ogni qualvolta un responso medico, uno dei tanti, uno soltanto, lasciasse lo spiraglio alla speranza di "poterci provare". Tutte queste cose mi hanno fatto passare momenti terribili, certo, ma nello stesso momento di grande costruzione umana, imparando tante cose. Ma evidentemente questi sacrifici non sono sufficienti perché, ripeto, il mio cuore mi induceva a chiedere, chiedere ed ancora chiedere, come ho fatto fino a qualche giorno fa e come faccio tuttora. Mi sono rivolto a tutte le squadre, anche a qualche procuratore, ma ho notato che dappertutto c'è la grandissima propensione nel chiudermi la porta in faccia. Di tutto questo non capisco il perché, riconosco - anche alla luce di quello che ho vissuto - che la vita dà tante opportunità. Non posso negare di voler tornare nel "mio" ambiente, anche perché credo di avere delle qualità che potrebbero essere utili alla causa di questo sport. Certo, gli scenari che mi sono aperti davanti gli occhi non ispirano molto ottimismo, mi sto accorgendo che questo è sempre più un ambiente malato, non tanto per quanto riguarda il doping, ma proprio relativamente alla preparazione individuale di manager e uomini che gestiscono le squadre. Allora la mia domanda è: ma questi signori hanno davvero bisogno di gente che vuole fare e che è in grado di fare?».
Ci sembra di aver capito che la cosa che più ti ha fatto male in questa vicenda è la presa coscienza della poca umanità dimostrata.
«Assolutamente sì. Il ciclismo si è ormai stereotipato alla vita quotidiana, ed entrambi mi stanno insegnando che i valori morali, i sentimenti e le interiorità delle persone non contano più molto. I valori morali che farebbero bene allo sport non vengono più considerati, anche se una volta si diceva che in squadra servivano corridori e persone in grado di far capire alla squadra i valori dello sport e l'atteggiamento che l'agonismo - aggressività senza cattiveria - richiede. Mi preme anche sottolineare che nelle mie richieste, o preghiere, non ho mai fatto riferimento ad alcuna pretesa economica; ho chiesto soltanto di poter dimostrare di meritare la fiducia eventualmente concessami. Ma nessuno ha avuto il coraggio di investire su di me. Tante belle parole, tanti sorrisi, ma anche tante parole dietro le spalle: diciamo che il "mio" ambiente me l'ha tranquillamente messo in quel posto. Comunque, se cambiassero idea, i miei numeri per telefonarmi ce li hanno.»
I motivi dei rifiuti ti sono stati presentati?
«Nessuno ha avuto il coraggio di dirmi la verità in faccia. Anzi, ad onor del vero, soltanto la Gerolsteiner, quella che era la mia squadra, mi ha presentato il rifiuto per il vero motivo dello stesso. Tutti hanno girato intorno al problema adducendo motivi economici, la crisi del movimento, e sinceramente in quei momenti ho anche annuito senza avere la forza per replicare. Ripeto: voglio credere alla buona fede di tutti, non voglio criticare nessuno, certo però che addurre motivi di crisi economica ad un corridore che non pretende niente se non di tornare a correre mi sembra paradossale».
Però è successo.
«È vero, è successo, e dico di più: chi gestisce una squadra, dovrebbe anche avere una certa capacità nel visionare gli atleti. Prima dell'infortunio non avrò vinto una Parigi-Roubaix, è vero, ma comunque sono riuscito a vincere una gara; mi sono contraddistinto in qualche cosa, dimostrando a 24 anni di avere qualcosina da dare in quell'ambiente. Non per fare paragoni scomodi, ma ci sono corridori che dopo 15 anni di professionismo non hanno vinto niente eppure sono ancora là. Sicuramente questo che sto tirando fuori è un forte sentimento di presunzione e di arroganza...».
O forse di orgoglio...
«Beh sì, comunque la verità è che mi ci sono sentito ferito, nell'orgoglio. Da chi non mi ha voluto rimettere in discussione. All'epoca non ce la facevo a controbattere a quelle che ritenevo delle sciocchezze, ma ora non posso trattenermi. Ho provato anche a disinteressarmene, ma il mio cuore mi dice che qualcuno non si è comportato nel migliore dei modi nei miei confronti. Questo mi fa male e mi farà male per sempre. Ecco, questo lo dimenticherò difficilmente».
L'istituzione di una Coverciano per tecnici di ciclismo e corsi di management per i team manager delle squadre, come suggerito da alcuni personaggi del mondo delle due ruote a pedali, può essere una soluzione fattibile e, nello stesso tempo, producente?
«L'idea teorica è senz'altro ottima, perché comunque i ruoli del ciclismo di oggi hanno bisogno di un determinato tipo di preparazioni. Tecniche, ma non solo. Allargherei il campo alle nozioni conoscitive, soprattutto nei ruoli manageriali, visto che oramai il direttore sportivo non è più soltanto quello che guida l'ammiraglia e dà i consigli in corsa, ma sempre più un vero e proprio "dottore" all'interno della squadra. Si richiede tanto, forse anche troppo in alcuni casi, ai dirigenti, ma se ci vogliamo allineare al mondo attuale è proprio questa la strada da percorrere. Ovvio poi che il tutto dovrebbe essere guidato sotto una filosofia nuova, una filosofia che possa dare qualcosa in più. Il dubbio di cosa possano insegnare persone che chiudono porte in faccia al sottoscritto c'è, forse è anche brutto farselo venire, ma credo sia naturale, anche alla luce di queste ultime vicissitudini personali. Attenzione però che il mio non è un caso unico o isolato: di vicende come quella di Federico Morini ne esistono e questo dimostra, come dicevo poc'anzi, che il ciclismo è malato di incapacità. Spero che l'ambiente possa riuscire a risollevarsi, per il bene soprattutto dei tifosi e per quello degli sponsor che dovranno continuare ad investire in questo sport. Con ancora un po' di presunzione ho motivi per ritenere la mia storia come un insegnamento per qualcuno, e questi signori non hanno saputo cogliere l'assist che ho dato loro di far capire a dei ragazzi che i sacrifici pagano, e che vengono ripagati. A volte ci lamentiamo che gli altri sport "corrono" e che sono trattati meglio di noi, ma evidentemente è altrettanto vero che sono più bravi ad organizzare eventi, avvenimenti ed anche - a questo punto - nel toccare la sensibilità delle persone. L'incapacità gestionale verso queste situazioni mi preoccupa molto».
Pensi che il tuo distaccamento forzato dalle corse, e la contemporanea possibilità di poter vedere le cose guardandole dall'intorno piuttosto che dall'interno, possa aver destabilizzato o magari impaurito l'ambiente di cui ci parli?
«Sì, forse sì. Questo potrebbe esser vero, anche perché vedere le cose da un punto di vista più ampio ti permette di notare delle cose difficilmente osservabili da un occhio abituato a guardare tutto da troppo vicino. Potrebbe essere vero. Non voglio entrare troppo nel merito perché potrei essere difficilmente frenabile una volta iniziato a parlare, ma il fatto che io potessi apportare qualcosa in più perché vengo da una situazione particolare effettivamente potrebbe averli impauriti. Personalmente ho anche molti dubbi su alcuni tecnici, su alcune persone, con cui avevo già parlato in precedenza della mia volontà di tornare a correre, ma non so bene riordinare le idee ora. Cerco di far finta di niente».
Ci ha reso felici leggere dell'istituzione della prima Gran Fondo Federico Morini. Ce ne parli?
«È stata un'idea del mio Comune e della mia Provincia di residenza. È una buona notizia in un mondo che - come vediamo, nonostante tutto - è molto, molto bello. La corsa farà parte del Gran Circuito di Toscana, ed è anche un evento in parte storico perché per la prima volta una corsa che fa parte del Ducato di Toscana sconfinerà dalla regione di appartenenza per arrivare sino in Umbria. La cosa mi inorgoglisce, e l'idea è di abbinare all'evento un qualcosa di costruttivo, come offrire un appiglio ed un appoggio a persone disagiate che, con noi ed attraverso noi, possano magari tornare in bici o superare qualche loro problema di vita. Sono molto contento di questa intitolazione, perché il mio non è un nome eclatante né esaltante come può essere quello di un grande campione, di uno che abbia fatto seriamente la storia del ciclismo. Io non ho fatto niente, ho soltanto attraversato una piccola parentesi del ciclismo, anche bella per quanto mi riguarda, ma l'idea che tanta gente possa venire a correre lungo le strade di casa mia e le strade su cui mi alleno è sicuramente un motivo di grande soddisfazione».
Hai mai pensato di poter iniziare la tua nuova carriera ciclistica dalle Gran Fondo?
«No, mai, e lo dico sinceramente e senza alcuna presunzione né per snobbare, ma il mio posto è quello che mi ero conquistato dopo tanti anni di ciclismo e quello per cui ho veramente lottato. Sono arrivato professionista, ho avuto un incidente da professionista, e mi sembra corretto e giusto che io riparta dal mondo professionistico, se mai questo accadrà. È stata obiettivamente una parentesi molto lunga, quella dell'infortunio, è vero, ma io conto di riprendermi il mio posto. Credo, ancora oggi, di non dover dimostrare assolutamente a nessuno di dover ripartire da capo. Gli anni passano e le speranze un po' si affievoliscono, ma tra cinquanta, sessanta o settant'anni, se sarò ancora in vita - perché lì cercherò assolutamente l'impresa - avrò ancora questa convinzione. Non avrò mai il rimorso di dire: "Ah, se ci avessi provato, a ripartire da zero", proprio perché il mio status di professionista sento, lo ripeto anche col rischio di sfociare nell'arroganza, assolutamente di meritarmelo».
Anche perché - seppur con tutti gli scongiuri del caso - se dovessi fallire il reinserimento nel professionismo da ciclista potresti magari incappare in qualche sponsor tanto coraggioso ed onesto da proporti un'avventura da team manager.
«Mi piacerebbe, magari. Sarebbe bellissimo, non lo nascondo. Con qualche anno in più di esperienza rispetto ad oggi, con qualcosa in più di morale che sento di avere, con un po' di studio per le capacità manageriali, perché no?, mi piacerebbe eccome».
Chiudiamo la chiacchierata con Fred Morini parlando della novità della stagione 2005: il Pro Tour. Ti piace?
«È una bella idea a cui manca ancora qualcosa. Il primo punto sul quale discuterei è senz'altro il meccanismo delle retrocessioni e delle promozioni dalla categoria Professional, anche perché abbiamo visto che alla fine di questa stagione qualche squadra ha dimostrato di non meritare di essere inserita in quel circuito prestigioso. Il Pro Tour è una buona iniziativa che, ripeto, dovrà essere modificata per essere incanalata verso la condotta giusta per il proseguimento, perché altrimenti si rischia sempre - come nel mondo d'oggi - di mandare avanti chi ha i soldi e di far restare indietro chi non li ha. E non mi sembra troppo corretto».