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Il mio Charly Gaul - Il grande Angelo della Montagna

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Non è facile, scansando dolore e lacrime, ricordare un amico, uno come Charly Gaul. Non lo è, per il carattere del personaggio, sempre attento, in ogni discorso, a non esternare troppe parole in più, intingendo le sue frasi di pause, come se volesse mantenere un alone di mistero, o prendersi il respiro per un ulteriore personale approfondimento. Anche in questo, era proprio come Marco Pantani, il ragazzo a cui ha voluto un bene immenso, come fosse un figlio e non solo il prosecutore del tratto agonistico ed artistico che li legherà indissolubilmente all'eterno.

Quando guardavi quegli occhi azzurri che ancora sapevano forare le lenti di quegli occhiali sì comuni nelle primavere in più, ti avvolgeva nel suo fascinoso mondo di ricordi e ti sembrava un padre, o un nonno, a cui avresti voluto carpire l'impossibile, senza esagerare oltre il rispetto che si deve all'autorità di famiglia. Certo, m'ha raccontato tanto, forse anche più di quel che m'aspettavo, ma sono consapevole di non aver potuto entrare nel gesto che viene dall'istinto e che io, tutt'altro che campione, potevo solo ammirare. Era diverso per Marco, perché fra i due insisteva l'idioma inenarrabile di quel condensato di intuiti e di irrazionali "perché", patrimonio esclusivo dei leggendari, mi vien da dire, supremi.
Oggi, 8 dicembre, sarebbe stato il 73esimo compleanno di Charly. Lo avrei chiamato per gli auguri, ed invece sono qui, con la fatica della tristezza che si accompagna al dolore, a ricordarlo come uno che sta nell'olimpo dello sport, e dire, che fino ad otto anni fa, apparteneva ai sogni di un bambino che aveva saputo colpire ed infatuare pian piano. Già, perché conoscendo e stringendo amicizia con lui, ho raggiunto quell'obiettivo di vita che si dipanò fin dai tempi del triciclo. Ed è proprio da qui che voglio partire a raccontarlo, senza entrare nei testi coi quali Cicloweb aprì le sue porte a Graffiti. Lì, c'è il tratto conosciuto ed oggettivo della sua grandezza, mentre ora, a rapide puntate, porterò il "personale" di un rapporto, arricchito di foto in gran parte inedite, che si concluderà con una lunga intervista costruita sulle interlocuzioni di questi ultimi sette anni.



Giro d'Italia 1957 - L'Angelo della Montagna immerso nel... suo teismo

 


"...Dai ricordi dell'infanzia nasce un nome"
........ La nostra memoria è davvero incredibile, sulla soglia dei quarant'anni ti dimentichi di quello che t'ha detto un tizio due minuti prima, mentre ti ricordi con fulgida sicurezza sensazioni e menzioni avvenute quando eri un piccolo bambino che voleva conoscere e registrava tutto ciò che lo circondava. Ricordo bene quando mia sorella Giovanna, tifosa di Baldini e Pambianco, nomi che in casa mia erano tanto quotidiani, si rivolse al corridore di famiglia, mio fratello Lorenzo, per dirgli che il Giro l'avrebbe vinto Charly Gaul.
Si era ai primi di giugno del 1959, ed io avevo quattro anni. Sembra impossibile, ma ricordo bene quei momenti, anche se mi sfuggivano i significati di quelle discussioni che, per il mio fresco cervello, erano troppo complicati. Qualcosa però mi rimaneva dentro, al punto di spingermi a dimenar sul triciclo tutte le mie forze, sempre col "gigantesco" berrettino da corridore in testa. Poi mio padre, forse per amore paterno, più che per mia specifica richiesta, mi mise in piedi sulla pedana della sua "Lambretta", mi strinse tra le sue gambe e mi portò a vedere una corsa, dove quelle belle maglie colorate correvano una alla volta. In seguito seppi che si trattava di una cronometro e che quella gara si chiamava G.P. Tendicollo Universal.
Si correva a Forlì e lì, tra una selva di gambe, ebbi la fortuna di vedere uno smilzo e ossuto personaggio più "vecchio" degli altri, su cui appoggiarono una maglia color rosa che tutti volevano toccare. Lo vidi bene quell'uomo, così magro con quel nasone e quella smorfia intrisa di sorriso e sofferenza. Lo chiamavano Fausto Coppi, ed anche la mia piccola mente capì che si trattava di qualcuno assai speciale. Speciale al punto che quando la "voce grossa e tonante" annunciò la vittoria di Ercole Baldini, mi chiesi come fosse possibile che tutta duella gente dividesse i suoi applausi e le sue urla alla pari, fra quell'omone che aveva vinto in maglia gialla e che alzava dei fiori strani e lunghi, e quell'ossuto col nasone, sulla cui maglia bianca ne avevano appoggiata una rosa. Ero confuso, ma stranamente entusiasta pure io. In fondo, senza saperlo, avevo collegato due grandi momenti di uno sport che allora schiacciava pure il calcio attraverso figure di grande nobiltà.
A casa, intanto, si continuava, specie a tavola, a parlare di quei nomi che correvano in bicicletta, proprio quell'aggeggio che io chiedevo al posto di quel triciclo sempre più stretto. E poi, io dovevo correre come il mio "dado" Lorenzo, che s'era messo la maglia dell'EMI, la stessa di Charly Gaul, un nome che mi suonava sempre più familiare.
Una familiarità, data dal fatto che, effettivamente, la squadra di dilettanti di mio fratello, indossava le maglie usate dai corridori della vera "EMI" e Lorenzo aveva la stessa taglia del grande campione lussemburghese. E che fatica quando Giovanna cercava di farmi dire lussemburghese: una parola che io semplificavo sempre con "lughese"! Mio fratello aveva la cartolina di quel corridore che io vedevo sempre più uno di noi, ma che pareva ugualmente lontano ed irraggiungibile. Probabilmente, anche se il mio tifo s'era già costruito, ed era tutto per "Gabanin" Arnaldo Pambianco, che abitava, dicevano, a quattro chilometri da casa mia, sono stati quei mesi e quei giorni a crearmi le personali basi di un fascino che mi costruì un'immagine indelebile e leggendaria di Charly Gaul.
Una pergamena che mi fa dire, tutt'oggi, che se fossi stato un corridore avrei voluto essere come lui.



Giro 1959 - Charly Gaul spicca il volo sul Piccolo San Bernardo


Anche quando il mio idolo "Gabanin" Pambianco vinse il Giro del Centenario, in quel vortice di gioia ed immanenze che m'hanno legato in maniera immortale al ciclismo, un posto l'ho sempre lasciato al pensiero che là c'era anche Charly Gaul, un nome che ancor prima di studiarne valenze e peculiarità, mi suonava come regale ed armonico. La dimostrazione l'ebbi quando costruendomi i "coperchini" per giocare col "micro-ciclismo" dove ero agonista, giornalista ed osservatore contemporaneamente, continuai a disegnare la maglia di Gaul, anche quando, nel 1963-64-65, era praticamente scomparso dai vertici mondiali.
Per conoscere il nome della sua ultima maglia quella della "Lamot", credo di aver scocciato tutti coloro che mi capitavano a tiro e di aver letto tutto quello che potevo. Ma la svolta avvenne quando potei finalmente leggere i resoconti delle sue imprese. Allora avevo solo nove-dieci anni, ed ero un piccolo prodigio di conoscenza (mi son fermato dopo): per me, leggere "Stadio" (il quotidiano sportivo più diffuso in quei tempi in Romagna), o "Lo Sport illustrato", rivista sportiva tutt'oggi ineguagliata, era più formativo ed importante che il sussidiario scolastico.
Charly Gaul s'affermò ermeneuticamente nel sottoscritto in quei giorni e credo di non accentuare nulla se dichiaro che al di là del curriculum che s'è costruito, sia da considerare oggettivamente come uno dei più grandi della storia del ciclismo. Sicuramente quello che più di ogni altro ha cementato sulla cultura ciclistica un settore del gesto agonistico: lo scalatore.


Morris

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