Il calcio che ci piace - Parlando di ciclismo con Tommasi
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Capita di imbattersi nella consueta cortesia e disponibilità di chi l'ha sempre dimostrata. Capita di scambiare qualche e-mail con Damiano Tommasi ed accogliere con piacere il suo accettare l'invito ad un'intervista trasversale, che tocchi anche l'ambito ciclistico di cui è appassionato, da buon veneto. Capita di contattarlo dopo il suo ritorno in campo, a più di un anno dalla sua ultima apparizione, da quell'amichevole estiva in terra austriaca con lo Stoke City, quando Damiano Tommasi si lesionò in maniera grave i legamenti del ginocchio destro.
Il ritorno in campo contro l'Ascoli da sostituto, la fascia di capitano ricevuta da Panucci, e quel gol, al ritorno tra gli undici titolari, dopo un minuto e mezzo, alla Fiorentina di Prandelli, altro uomo che non si è dimenticato che lo sport è compreso in una scatola più grande che si chiama vita. In quel momento tutte le fedi calcistiche si sono andate a far benedire per applaudire un uomo di sport, per applaudire un uomo che non si è scomposto di fronte alle avversità, e che si sospese lo stipendio nell'anno dell'infortunio.
La negoziazione settembrina del contratto - nel frattempo scaduto - con la Roma avvenuta tra mille difficoltà, col ragazzo che premeva affinché potesse firmare col minimo sindacale consentito. «Un segno di gratitudine per chi ha creduto in me», dirà nelle interviste e ripeterà anche in questa che vi proponiamo. Capita che, dopo quel gol, uno si aspetti che Tommasi abbia mille cose da fare ed interviste da sostenere, ed invece sia proprio lui a ricontattarti ed a proporti l'appuntamento a Trigoria «...per parlare con tutta la calma necessaria». Capita di non crederci e, dopo averglielo fatto notare ad incontro avvenuto, capita che Tommasi ti dica: «Ci mancherebbe. Mica dimentico quali sono le priorità».
Capita, insomma, di chiacchierare - un pomeriggio di dicembre - col trentunenne Damiano Tommasi da Negrar (Verona), calciatore dell'AS Roma. Durante la partita della Roma contro la Fiorentina, al di là della partita e del calcio, c'è stato un sorriso generale da parte di chi ama fare lo sport e da parte di chi ama guardare lo sport.
«È stato particolare, anche perché io non sono uno abituato a far gol. Erano mesi che non giocavo titolare ed è stato ancora più particolare. Personalmente ho pensato a questo: a quanto sono strane le coincidenze nella vita».
Ci hai fatto caso che una delle tante coincidenze di quel gol è stata la quasi contemporaneità dell'inizio della fiction su Giovanni Paolo II, per un credente come te, sulla tv di stato?
«No (ride). Non ci avevo fatto caso e credo comunque sia davvero una coincidenza, anche perché tornare a giocare dal primo minuto era già un motivo per me di grande soddisfazione. Erano poche le chance che avevo di tornare a giocare, e riuscire a farlo addirittura dal primo minuto è stato un motivo di vanto anche - suppongo - per chi ha avuto occasione di condividere con me la lontananza dai terreni di gioco per tutti questi mesi».
Ligabue scrisse una canzone chiamandola "Una vita da mediano", e la dedicò a Gabriele Oriali; le peculiarità del mediano - ruolo che Damiano Tommasi incarna alla perfezione - sono quelle più vicine al ciclismo nel mondo del calcio, anche soltanto per la familiarità tra le parole "mediano" e "gregario". Sei appassionato di ciclismo?
«Sì, sono appassionato visto che ho la fortuna di avere amicizie con cui condivido la passione della bici, ed il ciclismo è stato anche un'occasione per allenarmi fisicamente e per distrarmi, visto che mi rilassa molto il pensare di essere da solo in sella alla bicicletta. Il ciclismo mi ha aiutato molto durante il periodo dell'infortunio».
La ciclicità della pedalata e l'esser solo permette al non-agonista soprattutto di rivolgere il pensiero verso mille luoghi e mille altri ancora, oppure di non farlo affatto e di concentrarsi - se si vuole - soltanto sulla pedalata e sullo sforzo. È questo che ti piace?
«Io ho un po' paura di girare in bicicletta, visto il lavoro che faccio, lungo le strade trafficate, ed in particolar modo vicino a casa mia, accanto alla Valpolicella, ho l'opportunità di percorrere strade con poco traffico, ma con molte salite. Ecco, proprio le salite - quando voglio rilassarmi - mi permettono di concentrarmi sullo sforzo fisico che sto facendo, e lasciar stare tutto il resto».
Come nasce il tuo rapporto col ciclismo e la tua passione per la bici?
«Mi è sempre piaciuto sin da bambino, dall'epoca delle sfide tra Moser e Saronni. Io ero più per Moser, per una simpatia personale, e da lì ho iniziato a maturare l'interesse soprattutto verso le corse a tappe, le grandi corse, finché ho deciso - nel 1999 - di acquistare una bici da corsa e da qualche anno ho iniziato a coltivare più attivamente questa passione grazie ad un mio amico di Roma. È uno sport che mi piace, che mi ha sempre attirato vedere in tv, e visto che dalle mie parti, soprattutto lungo le montagne veronesi, ci sono parecchie strade che invitano ad andare in bici, ho comprato anche il "mezzo". Strade molto belle e molto poco trafficate, che anche in estate si possono percorrere praticamente in quasi tutte le ore del giorno».
Che bici hai acquistato?
«È una bici di un artigiano di Verona, niente di particolarmente tecnologico o innovativo. È quella che ho, ed è questo l'importante, perché la volevo acquistare e ci sono riuscito, ma non sono uno che ci tiene a pedalare sull'ultima novità o sulla bici più costosa. Non so neanche di che materiale è fatta la mia bici!».
Ultimamente il ciclismo ha vissuto due brutte batoste, come lo "smascheramento" dell'Equipe di Lance Armstrong - per i fatti del Tour del 1999 - e la positività all'Epo di Roberto Heras, ultimo vincitore della Vuelta a España. Secondo te questi casi eclatanti contribuiscono a far passare, nell'immaginario superficiale collettivo, la figura del connubio "ciclista=dopato"?
«Purtroppo il ciclismo è sotto una grande lente d'ingrandimento, ed il caso di uno inficia su tutto il movimento. Purtroppo quando qualcuno viene trovato positivo all'antidoping viene attaccata anche l'immagine di quello sport. È sicuramente un esercizio dove la fatica e lo sforzo fisico prodotto lasciano più pensare ad un aiuto esterno che ad un vero e proprio allenamento. Credo che nessuno più dei ciclisti possa contribuire a rendere un'immagine diversa da quella che, purtroppo, arriva alla collettività al primo impatto, soprattutto verso chi questo sport non lo pratica. Almeno personalmente riesco ancora a seguire il ciclismo seguendo la gara, non pensando che quello che arriva primo possa avere un aiuto esterno rispetto a chi arriva secondo. Non è semplice perché - come già detto - il ciclismo è sotto questa lente d'ingrandimento che tende ad amplificare dei segnali che fanno tutto fuorché bene al sistema. Quando esco in bici mi rendo conto che il ciclismo possiede tantissimi appassionati e tantissimi praticanti, ed anche se uno può essere portato a pensare che sia uno sport più "difficile", più faticoso, almeno dalle mie parti gli appassionati-praticanti sono veramente tanti e credo che il movimento debba appoggiarsi molto a questo».
Anche se, a differenza del calcio o di altri sport, gli appassionati-praticanti non trovano ovunque strade belle e poco trafficate come quelle delle montagne veronesi che descrivevi tu in precedenza. Purtroppo molti ciclisti devono fare continui slalom tra automobili e tir. È forse questo il punto di partenza da correggere?
«Devo dire che il centro Italia, soprattutto in Abruzzo, ha delle zone poco valutate. Ho visto che il Giro del 2006 toccherà molti luoghi abruzzesi e sono contento, perché mi è capitato di fare giri in bici da quelle parti e posso dire di aver trovato poche differenze rispetto al Veneto. Magari la situazione a livello di infrastrutture al sud Italia sarà peggiore, non lo metto in dubbio, ma è importante che le istituzioni trovino il coraggio di saper investire in tal senso. C'è da dire anche che la conformazione del territorio italiano tende per forza di cose a snobbare un po' il sud, soprattutto al Giro d'Italia, per trovare più tappe spettacolari tra Alpi e Dolomiti; questo è un dato di fatto».
Questa lente d'ingrandimento di cui parlavi si ripercuote sull'impatto dei media nei confronti del ciclismo? Il ciclismo nei telegiornali nazionali viene posto in risalto soprattutto per i "casi" come quello di Pantani, o Armstrong, o Heras, piuttosto che per la vittoria di Boonen al Giro delle Fiandre.
«Ha fatto notizia anche il "caso" Maradona, in verità. Nell'atletica quando son stati trovati i numeri uno hanno fatto notizia. Purtroppo gli sport, non solo il ciclismo, vivono di passione: e quando la passione si sente tradita, e si viene feriti, tende a crearsi il titolone. Magari il giornalista che segue uno sport è anche appassionato di tale sport ed il primo ad esserne ferito è proprio lui che deve divulgare la notizia. Forse proprio per questo le positività fanno più clamore, e ancora forse ci si ricorda più di questi titoloni che degli altri, perché io ricordo che quando Pantani ebbe il suo anno di grazia i titoloni puramente sportivi non mancavano».
Beh, ma il Giro d'Italia ed il Tour de France sono soltanto due eventi del più ampio panorama ciclistico.
«Il ciclismo, come l'atletica, è uno sport che vive di momenti. Forse il ciclismo più dell'atletica va anche più ad appuntamenti annuali, mentre l'atletica per aspettare il titolone "sportivo" ha bisogno della medaglia o del record. Sono convinto che il ciclismo abbia i titoloni nelle occasioni in cui fa bene, perché - a parte Pantani - ricordo il titolone su Cipollini che vinse il Mondiale. È anche vero che, oltre ad essere appassionato di calcio e ciclismo, sono appassionato di molti altri sport, e girando il mondo mi sono accorto di come un pallone tra i piedi di un gruppo di ragazzini lo vedi sempre, mentre trovare una bici e scegliere di praticare ciclismo a livello agonistico è più complicato. Questo non credo che dipenda dal fatto che se ne parli di meno, e magari questi sport soffrono anche un po' di sudditanza psicologica verso il calcio. Però io nel ciclismo ho delle soddisfazioni che non ho nel calcio; nello sci di fondo ho delle soddisfazioni che non ho né nel ciclismo, né nel calcio; altri sport che nessuno conosce, come il tamburello, mi danno soddisfazioni che non mi dà nessun altro sport. Ho praticato anche pallavolo, e secondo me non si deve partire con l'inferiorità di pensare di avere meno spazio, meno fondi, meno spazi pubblicitari, meno considerazione da parte del pubblico ed essere così considerati sport minori. Il numero dei praticanti nei vari sport secondo me non dipende dalla distribuzione degli spazi televisivi, e credo anche che una tappa come quella del Colle delle Finestre del Giro 2005 - per chi è appassionato di ciclismo - abbia dato più emozioni che non una partita della Nazionale di calcio, e tutto questo sebbene non ci siano stati i titoloni. Dal punto di vista emozionale, la gente che c'era ha dimostrato grande attaccamento. Ripeto: purtroppo per la collettività ci sono i principali appuntamenti annuali e ahimè - anzi, ahinoi - negli altri mesi dell'anno il ciclismo va nelle pagine dei giornali ed esce maggiormente allo scoperto quando escono casi di positività. Come in tutte le cose, bisognerebbe valorizzare di più gli aspetti buoni ed utili delle varie discipline e non quelli negativi, lavorare sulle nuove generazioni cercando di inculcare nei ragazzi la mentalità giusta per affrontare ogni tipo di sport».
Credi che il doping possa essere figlio di un'educazione sportiva assente a livello scolastico?
«È la mentalità. In Italia - facevo una considerazione ultimamente - si parla nel doping nel calcio e magari non si ha nessun problema nel trovare un lavoro tramite una raccomandazione: quindi non si ha alcun problema a trovarsi un lavoro non grazie ai propri meriti. Questo, a livello di società "civile", non dà problemi. Invece dà problemi chi inganna negli sport, chissà secondo quale termine di paragone. Chi in un ambiente di lavoro passa davanti agli altri non con i propri meriti, non con le proprie forze, non con il proprio impegno dovrebbe essere accusato ed additato della stessa slealtà, ed invece pare che quello vada bene. Siccome siamo in un Paese dove certe cose sono tollerate, i ragazzi crescono con questa mentalità che induce a pensare: «Se non c'è una controindicazione, perché no?». È anche un problema di onestà intellettuale».
Non credi che a livello giovanile agire sull'aspetto sportivo possa andare a beneficiare sulla vita sociale?
«Un risultato ottenuto con le proprie forze si apprezza, mentre magari si apprezza molto di più un risultato più alto - e migliore - pur ottenuto con aiuti "esterni". Non c'è la volontà di insegnare l'onestà con se stessi, anche perché poi non ci sarebbe comunque il riscontro reale. Se un bambino vede che chi ruba arriva primo, ed invece di essere considerato disonesto viene considerato il più furbo, è ovvio che un ragazzino pensi che quel qualcuno sia realmente più furbo. È la mentalità che va sicuramente a toccare anche la sfera del doping: si fa più fatica a fare un allenamento in più che fare uso di altre "scappatoie" per ottenere lo stesso risultato».
Sul tuo sito internet c'è una lettera ispirata al celebre discorso di Martin Luther King, in cui auspichi di vedere negli stadi tifosi che applaudano la squadra vincente qualunque essa sia. Senza forzare continui confronti, nel ciclismo questo già avviene lungo le strade, dove i tifosi di quel corridore stanno accanto ai tifosi di quell'altro corridore senza che si legga successivamente di scontri o problemi di ordine pubblico.
«Proprio per questo nessuno sport deve soffrire di sudditanza psicologica nei confronti del calcio. Gli aspetti del ciclismo che mi danno più soddisfazione magari sono anche questi. Alla fine un'uscita con gli amici penso che affatichi tutti ed accomuni tutti, mentre nel calcio - soprattutto ad alto livello, ormai diventato calcio-business - il risultato non pesa più come il solo risultato sportivo; si pensa all'aspetto economico, mentre negli altri sport questo ancora non avviene, visto che c'è meno spazio per gli introiti capitali e quindi c'è meno denaro che gira, ed il risultato sportivo riesce fortunatamente a rimanere nel contesto dell'atleta. Nel calcio invece su ogni cosa nasce una polemica, ed il mio pensiero va subito ad alcune trasmissioni televisive sul calcio in cui si gioca molto su questo, e purtroppo non si ha ancora la cultura dello sviscerare una partita prendendo i gesti tecnici da sottolineare, i movimenti tattici da spiegare ai tifosi, mentre invece si fanno centomila moviole e si fanno vedere gesti antisportivi più e più volte, anche amplificando le immagini ed entrando quasi negli organismi dei calciatori. Tutto questo non fa altro che togliere spazio all'aspetto puramente tecnico, ed è un peccato».
Diciamo che sono i contro, dopo i tanti pro, dell'essere uno sport così popolare?
«È questo, ma non tocca soltanto il pubblico. Anche le trasmissioni tendono a sottolineare certi aspetti che il pubblico fa suoi per mancanza di altro. Purtroppo se per venti anni si fanno vedere certi tipi di trasmissioni, magari qualche influenza queste trasmissioni la danno, ai tanti tifosi».
La tua scelta di percepire un contratto al minimo sindacale ha suscitato molto clamore. Perché?
«Ha fatto più clamore di quanto doveva. Più che l'aspetto economico doveva far clamore il mio esser tornato a firmare un contratto con su scritto "calciatore", e non la cifra che lo stesso contratto riportava. È stata una mia decisione, una mia scelta - in accordo col mio procuratore - per non pesare economicamente su chi rischiava - sempre in denari - di tesserare Tommasi. Dal mio punto di vista è molto più importante aver firmato da calciatore, che "quanto" prendere per tornare a farlo. Ho lavorato duramente per poter tornare ad alti livelli, e ringrazio la Roma per avermi dato questa possibilità».
Qualche tempo fa abbiamo intervistato Fred Morini, un ragazzo - ciclista professionista - che si è infortunato cadendo in bici ormai sei anni fa e che ha lavorato duramente per tornare ad essere prima un uomo normale, e poi un atleta su cui puntare. Però, a differenza di Tommasi, ha faticato enormemente per tornare a riscontrare fiducia in quelli che avrebbero dovuto essere i suoi datori di lavoro, ed è potuto rientrare solo dalla porta di servizio, in una squadra di terza fascia. Quanto è stata importante la fiducia della Roma nei tuoi confronti, al fine della tua scelta?
«Tanto, e proprio per questo dicevo che l'aspetto economico non c'entra. Chi come me, e come Fred Morini, vuole fare il proprio lavoro ha bisogno di avvertire fiducia. La mia degenza, e la mia riabilitazione, è stata pensata e fatta al fine di tornare ad essere un atleta, e non solo un uomo con tutte le funzioni vitali. Per me la vita normale comprende lo sport; ero consapevole, mentre lavoravo per recuperare, che poteva non andare così. Però, visto che lo sport mi dà tanto, mi dà soddisfazioni, è una parte importante della mia vita, avere una squadra che mi ha dato la possibilità di mettere in pratica questo per me non ha riscontri nell'aspetto economico. È stata impagabile, ed io per ringraziare ho fatto solo il minimo. Ho provato a tornare un calciatore, ci sono riuscito: i soldi non contano».
Magari è stato sottolineato per evidenziare, tra le tante brutture, un gesto nobile come il tuo.
«È stato sottolineato perché - anche oggi leggevo sui giornali - si fanno le dichiarazioni di reddito pubbliche dei calciatori, con i contratti di sponsorizzazione, per sottolineare in maniera impropria e fuori luogo il denaro e la quantità di questo che gira nel mondo del calcio. Quello che conta è quello che si guadagna, ma non solo nel calcio: anche tra i politici, tra gli attori, tra i cantanti. Forse nel calcio c'è la considerazione che è uno sport che tutti sanno fare e quindi non si percepisce la differenza tra il saper fare e poter fare, l'essere in grado di fare».
Anche perché spesso non si pensa al giro di denaro che si genera.
«L'ingaggio di un calciatore è dipendente da come gira il mondo, nel modo in cui l'aspetto economico di un campo è legato all'aspetto economico della vita. Spostandosi nei vari campi è dappertutto così, anche nei campi dove tale aspetto non è propriamente "business" come nel calcio».
Prima di tornare alla Roma - da svincolato - avevi già parlato con qualche altra squadra?
«Ero nella condizione di essere senza contratto, e per i calciatori senza contratto il mercato inizia il 31 agosto. Le società fino a quella data hanno la possibilità di tesserare calciatori provenienti da altre squadre, ma se non ce la fanno si affacciano sempre al mercato dei "disoccupati": per me, in ogni caso, ci sarebbe stata l'opportunità di discutere il contratto con qualche altra squadra, ma verso la fine di agosto ho deciso di rimanere alla Roma e già il 10 settembre il contratto era stato firmato».
Chi ha fatto il primo passo?
«Loro hanno dimostrato sempre la totale disponibilità nel ripropormi il contratto, ed a fine agosto dopo aver parlato con la mia famiglia e con il mio procuratore, dopo aver constatato quanto di buono già sapevo su mister Spalletti, siamo giunti alla conclusione che Roma fosse il posto ideale dove riprendere a giocare a calcio».
Quanto è stato importante avere una famiglia al fianco che ha lottato e sofferto con te?
«È stato importante verificare la considerazione che mia moglie aveva, ed ha sempre avuto, di me. Nonostante ci fosse la possibilità di cambiare lavoro, ho sempre goduto dei risultati giornalieri quotidiani, di migliorare di giorno in giorno, non ponendomi mai obiettivi nel breve periodo, ed in questo mia moglie mi ha conferito molta serenità. Mi ha permesso di concentrarmi sul recupero fisico e non pensare ad altro: poi ho la fortuna di avere tre fratelli che giocano a calcio e che possiedono la mia stessa passione, una sorella fisioterapista che mi dà consigli dal punto di vista fisico, i miei genitori - soprattutto mio papà - appassionati di sport, con mia mamma che si è sempre dimostrata molto attenta alle nostre vicende. Tutto questo ha fatto sì che l'attenzione, al di là dell'infortunio, ci fosse e l'attesa mia personale pesasse meno anche perché era condivisa da più persone. Poi, ripeto, la considerazione di mia moglie di avere me in famiglia, qualunque lavoro avessi fatto, è stata fondamentale».
Che lavoro avresti fatto se non fossi riuscito a tornare efficiente come calciatore?
«Sinceramente non ci ho mai pensato. Da quando il medico mi ha detto che l'intervento era andato bene non ho mai avuto motivo per pensare di non poter tornare a fare il calciatore. Siccome l'infortunio mi aveva messo davanti a possibilità reali di smettere con questo mondo, almeno nella parte attiva, è diventata per me quella la partita da preparare. E siccome le partite finiscono al 90', io al dopo partita non avevo minimamente rivolto il pensiero».
E nei momenti dopo l'infortunio e dopo l'operazione cosa ti è passato per la mente?
«Al momento dell'impatto ho pensato che non avrei finito la partita, e che non mi sarei potuto allenare il giorno successivo. Avevo capito che si trattava di qualcosa di grave, ma lì per lì non ho pensato all'entità. Dopo, c'è stato il travaglio che già ho descritto».
Ti ha emozionato ricevere la fascia di capitano al tuo rientro in campo, nonostante avessi iniziato la gara contro l'Ascoli dalla panchina?
«Tornare in campo è stato importante, quella domenica, perché sono entrato con la consapevolezza che il mister aveva deciso un cambio perché serviva, e non per dare il "contentino" a Tommasi. Per me già quello voleva dire molto, poi il gesto è stato sicuramente particolare e mi ha fatto apprezzare ancora di più il fatto di aver scelto di proseguire il mio cammino con la Roma».
E subito il povero Parola ha potuto constatare che il timore di lasciare la gamba nei contrasti non ce l'hai...
«No, no, la gamba la lascio sempre. Anche perché l'infortunio è scaturito proprio da una delle poche volte che la gamba la stavo togliendo. Io non volevo, e voglio, tornare a giocare a calcio, ma tornare a giocare a calcio come prima. E il mio gioco prevede contrasti duri, è il mio tipo di gioco. Se non fossi tornato con queste caratteristiche, probabilmente non sarebbe stata neanche mia intenzione tornare».
Sempre negli scritti sul tuo sito internet hai riportato la speranza che si possa vivere più serenamente il rapporto con gli arbitri, ed i giudici in generale. Possiamo avere la presunzione di pensare, però, che almeno un pensierino malefico verso l'assistente arbitrale di Italia-Corea del Sud ai Mondiali del 2002 tu l'abbia rivolto al momento del tuo golden gol ingiustamente annullato?
«Quando si gioca è difficile capire certe situazioni, e neanche dopo in realtà perché ormai la decisione dell'assistente di Moreno non poteva essere cambiata, e tanto vale pensare ad altro. I miei rammarichi sono sempre stati, e saranno, i gol che avrei potuto fare quando potevo farli, e non quando non potevo farli. Ma nel calcio non ci sarebbe solo l'atteggiamento verso gli arbitri da modificare».
Blatter ha proposto di togliere gli inni al momento dell'ingresso in campo delle rappresentative nazionali. Che ne pensi?
«Non conosco il contesto in cui abbia detto una frase simile, anche perché mi pare di aver letto che era una dichiarazione scaturita dal racconto di ciò che era successo tra Svizzera e Turchia. Il momento dell'inno nazionale è un momento molto forte per chi veste la maglia della propria Nazione, e credo che sia francamente assurdo pensare di toglierlo, in ogni caso».
Verona negli ultimi anni potrebbe essere soprannominata come "la patria dei Campionati del Mondo". Ben due edizioni negli ultimi sette anni sono state disputate ai piedi dell'Arena.
«Eh sì, e tra l'altro della mia zona di montagna è nativo Damiano Cunego, che ultimamente ha dato parecchie soddisfazioni a noi veronesi».
Lo conosci personalmente?
«No, personalmente non lo conosco. L'ho incontrato ad una manifestazione che aveva indetto l'amministrazione comunale, ma non posso dire di conoscerlo personalmente».
Conosci qualche ciclista professionista?
«Si può dire che "conosco" telefonicamente Franco Ballerini, il CT della Nazionale italiana, che qualche tempo fa è stato anche ospite a Trigoria dell'AS Roma. Ha visitato le strutture, ha chiacchierato un po' con noi calciatori, con i tecnici. È stato interessante confrontarsi con un esponente di così alto rango di un altro sport».
Ti piace Cunego come corridore, visto che ad un moseriano come te il "Piccolo Principe" dovrebbe ricordare più il "rivale" Saronni?
«Sì, Cunego mi piace, e mi ricorda abbastanza Saronni, questo è vero. Non ho un beniamino in particolare in questo momento: mi piace molto il gioco di squadra nel ciclismo, seguire la corsa in maniera "tattica": mi è piaciuta molto la tappa di Falzes del Giro d'Italia 2004, ad esempio. Mi ha sempre affascinato pensare come uno sport individuale possa essere comunque deciso dall'aiuto di una squadra».
Il tuo concittadino nel 2005 ha vissuto un'annata sfortunata. Vuoi fargli un augurio particolare?
«Nel 2006 Cunego potrà dimostrare tutto il suo valore. Nel 2004 ha avuto dalla sua parte l'effetto sorpresa, di cui purtroppo non potrà più godere, ed il 2005, nonostante i non molti risultati in cascina, l'avrà senza dubbio fortificato. Gli auguro di poter esprimere tutto il suo potenziale e continuare a far emozionare noi veronesi come fatto fino all'inizio di maggio di quest'anno».
Hai mai visto una corsa ciclistica dalla strada, dal vivo?
«No, purtroppo. Volevo andare a Verona ai campionati del Mondo del 2004, ma non sono riuscito a spostarmi per quella data. Spero con tutto me stesso di riuscire a vedere alcune tappe del 2006 del Giro d'Italia, soprattutto quelle abruzzesi e quelle dolomitiche vicino a casa mia».
In maggio non c'è il rischio che tu debba partire verso la Germania per un altro tipo di Mondiali?
«No, no, ci sono molti giocatori prima di me che meritano una convocazione. Penso a Corini, ad Ambrosini, a Cristiano Zanetti, a Perrotta. Damiano Tommasi viene solo dopo questi calciatori, e forse anche dopo altri. Ai Mondiali di Germania non ci penso minimamente».
Se fossi un ciclista, che corse vorresti vincere?
«Tutto ciò che riguarda l'atmosfera, l'attesa, il clima delle corse del Nord possiede un fascino particolare. Credo dipenda tutto dalla presenza dell'ormai "mitico" pavè. Se fossi un ciclista vorrei vincere, su tutte, la Parigi-Roubaix».
Se fossi un corridore da corse a tappe, che caratteristiche avresti?
«Il mio sogno è di essere uno scalatore colombiano. Mi piacciono quando partono, senza squadra, senza tattica, col solo cuore, senza pensare alla crisi che avrebbero se venissero ripresi, senza pensare a quanti chilometri manchino all'arrivo. Vorrei avere le caratteristiche per riuscire a dare stoccate, di quelle che fanno male alle gambe di tutti gli altri, in salita».
E se invece dovessi essere il gregario di un capitano vero, per chi lavoreresti con più piacere?
«Ivan Basso mi piace molto, per come traspare dal video, per le parole misurate che usa, e per la serenità che dimostra. Per lui lavorerei non dico con il sorriso sulle labbra, ma con la convinzione che il mio lavoro verrà ripagato dalle parole di conforto e di gratitudine del mio capitano. Non che Simoni, Cunego e Di Luca non siano altrettanto bravi nel ruolo, per carità, ma se dovessi scegliere, Basso sarebbe il mio capitano ideale».
Mario Casaldi