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Un anno di solitudine - Quando il mondo scoprì Pantani

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Il ciclismo era quello di Miguel Indurain, principe intoccabile seduto sul trono di Tour e Giro, che dominava e lanciava benevole occhiate sugli umani, dall'alto delle sue straordinarie cronometro, che lo mettevano al riparo da sorprese in salita. Terreno, quest'ultimo, su cui del resto volava uguale, senza mai staccarsi da chiunque provasse ad attaccarlo; e anzi, staccando a sua volta i rivali, quando decideva di andarsene in progressione. I nostri Chiappucci e Bugno gli lanciavano periodiche sfide, ma sembravano valletti al suo cospetto, in corsa come sui podi dei grandi giri. E gli altri, da Rominger a Ugrumov, non lo scalfivano più di tanto.
Sul regno di Indurain si abbattè un bel giorno un ragazzino ventiquattrenne dalla calvizie prepotente, ancora lontano - in quel 1994 - dall'immagine che lo avrebbe poi accompagnato (bandana, pizzetto, orecchino, testa completamente rasata: il perfetto Pirata, insomma), ma già consapevole, nei suoi scatti, nelle sue azioni, di quello che avrebbe rappresentato da lì in poi per il ciclismo.
Quel 6 giugno 1994, su Gavia, Mortirolo, Aprica, gli appassionati scoprirono che, a distanza di decenni da Gaul e Bahamontes, era ancora possibile fare il vuoto in salita, scavare distacchi importanti, porre le basi per impensabili vittorie nelle grandi corse a tappe. Marco Pantani volò leggero e feroce, andò a riprendere quelli che erano in fuga dal mattino e staccò i protagonisti della classifica, primo fra tutti proprio quell'Indurain fin lì inscalfibile. Un oceano di amore si riversò improvviso sul 24enne di Cesenatico, fin lì Diavoletto per sottolineare il suo essere fratello minore del suo capitano Chiappucci.
Il Pantani prima maniera chiuse quel Giro al secondo posto, poi andò tranquillo e pacifico al Tour, e anche lì fece capire a tutti che lui era il simbolo di una nuova era, meno uomini-macchina e più cuore (ci si passi il termine), più fantasia, più spirito arrembante. Fu terzo, al Tour '94, ma il risultato contava assai meno di quello che il futuro Pirata aveva risvegliato in chiunque si fosse trovato anche per caso davanti a un televisore: una passione profonda, un interesse nuovo, come il ciclismo da una vita non sapeva più sperimentare.
Poi vennero gli infortuni, fu investito e messo fuori causa prima del Giro '95 che lo aspettava come un messia, tornò al Tour per vincere due memorabili tappe, e fu bronzo al mondiale colombiano, prima che una jeep contromano alla Milano-Torino lo investisse di nuovo, stavolta plurifratturandolo e in pratica azzerandolo. «Non potrà più essere il Pantani di prima», si disse, ma lui caparbio si rimise in sella, torno al Giro nel '97 e ancora la sfortuna nera come un gatto che gli attraversò la strada in corsa e lo fece cadere e ritirare.
Ma la rinascita era solo rinviata: al Tour fece capire che lui c'era ancora, vinse due tappe e riconquistò le prime pagine, e poi nel 1998 la doppietta da leggenda, Giro e Tour vinti in montagna, roba che neanche Coppi. Era Dio in terra. Il Giro del '99 stava per essere un'altra apoteosi, ma venne la terribile mattina di Madonna di Campiglio a spezzare tutto, a rovinare un sogno, a distruggere per sempre Marco Pantani.

Marco Grassi

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