Ricostruire l'immagine del ciclismo - Intervista a Renato Di Rocco, candidato alla presidenza della FCI
Versione stampabileFra i tre candidati alla presidenza della Federciclismo, non c'è dubbio che il più esperto sia Renato Di Rocco, per 14 anni segretario federale (e per 7 segretario della Lega Professionisti), e poi, dopo le sue dimissioni (nel 1997) passato in forza al Coni, organo per il quale ha gestito i Giochi della Gioventù prima, e di cui poi, dopo un intermezzo di due anni da segretario generale Fidal, è stato direttore generale del comparto Territori e Promozione.
«52 milioni di euro da gestire, il settore più grande e importante di tutto il Coni», precisa Di Rocco.
Quali sono le sue mansioni, nel dettaglio?
«Organizzare e portare avanti tutto ciò che concerne il rapporto tra lo sport e la società, i giovani, e promuovere l'attività fisica a tutti i livelli. Per esempio, abbiamo creato 8 Sky College, vere e proprie scuole di sci rivolte ai ragazzi, che, frequentandoli, potranno avere anche dei crediti formativi nel loro curriculum scolastico; abbiamo dato vita a 28 istituti tecnici a vocazione sportiva, un po' all'americana: scuole in cui chi è bravo nello sport può avere un sostegno per studiare e continuare l'attività; abbiamo lavorato per eliminare le fasi finali dei Giochi della Gioventù, in modo da evitare l'insorgere di una competitività esasperata già a livelli giovanili».
È vero che lei prende ancora lo stipendio dalla Federciclismo?
«Assolutamente no! Sono un dipendente del Coni, mi paga il Coni (che peraltro lascerò il 31 marzo prossimo). Sono fuori dal ciclismo da 7 anni, anche se mi rendo conto, andando in giro per la campagna elettorale, di aver lasciato un ottimo ricordo: manco anche ai miei avversari di un tempo...».
Perché se ne andò da quello che era il suo mondo?
«Non mi intendevo con il presidente Ceruti, avevamo diversità di vedute su molte questioni, e preferii farmi da parte lasciando campo libero ai suoi collaboratori. Anche per non dargli l'alibi di non aver potuto lavorare nella massima serenità».
Ed ora si è candidato alla presidenza: che cosa l'ha spinta a questo passo?
«Ho aspettato fino all'ultimo per vedere se Ceruti, che aveva già annunciato che si sarebbe fatto da parte, avrebbe candidato un uomo di prestigio, un Giorgio Squinzi tanto per fare un nome. Proprio al patron Mapei telefonai in autunno, ma lui escluse un suo impegno diretto, e mi incoraggiò a propormi in persona. Nel frattempo da Ceruti non venivano novità: dal 4 novembre, quando ci eravamo incontrati per vedere se c'era la possibilità di un percorso comune, il presidente non si era fatto più vivo. Mi ero dato la scadenza del 30 novembre, e a quella data non ebbi riscontri. Così il 1° dicembre ho annunciato la mia candidatura, cedendo a tante pressioni di amici e conoscenti».
Ceruti come l'ha presa?
«Mi ha chiamato il 9 dicembre, dicendomi che lui stava presentando una candidatura alternativa (quella di Marco Toni, ndr). Evidentemente non aveva mai pensato di fare un percorso comune con me, preferendo lo scontro. Ma se mi avesse telefonato il 30 novembre, dicendomi che c'era un altro candidato, io mi sarei ritirato dalla competizione».
Che presidente è stato, Ceruti?
«Ha fatto delle cose buone, a partire dalla decisione con cui ha impostato la lotta al doping. Ma anche in quest'ambito, questi anni ci hanno mostrato delle pecche enormi: perché i controlli a sorpresa erano mirati nei confronti di alcune società, per esempio? Chi decideva come e quando andavano fatti tali controlli? E poi l'errore più grande di Ceruti è stato a livello di immagine: il presidente uscente è stato bravissimo a convincere tutti che il ciclismo è uno sport di drogati. Mai che la Federciclo abbia difeso un suo tesserato: lampante il recente caso di Cioni. Il suo ematocrito ballerino era cosa nota da tempo, ma la storia è venuta fuori in occasione dei Mondiali, quando l'attenzione dei media era massima. La FCI ha lasciato fare, non ha preso le parti del corridore in quella che era una situazione di massima trasparenza, come poi è stato provato dal fatto che Cioni ne sia uscito pulito. Non capisco perché Ceruti, in questi anni, abbia cavalcato una certa opinione pubblica. Come possiamo sperare, a tali condizioni, che una mamma metta in sella il proprio figlio? Oltre al timore per la sicurezza sulle strade, avrebbe anche la paura che il ragazzo possa assumere sostanze pericolose per la sua salute».
Tante ombre nella sacrosanta lotta al doping, quindi. E per il resto?
«Per il resto è stata distrutta un'organizzazione territoriale che era florida, la federazione se ne è via via disinteressata, occupandosi solo dei distretti in cui era più interessata dal punto di vista politico, e trascurandone altri (penso alla Calabria, commissariata per tre anni e mezzo) che sono stati visti come terre di conquista. Oggi la FCI non sa dare dati statistici sulla propria attività, sui propri tesserati: come si possono programmare interventi di qualsiasi genere se non si conosce nel concreto, nei numeri la materia su cui mettere mano? Poi Ceruti ha lasciato scientemente morire la pista, dicendo che quell'ambiente era un ricettacolo di doping, e che lui non voleva avere niente a che fare con gli "omini Michelin". Fatto sta che oggi i nostri pistard sono costretti ad allenarsi a Losanna, presso l'Uci, nell'ambito dei programmi lanciati per favorire il terzo mondo».
Lei che cosa si porta dietro dai suoi 14 anni in federazione?
«Un gran bagaglio culturale sulla storia e la tradizione del ciclismo, che sono la base di questo sport, per il quale questi aspetti umani sono più importanti che in qualsiasi altra disciplina».
Ci illustri allora il suo programma.
«Innanzitutto bisognerà lavorare sodo sull'immagine, ricrearla da zero in senso positivo. Poi ho intenzione di rimettere al centro dei giochi le società e gli atleti, bistrattati in questi anni; rifaremo l'organizzazione territoriale, nell'ottica di realizzare una rete di "distribuzione e commercializzazione" del nostro prodotto; ridaremo dignità ai comitati regionali e provinciali, in modo che divengano dei centri di servizi e non dei punti di riferimento politici: a questo scopo sarà importante permettere a queste realtà di lavorare bene, fornendole di sedi e strutture adeguate. Poi svilupperemo l'integrazione informatica, dando la possibilità agli utenti e agli stessi tesserati di accedere a una serie di servizi su internet. Ricreeremo il sistema di tutela assicurativa per chi opera nel ciclismo, anche in quello di base: i tecnici, i direttori di corsa, i giudici di gara vanno garantiti nel loro lavoro».
Il discorso si incentra comunque sulle società.
«Lo dice anche Toni, il candidato di Ceruti, che la situazione è di grande caos e sfiducia. Bisogna offrire servizi alle società, non imporre loro dei programmi».
Che cosa farà per avvicinare i giovani al ciclismo?
«Anche in questo campo l'attuale presidenza ha lavorato bene, ma sbagliando i tempi: sono stati sviluppati dei progetti interessanti, ma sono stati fatti partire nel periodo in cui le scuole stavano chiudendo... Li recupereremo e proveremo a lanciarli in settembre. Bisogna pensare che le aziende investono volentieri sulla dimensione sociale, ci sono tante risorse da poter sfruttare, e del resto sono diverse le società sportive che già oggi operano in accordo con le scuole. Faremo in modo di facilitare queste situazioni, daremo regole precise, e prepareremo un programma comune con chi, oggi come oggi, ci sta "rubando" tesserati, ovvero l'Udace. Loro sono d'accordo, a patto che noi presentiamo un progetto credibile».
Altre strategie di marketing ciclistico?
«Questo è uno sport che può essere venduto bene, perché risponde in pieno alle esigenze degli enti locali, nell'ottica del turismo e della salvaguardia dell'ambiente: proprio in questo tema si possono lanciare eccellenti programmi incentrati sui parchi naturali, magari in collaborazione col Wwf (esperienza che personalmente ho già fatto nel Coni)».
Tutto questo sarebbe positivo, a patto però di avere una maggiore visibilità del ciclismo sui mezzi di comunicazione. Le possibilità di trasmissione si moltiplicano, pensa che sia il caso di avere un canale televisivo tematico della Federciclismo?
«Ma io mi chiedo perché non ci abbiano già pensato. Quando io ero segretario avevamo avviato una buona collaborazione con TeleCiocco, che trasmetteva dirette alternative di corse minori. E la Lega Dilettanti ha una sua tv sul digitale terrestre, quindi anche per la FCI lo sbocco sarà quello. Però bisogna vedere per bene il contratto Rai, che non conosco nel dettaglio. All'azienda di stato va data la precedenza, perché copre l'intero territorio e poi quando ci si mette lavora bene (penso al Giro, con gli ottimi Cassani e Martinello); però mi chiedo se il contratto preveda che tante corse minori vadano in differita, in sintesi, in notturna, sul satellite. Non lo credo, e allora ragioneremo così: quel che la Rai può trasmettere per bene va sulla Rai, per il resto ci rivolgeremo altrove: penso sia una buona soluzione anche per la televisione di stato. Infine non trascurerei la radio, che offre canali alternativi per raggiungere gli appassionati e va curata in maniera particolare».
Quanto a internet, invece?
«Altra piattaforma da sfruttare. Miglioreremo il nostro sito, metteremo una banca dati a disposizione di tutti, offriremo on line servizi e strumenti per l'attività. E faremo fare dei master in scienze della comunicazione ai nostri tesserati».
Legato al discorso delle televisioni e della scarsa attenzione dei media c'è il fatto che tante corse secondarie siano in sofferenza, e alcune addirittura scompaiano.
«Ma sono gare che da tempo soffrivano, mentre non credo che scompariranno le corse importanti e con maggiore tradizione. Il Giro di Liguria, tanto per fare un esempio, non ha mai avuto risorse proprie. E' pur vero che la federazione avrebbe dovuto difendere il Trofeo Pantalica e il Giro dell'Etna, che caratterizzavano un'intera attività in una regione come la Sicilia».
Come avrebbe potuto difenderle?
«Andando a parlare con gli enti locali, responsabilizzandoli, facendo loro capire l'importanza di questi appuntamenti. E cercando di risvegliare l'interesse di gente del luogo, perché non ha più senso che organizzazioni del nord vadano a lavorare al sud, portando risorse proprie e raccogliendone per sé sul posto».
In tema: non è che la Rcs Sport (che organizza Giro, Sanremo, Lombardia, Lazio e altre corse minori) ha troppo potere?
«Può essere, ma non dimentichiamo che un'organizzazione così forte è stata la salvezza in momenti di grande crisi».
Ma si è fatta morire tra le mani corse come il Giro di Puglia, o il Trofeo dello Scalatore.
«Il Giro di Puglia è stato affossato dal disinteresse degli enti locali. Tra l'altro il calendario oggi è talmente affollato che, senza l'impegno totale di chi è sul campo, è facile chiudere bottega».
Il nascente Pro Tour ha qualche colpa in queste evoluzioni?
«Ma no, si tratta di un progetto innovativo, ho fiducia in Verbruggen. Tutte le discipline si evolvono verso una selezione di eccellenza, in cui le società vengono scelte non per politica ma per garanzie meritocratiche, e lo stesso farà il ciclismo. Certo, ci sarà anche spazio per variare qualche possibile stortura. In ciò l'Italia dev'essere un paese guida, secondo la sua tradizione, deve essere leader nel continente. Abbiamo gli uomini per esserlo, e penso a Gimondi, Adorni, Moser, Saronni, Fondriest, grosse personalità a livello europeo. Inoltre, anticipo quello che è un mio progetto: creare una sorta di Pro Tour a livello italiano: scegliere una serie di corse e stringere accordi con altre federazioni (quella francese, quella spagnola) per garantire a queste corse una importante partecipazione straniera».
Il sud resterà ancora fuori dai grandi giochi?
«Io sono un candidato del centro, quindi necessariamente provvederò a ricompattare le regioni del centro-sud. Faremo investimenti e programmi mirati, come quelli sviluppati nel periodo 1990-'94 in Sicilia, che diedero ottimi frutti e di cui oggi si vedono i risultati. Come ho già detto le risorse ci sarebbero, tra i fondi destinati al sociale, e le regioni sono attente in questo senso: possiamo collaborare e prendere noi tali risorse per rilanciare il movimento. Ma voglio sfatare il mito che al sud ci siano poche corse: ci sono invece tante prove interregionali. La sfida sarà incentivare le società meridionali a correre anche al nord, e viceversa, quelle settentrionali ad andare al sud».
Avevamo lasciato in sospeso il discorso sulla pista. Come la mettiamo con le strutture?
«C'è il caos. Esiste un velodromo a Treviso rimasto a metà, e non è dato sapere neanche se la federazione stia pagando dei danni (mentre è certo che stia pagando interessi passivi). Poi si è deciso di spostare il velodromo a San Francesco al Campo, in provincia di Torino. Io dico: bisognerebbe farli entrambi! Treviso ha un enorme bacino d'utenza, il più grande d'Italia insieme a Milano, diventerebbe un punto di riferimento. Le risorse, ancora una volta, ci sono. Bisognerà fare delle scelte prioritarie, destinarle ai progetti più importanti e risparmiare altrove. Le faccio un esempio: nel bilancio 2003 sa qual è la cifra alla voce "Indumenti per la nazionale"? 750mila euro! Mi sembra uno sproposito, con quei soldi si potrebbero vestire gratis tutte le squadre fino agli esordienti, e rimarrebbe pure qualcosa per comprare le bici ai bambini».
Sarà possibile recuperare impianti già esistenti ma lasciati in abbandono, dal Vigorelli al Velodromo dell'Eur a quello degli Ulivi?
«Sì, dovranno tornare ad essere punto d'incontro anche logistico. C'è da ricostruire un intero movimento, non solo le strutture. Ceruti ha allontanato un gruppo di tecnici validi e di atleti, ha dimissionato 26 persone. E le assicuro che è più difficile trovare risorse umane, gente di carisma e spessore culturale, che non ricostruire un velodromo. Faremo in modo di recuperare queste professionalità. Purtroppo Ceruti ha offeso l'intelligenza di tutti, quando ha parlato degli omini Michelin; la pista è invece una nobile arte, e chi non l'ha capito deve uscire dal ciclismo! La pista dà una grande formazione, dovremo provare a portarci i Cunego, i Cipollini, i Bettini, i Simoni, in modo da attirare pubblico e soprattutto giovani».
Gran problema, insomma. Ma non quanto quello del doping.
«Ripeto, la FCI ha lavorato bene, a parte qualche distorsione. Va fatto coi medici sportivi (che per il momento sono solo 140) un programma di prevenzione e cultura, si deve spiegare agli atleti che non è necessario il doping per sfondare. E va fatta una campagna preventiva nelle scuole, ma non per far scoprire ai ragazzi che esiste una cosa chiamata doping, quanto per insegnare loro i veri valori dello sport. Bisognerà lottare tutti insieme, con la Wada (l'agenzia internazionale antidoping), col Cio, con l'Uci, col Coni, col Ministero della Sanità che ha una sua Commissione precipua, e bisogna tenere sempre alta l'attenzione. Lavorare maggiormente sui giovani, visto che i professionisti sono già controllati da Uci e Cio. E dare magari meno credito a certe indagini giornalistiche mirate a mettere il tema doping in maggiore risalto di quello che in realtà è».
Qual è il punto di forza del ciclismo?
«Secondo me sono i corridori. Negli anni tra il '95 e il '97 loro presero da sé coscienza che si stava esagerando, e che c'erano degli operatori che stavano inquinando l'ambiente, e autonomamente vararono i controlli sull'ematocrito, mentre la FCI al momento latitava».
Ci dice della nazionale? Va bene così o va cambiato qualcosa?
«Ballerini è un'ottima scelta, e va aiutato. Invece è stato lasciato solo a gestire casi che non erano di sua stretta competenza, vedi Di Luca o Rebellin a Verona. La federazione doveva prendersi le sue responsabilità e non l'ha fatto. Con Ballerini sono arrivati due ori in quattro anni, e pensare che fa parte di un gruppo di atleti di cui Ceruti voleva disfarsi».
Per chi tifa lei oggi?
«Cunego mi piace, buca lo schermo, è un grosso investimento per il futuro. Anche Bettini è bravissimo, e poi è uno nato nella "mia epoca". Ma non mi faccia scegliere, io vedo che oggi c'è un grande gruppo di ciclisti, sono tutti bravi a comunicare, hanno un ottimo bagaglio culturale, qualcuno di loro è pure laureato, non siamo più al "Ciao mamma, ciao papà" davanti alle telecamere. Mi piacerebbe creare un gruppo di riferimento di questi atleti, da mandare in giro per l'Italia a promuovere il ciclismo».
Lei ha tutta l'aria di uno che rimpiange il ciclismo di 20 o 30 anni fa, dica la verità.
«Vengo da una famiglia che ha sempre respirato ciclismo: costruivamo biciclette e le fornivamo ai corridori che facevano il militare a Roma, nella Compagnia Atleti. Sono cresciuto con i Motta, gli Adorni, a Imola ebbi l'onore di alzare la bandiera quando Vittorio vinse il Mondiale nel 1968. Era un gruppo straordinario di atleti, paradossalmente facevano più fatica a farsi convocare in nazionale che a vincere un Campionato del Mondo. Poi come dimenticare i Gimondi, i Baronchelli, i Moser, i Saronni, protagonisti di eccezionali antagonismi che attiravano grandi attenzioni del pubblico? Ma anche in tempi più recenti, negli anni '90, c'era un bel gruppo di corridori. Allora si investiva in ricerca, dal '90 al '97 avevamo un rinomato centro studi, e all'estero avevamo creato Casa Italia, che promuoveva il nostro ciclismo in occasione di eventi importanti. Poi tutto finì, e vennero addirittura problemi logistici, come successe a Sydney...».
Dove conta di raccogliere i suoi voti?
«Ovunque. Il marchio Di Rocco è forte, raccoglie dappertutto stima, fiducia, entusiasmo, malgrado i 7 anni di lontananza dal ciclismo. Forse perché sono sempre stato un uomo al servizio di questo sport, pronto anche al dialogo con l'avversario. Oggi invece o sei con Ceruti o sei contro di lui. Io compatterò il centro-sud e mi batterò col presidente uscente, che sostiene Toni con strumenti federali. Del resto non scopro certo io che chi è già nel Palazzo gode di qualche vantaggio».
Che percentuale di vittoria si dà?
«Diciamo che basta il 51% per vincere. Ma io punto a numeri più alti».
Faccia pure tutti gli scongiuri che vuole, ma se dovesse perdere da chi preferirebbe essere battuto?
«No, non vorrei proprio perdere: se scendo in campo lo faccio per ottenere il risultato massimo. Piuttosto diciamo che penso solo a condurre una campagna rispettosa dei miei avversari. E devo dire che Molinaroli si sta comportando molto correttamente, non mette in giro calunnie, al contrario di quanto sta facendo Toni. Di quest'ultimo cosa dovrei dire io, che quando si è occupato di ciclismo ha brillato per assenteismo? Ecco, da Toni non vorrei mai perdere».
Senta, è rimasto un piccolo dubbio. A inizio intervista aveva parlato di un possibile accordo con Ceruti per un progetto comune. Poi ha detto peste e corna del presidente uscente: ma come sarebbe stato possibile fare un programma insieme ad una persona che ha visioni così distanti dalle sue?
«Guardi, quando si apre un tavolo di trattative si può tranquillamente discutere. Io mi sarei tenuto tutta la mia autonomia decisionale, avrei riorganizzato la federazione, ma al contempo avrei portato avanti, coi correttivi del caso, le iniziative positive dell'attuale gestione. Avrei potuto contare sulla base di voti del gruppo Ceruti per proporre un discorso organico, ma loro - me ne sono reso conto a posteriori - non hanno mai pensato ad un accordo. Pazienza, io vado avanti per la mia strada».




