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Leoncino, ci mancherai - Troppi guai fisici, Bartoli si ritira

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Il paradosso è che proprio al termine della stagione più travagliata e meno luccicante un lottatore come Michele Bartoli si ritrovi a fare i conti con i propri limiti fisici e capisca che non sarà più tempo di cercare rivincite, di sognare altre vittorie, di esplorare nuovi traguardi: i mille guai che hanno minato la sua macchina fanno pendere in negativo la bilancia, accelerando l'orologio biologico, e ponendo il pisano di fronte all'obbligo di guardarsi allo specchio: "Ne vale ancora la pena? Questa sofferenza può essere il tramite per tornare ad essere come prima?". Evidentemente no.
Michele Bartoli era un predestinato. Era uno di quelli del '70. Lui come Pantani, come Casagrande (terzo uomo rivelatosi poi un po' sotto le aspettative), a inizio anni '90 ci si aspettava che spaccassero il mondo, e in effetti Pantani fu quello che fu, e anche Michelino, nel suo piccolo, un segno profondo lo ha lasciato. Ha vinto 55 corse in carriera, meno di altri uomini, ma che peso specifico, quei successi!
Fu Ferretti a trasformarlo finalmente in uomo da classiche, dopo quattro anni di promesse mantenute a metà. In Mg vinse finalmente quel Fiandre per cui sembrava tagliato, e subito gli cadde addosso il soprannome giusto: "Leoncino", nipote ideale del Magni d'altri tempi. Gli italiani, Argentin a parte, venivano da anni di magre al Nord. In quel periodo ci riscoprimmo vincenti, e Bartoli fu uno degli esponenti di punta di quel rinascimento italiano.
Si misurò con più efficacia sulle Ardenne, vinse due Liegi e una Freccia, mentre il Fiandre non lo vide più bravo e fortunato come nel '96: ancora quest'anno ha forato ai piedi del Grammont, nel momento topico, perdendo contatto coi migliori; alla Roubaix sembrava aver trovato un nuovo filone, con una buona prestazione alla sua prima esperienza sul pavè. Tanto che si sperava di rivederlo, su quelle pietre, in un dorato tramonto atletico. Niente, dovrà cambiare programmi.
Forse sarà direttore sportivo, Riis ha già detto che, se vuole, un posto in ammiraglia è suo. C'è tempo, per il momento Michelino può guardarsi bene intorno, abituarsi alla vita giù dalla bici, forse più famiglia e meno ciclismo, non è detto che sia un male.
Quando ha vinto ci ha fatto divertire, tanto; anche quando gli è andata meno bene, ha sempre saputo interpretare le corse nella maniera giusta, ha entusiasmato i suoi tifosi, e quando era più giovane era la disperazione dei suoi direttori sportivi, perché non si gestiva, dava troppo nei momenti sbagliati, poi magari gli mancava qualcosa sul più bello. Sia come sia, ha portato a casa sette prove di Coppa del Mondo (due volte ha vinto la challenge). Al suo attivo anche le crepuscolari affermazioni all'Amstel, e la doppietta, bellissima, al Lombardia. L'ultima volta, nel 2003, coincide col suo ultimo successo da professionista.
Perché poi non vinse più, quest'ultima annata è stata disgraziata, la schiena non lo lasciava in pace, e poi altri postumi di vecchi infortuni, quel ginocchio che si frantumò in Germania e che gli costò praticamente un anno di inattività. Ha rifiutato la convocazione olimpica, perché non se la sentiva, non avrebbe garantito sé al meglio, tanto di cappello, perché bisogna essere uomini veri per farsi da parte, e campioni celebratissimi di sport pedatori si guardarono bene dall'alzare bandiera bianca, per il bene della squadra, in finali mondiali.
Complimenti per tutto, rammarico per questa fine anticipata e per quello che ancora sarebbe potuto essere se... ma anche soddisfazione e anima in pace per quello che è stato capace di fare: quanti campioni, leggendo il suo cursus honorum, provano quel sottile brivido dell'invidia?

Marco Grassi



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