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13.1.1970-14.2.2004 - Marco, nessuno come te

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Sapevi che c'era qualcosa che in lui s'era rotto. Lo sentivi ogni volta che lo cercavi e non lo trovavi. Ti sembrava sempre più lontano, forte nel solco che aveva scavato, ma impercettibile nella posizione della sua figura e di quei problemi che gli sono sorti come fantasmi cruenti, in un giorno di strappo irreparabile col suo mondo e quello che significava. Sapevi e volevi fare qualcosa per lui, ma in te cresceva la consapevolezza che il confine stava in una deriva e non c'erano margini per ricomporre. Erano le constatazioni che il tempo non ritorna all'indietro e l'umana cattiveria accompagnata all'invidia, avevano fatto troppo per generare anche un sottilissimo istmo di ottimismo.
Avresti voluto abbracciarlo e dargli un altro segno di ringraziamento per quello che di sublime aveva fatto, ma la tragedia è arrivata prima dell'autostrada sulla quale si spingeva il pessimismo. E' arrivata d'improvviso, come la peggiore delle pugnalate, a rompere quel richiamo terreno che rende storie le leggende. S'è subito presentata col chiasma che porta il ricordo tridimensionale allo sconforto, il sorriso e la gioia del tempo che fu, al nero dell'irreparabile, in un vortice senza confini e contorni, col solo struggente bisogno di piangere, come faccio ora, copiosamente.
Sì, carissimo Marco, piango pigiando questa tastiera bagnata, con la lentezza d'uno che non ha più la forza e la dignità per raccontarti, tale è il dolore che lo pervade. Non mi do pace e non potrò mai trovarla, nemmeno facendo scorrere il cancellante del tempo. Tu sei stato immenso e non meritavi quel crudele destino che t'han costruito ben oltre l'entità del tuo umano errare. No, non posso cedere al razionale, perché nel tuo tratto di razionale non c'è nulla: dalle stimmate divine che t'han eletto campione unico, alla brace dell'insensibilità e del giogo sadico che s'è alzato verso di te. Mi rifugio nel pianto, carissimo Marco, perché per me, come per tanti, continuerai a vivere sempre, in ogni angolo di quel che ci rimane nel cammino su questa dimensione.
Il tuo è un sacrificio. Certo, il sacrificio umano alzato e voluto da coloro che t'han eletto a capro espiatorio, ignari e inconsapevoli di inviarti ad una morte lenta e piena di torture, spinta ogni giorno con l'insensibilità delle belve. Ora diranno che lo spirito era un fine di bene, ma in realtà le motivazioni stavano solo nella cinica soddisfazione dei loro disegni, o nell'esaurimento della loro ignoranza tornacontista. Non ne voglio parlare ora, mi è troppo difficile per lo stato in cui mi ritrovo, ma se il sangue continuerà a scorrere nelle mie vene lo farò, senza paure e con la cattiveria della disperazione per la sopravvivenza.
Spero solo di non vedere fisicamente quelle loro lacrime di coccodrillo, mi basta sapere che ci saranno, per irrorare quell'apparenza che li ha sempre animati. Il rimorso non viene mai alle belve e se ce ne fosse qualcuna animata dalla volontà di umanizzarsi, la vedremmo per i suoi tangibili atti conseguenti, ma si tratta solo di una speranza flebile.
La morte di Marco Pantani, del più grande scalatore che i miei occhi abbian mai visto, dell'uomo che ha portato il ciclismo ad incrinare il dominio del calcio, superando la stessa "Formula uno", del camoscio che s'involava sui pendii per raggiungere il punto supremo delle essenze del suo essere artista incomparabile, non s'è concretizzata il 14 febbraio, ma molto prima. Qualsiasi causa scatenante l'epilogo della sua dimensione di vivente, non è altro che la conseguenza di un dolore che lo asfissiava dal giugno del 1999. La sua vita dal giorno di Madonna di Campiglio è cambiata entrando nei meandri dell'incalcolabile.
Un uomo buono, sensibile e fragile, come Marco, non poteva reggere senza conseguenze all'immenso peso del linciaggio perpetrato da chi conta realmente. Se lo avesse sopportato e superato, non sarebbe stato Marco Pantani, ma un clone infarcito di quel cinismo e quella cattiveria che non erano parte del suo DNA. I suoi successi leggendari e il suo mito hanno spiccato il volo grazie soprattutto al cuore e ai sentimenti profondi che erano i fulcri del suo patrimonio. Quando uno nasce così, è pressoché impossibile che si snaturi. Per continuare a vivere secondo i dettami di ciò che per l'immaginario collettivo è giusto (ma non è detto che rappresenti il senso della verità), servono persone accanto che costruiscano corteccia forte, ma il successo del loro aiuto diviene tanto più piccolo quanto più grande è la fama ed il contesto sui quali vive il protetto.
Marco è stato nel '98 il quinto italiano più famoso nel mondo ogni-categoria, quindi un'entità ed una pressione psicologica enorme. Era dunque fin troppo evidente che ci sarebbero stati dei gravissimi contraccolpi sul futuro umano del campione. Pantani si è chiuso in se stesso ed ha cercato evasioni come avrebbero fatto quasi tutti, anche perché il mondo del ciclismo è il più squallido, non per il doping, come direbbe qualche cieco o idiota osservatore, bensì per la cultura sibillina di troppi dirigenti e addetti ai lavori.
Se poi consideriamo che attorno a lui, oltre all'imbecillità mediatica, si sono levate continuamente in questi anni le corde di una magistratura tanto veemente quanto ignorante sui fatti e le consistenze dello sport, il quadro che ne esce ci porta facilmente a considerare come prevedibilissime le tragiche conclusioni di questo vero e proprio linciaggio. In condizioni simili un uomo è portato all'autodistruzione ed il fatto che non vi giunga è da considerarsi un'eccezione. Soprattutto se si pensa che nessun soggetto può essere solamente paragonato a Marco Pantani.
Ora il mondo ben pensante, compresi i pochi reali intellettuali della decadente Italia odierna, si leverà a dimostrare le debolezze dell'uomo di Cesenatico, come una forma di giustificazione che non rende onore scientifico a chi studia l'uomo e non spiega nulla aldilà della solita ipocrisia. Nemmeno potrà avere senso ricondurre tutto al doping, in quanto se non vogliamo prenderci in giro e se si conosce lo sport, ben si sa che non esiste un atleta di vertice di qualsivoglia disciplina pulito, basta guardare certe metamorfosi che valgono per l'intelligenza dieci volte la provetta siamese al valore giuridico.
Marco ha usato sostanze certo, ma in quantità inferiore ad altri protagonisti di qualsivoglia sport, per il semplice fatto che possedeva una superiorità tangibile per qualsiasi normodotato. Ciò che ha fatto all'ultimo Giro d'Italia, dopo anni di autodistruzione è qualcosa che non ho mai visto nelle oltre venti discipline che seguo, da quando ero un bimbo. E' stato semplicemente un extraterrestre. Se poi si considera come ha saputo soffrire per riprendersi dai tanti incidenti pure gravi che lo hanno sempre accompagnato, emerge un uomo che ha usato il cuore e la determinazione come pochi.
Ma un conto è combattere contro il destino e la sfortuna che si scaraventano sul proprio fisico, ed un conto è trovarsi un intero mondo che ti elegge a capro espiatorio, che ti volta le spalle, che ti giudica traditore, che ti usa come un esempio del male, che ti apre le porte dei tribunali con la frequenza di un delinquente della peggior specie. Ecco perché questa morte possiede il sinistro ventaglio dell'assassinio. Parola forte? No, semplicemente una constatazione da uomo libero che odia gli ipocriti, i ruffiani, i falsi, che è un "non conformista" e che dà tutto se stesso verso chi merita.
Il male che è stato fatto a Marco Pantani non ha precedenti (anche scomodando altri mondi oltre lo sport) e non avrà seguiti, perché ci vorranno decenni prima di vedere un altro in grado di ricreare ammirazioni e imbarazzi come lui. Ora, dopo aver scagliato qualche sassolino, mi rendo conto che il pianto non ha frenato la tastiera sempre più bagnata e capisco che sarebbe giusto raccontare qualcosa del tanto immenso seminato da questo ragazzo che tanto ha dato alla nostra terra, ma la pressione dell'emotività che i bei ricordi si portano siamese, me lo impedisce.
Lo farò meglio quando le condizioni me lo consentiranno, anche perché Marco è un immortale e ogni giorno, anche del 2023 o 2059, rappresenterà sempre un'occasione per parlarne e raccontarlo. Per ora mi limito ad allegare qui uno spezzone di quanto scrissi nel giugno scorso, due settimane dopo la conclusione di quel Giro d'Italia che l'ha eletto, più di ogni altro, come un atleta tra i più grandi dell'intera storia degli sport.


........Conosco il "Pirata" da quando era un ragazzino. Posso dire che in salita si dimostrò subito un fenomeno. Da dilettante, aldilà di quelle imprese che poi lo renderanno leggenda fra i professionisti, lo ricordo per le migliaia di domande che mi faceva: era così desideroso di sapere, che lo notavi indipendentemente dalle orecchie a sventola e dalla calvizie già evidente. Sembrava un ragazzo posato e metodico, il contrario di quello che poi, giocoforza, s'è visto in questi ultimi quattro anni.
Fu per me un'enorme soddisfazione essere speaker ed addetto stampa di una delle sue maggiori imprese da "puro", nel 1991. Il teatro fu il G.P. Loredano Flamigni, a Meldola, una corsa dal percorso massacrante (terminata da soli sedici concorrenti), che prevedeva la scalata di Rocca delle Camminate per ben cinque volte. Pantani andò in fuga solitaria già dopo le prime rampe. L'auto della stampa, col sottoscritto dentro, si avvicinò a quell'autentico camoscio, ed io gli urlai: "Marco, se arrivi solo, fai un'impresa leggendaria, ed io domani scriverò sul giornale che sei il nuovo Gaul!". Pur sotto sforzo, mi rispose con un deciso: "Contaci!".
Ho i brividi e le lacrime, giuro, nel ricordare quell'episodio. Nonostante il meglio del mondo dilettantistico lo inseguisse con veemenza, non fu più ripreso. Anzi, il suo vantaggio, ad ogni passaggio al Gran Premio della Montagna, aumentava con regolare cadenza. Ad un certo punto, Marco ruppe il telaio. Con calma, si poté fermare e cambiare bicicletta. Quando arrivò, un intero paese aveva gli occhi lucidi. La mia intervista sul palco, davanti ad una folla strabocchevole, assunse le sembianze della presentazione di un fenomeno destinato a tracciare pagine memorabili del grande romanzo del pedale. Credo di non essere mai stato così bravo come in quell'occasione, ma dovevo esserlo, perché avevo di fronte un atleta che si avviava ad aprire le porte del mito.
Il giorno dopo, sul giornale, fui il primo in Italia a definirlo il "nuovo Charly Gaul". Qualche anno più tardi, esattamente i primi di dicembre del 1997, presentai un libro che avevo scritto in una sola settimana, con quella facilità che ti viene quando senti profondamente quello che scrivi. Il tema: la montagna ed i suoi profeti in bicicletta. In quel testo, arrivai a definire Gaul il "padre spirituale" di Marco Pantani e Fabiana Luperini (guarda caso il buon Charly ha chiamato Fabienne sua figlia e verso Marco mi dimostrò di provare un affetto degno d'un padre).
La manifestazione ebbe un'eco europea, arrivarono pure tanti stranieri, ed io non potrò mai dimenticare l'abbraccio di Marco, di Charly e di Fabiana. Pantani mi salutò dicendomi che nel 1998 avrebbe fatto quello che avevo scritto nel libro: vincere Giro e Tour!
Due giorni dopo quell'evento, portai Gaul e la sua famiglia da Luciano Pezzi, nel quartier generale della Mercatone Uno sportiva: una chiesa sconsacrata trasformata in centro sportivo attrezzatissimo su una collina in quel di Dozza Imolese. Lì c'era pure Marco, con tutta la squadra al completo, ed un amico del ciclismo, ma centauro di professione: Marcellino Lucchi. Ricordo le lacrime di Pezzi, già profondamente malato di cuore, mentre si teneva stretti Gaul, che non vedeva da quasi quarant'anni e il suo pupillo Pantani, un nipotino che sentiva dotato delle stimmate alate.
"Maurizio - mi disse quando ce ne stavamo andando - mi hai fatto un grande regalo! Già mi fai piangere ricordandomi Coppi e dire che non eri nemmeno nato, ma oggi mi hai concesso un sogno. Vedere Marco con Charly lo è. Credo che anche tu abbia un groppo in gola come me. Io non so quanto vivrò ancora, ma vorrei tanto vedere Pantani in rosa ed in giallo come Gaul. So che ci potrà arrivare, me lo ha confessato anche Charly. Stai vicino a loro!".
Ricordi. Emozionanti e lacrimosi ricordi. Quella visita e quell'incontro furono di buon auspicio: Marco vinse Giro e Tour, ma in mezzo, una tragedia forse anche annunciata che peserà non poco nel destino del grande scalatore di Cesenatico: la morte di Luciano Pezzi........

Morris



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