13.1.1970-14.2.2004 - È morto Marco Pantani
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Non esiste pagina listata a lutto, non esiste frase di circostanza, non esistono minuti né giornate di silenzio, non esiste niente di niente che possa spiegare, che possa aiutarci a capire perché la vita di Marco Pantani si sia interrotta così, senza un senso, senza una spiegazione.
Ci eravamo messi l'anima in pace, ormai. Ci eravamo disposti a non vederlo più in bicicletta, a lasciare soltanto nell'angolo dei ricordi le sue leggendarie scalate, perché avevamo capito che, pur in mancanza di comunicati ufficiali, o di dichiarazioni definitive, o di segnali provenienti da Cesenatico, Marco Pantani non avrebbe più fatto il ciclista. Ci eravamo disposti a dimenticare anche tutte le domande che ci eravamo fatti sul suo conto, su quel dannato doping, e se lui fosse più vittima o più colpevole, e a dimenticare le nostre convinzioni su quella vicenda, quelle convinzioni che non servono a niente se non, adesso, a rinfocolare un remoto senso di rimorso e di rimpianto.
Ma non avevamo mai voluto scordare le sue Giornate, quelle in cui, doping o non doping - che importanza ha ormai, e che importanza aveva allora? - lui spianava le montagne, si mangiava uno dopo l'altro tutti gli avversari che, poverini, gli capitavano davanti alla ruota, e appassionava milioni di tifosi in tutto il mondo, li avvicinava al ciclismo, faceva scoprire alle masse la bellezza di questo sport e di quel sudore, di quella fatica. Quella fatica di cui diceva «la odio, per questo vado forte in salita, per farla finire il prima possibile».
Per quest'altra, di fatica, quella di vivere, non ha trovato antidoto. E' caduto in depressione; lo avevamo visto, gonfi di gioia per un uomo che forse si era ritrovato, al Giro dell'anno scorso. Ancora una volta (l'ultima, accidenti a lui) coi migliori, sulla salita più dura della corsa. Eravamo tutti lì per Pantani; sulla strada, davanti agli schermi, tutti in attesa di uno scatto, di un segnale, al limite di una caduta, una delle sue storiche, incredibili cadute: qualsiasi cosa che ci restituisse il vecchio Pirata e l'illusione che il tempo si può anche fermare, anche per un solo istante.
Poi il Tour, quel maledetto Leblanc che per l'ennesima volta non lo invita, e Marco che si tormenta, non si ritrova più. Entra in clinica, per curare la depressione, poi ne esce, poi più nessuna notizia. Correrà ancora, non correrà più? Chissenefrega, ci dicemmo, l'importante è che si rassereni, che stia bene. A noi bastava il ricordo.
Il ricordo di quel Giro 1994, quando si rivelò al mondo facendo uno show sul Mortirolo, suscitando in tutti un'emozione viva, chiudendo al terzo posto e instillando in noi la certezza di avere di nuovo, dopo decenni, uno scalatore di quelli che un tempo venivano cantati nelle canzoni; il ricordo del Tour di quello stesso anno, ancora terzo, quando fece capire che sarebbe stato lui l'italiano a rivincere la corsa francese; il ricordo del '95, quando venne investito da un automobilista poco prima del Giro e non potè partire per la corsa rosa, ma si rifece al Tour, vincendo due tappe, e al mondiale, arrivando terzo. L'incidente alla Milano-Torino, la jeep contromano che lo travolge e gli spacca femore, tibia e perone, il viso distrutto dal dolore mentre lo portano in barella in ospedale, un anno e passa di stop, la lenta riabilitazione, il ritorno al Giro del '97 e ancora la sfortuna si accanisce, un gatto gli taglia la strada, lui cade, un'altra volta!, e addio Giro.
Al Tour di quell'anno torna finalmente a brillare, vince due tappe, la sua parabola di campione sfortunato che a dispetto della malasorte vince ancora affascina il mondo. L'anno dopo, il '98, l'apoteosi. Giro d'Italia e Tour de France, come i grandissimi, il mondo in mano. Pagine e pagine di emozioni, momenti incancellabili, scavati nei nostri pensieri, da dove nulla li avrebbe mai più spostati.
Il 1999, ancora un Giro da protagonista assoluto, in maglia rosa fino alla penultima tappa, e un attimo prima di gustare il bis rosa, all'apice della carriera, della popolarità, della felicità, ecco il baratro. L'ematocrito è troppo alto, chissà che vuol dire. Nei fatti, lo fermano per doping. Crolla il mondo attorno a lui, è un simbolo, è un re, è un dio in terra, e quando cadono gli dei non c'è indulgenza.
«E' un complotto», grida lui, probabilmente non è vero, ma da quel momento Marco Pantani si sente rifiutato da tutti, e neanche questo è vero, perché i tifosi e chi lo ha amato lo aspettavano ancora oggi per acclamarlo una volta di più; si sente capro espiatorio, e questo sì, è vero. Paga per tutti, il danno morale che riceve è troppo grande perché lo possa metabolizzare. Continua a corricchiare, passano i mesi e gli anni, l'unico momento in cui pare tornato al suo splendore è il Tour del 2000, due tappe vinte su Armstrong, ma è il canto del cigno.
Di un cigno che non canterà più, di un uomo troppo fragile per sopportare tutto quello che la vita gli ha riservato. Infame, la vita, quando ci si mette. Addio Marco. Grazie per esserci stato.
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