Il ciclismo? «Dilettanti» - Ingrillì attacca, Ceruti tace
Versione stampabileOltre 200 corridori disoccupati (al 30 dicembre) non possono essere un dato casuale. Rispetto al 2002 sono troppi i ciclisti rimasti senza squadra per non pensare che ci sia qualcosa di grosso che sta investendo il ciclismo mondiale. Che si tratti della crisi degli sponsor (non aiutati certo dai continui scandali doping ad affezionarsi a questo sport), o della regola Uci che pone il limite di 25 corridori per squadra a partire da questa stagione, il fatto è che molti sono rimasti a spasso: per tutti due nomi, quelli di Pantani e di Gotti, vincitori di tre Giri d'Italia dal 1997 al 1999 (appena tre anni fa, insomma).
Ingrillì (ACCPI): «Il ciclismo è gestito da dilettanti».
Per capirci di più, Cicloweb.it si è rivolto all'Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiana, il sindacato dei corridori guidato in passato da Gimondi e attualmente presieduto dall'avvocato Enrico Ingrillì. Il quale, partendo dall'attuale situazione di crisi, approfitta per lanciare pesanti accuse al sistema. E dalle parole di Ingrillì non si salva nessuno.
«Chiediamoci innanzitutto una cosa: sono veramente corridori quelli che sono rimasti disoccupati? Non credo: i veri corridori una squadra ce l'hanno. Chi è rimasto senza ingaggio o non è un professionista di cui il ciclismo sentirà la mancanza, oppure ha delle pretese assurde».
Un Gotti potrebbe ancora dire molto in questo sport.
«Se non chiedesse un ingaggio miliardario, avrebbe già trovato una sistemazione. Gotti non ha portato a termine nessun grande giro negli ultimi tre anni: chi potrebbe investire su di lui una barca di soldi?».
Ci sono tanti corridori che però non pretendono miliardi, eppure non hanno la possibilità di avere un'altra chance.
«Tempo fa noi avevamo proposto a questi giovanotti una riduzione dell'ingaggio del 2-3%, in modo da creare un fondo per coprire gli stipendi dei disoccupati. Sa cosa hanno risposto tutti quanti? "Chi se ne frega dei disoccupati!". Mors tua, vita mea, purtroppo ragionano così, c'è scarsissima solidarietà in gruppo».
Il nuovo limite dei 25 corridori per squadra ha qualche responsabilità nell'attuale situazione?
«Quello è un limite chiesto proprio da noi, dai corridori e dai gruppi sportivi, per evitare che si creassero corazzate multinazionali da 35/40 uomini destinate inevitabilmente a vincere tutte le classifiche Uci accaparrandosi troppi punti. In ogni caso, dopo che la proposta è passata, abbiamo anche chiesto una deroga all'Uci, per vedere di piazzare qualche corridore. L'Uci si è fatta una risata; del resto, pur avendo delle deroghe, non avrebbero trovato sistemazione più di una decina di ciclisti: i quali sono l'ultima ruota del carro e subiscono le scelte (e le non scelte) che si fanno sulle loro teste».
Come mai, anche con la deroga, si sarebbero liberati solo una decina di posti?
«Perché le squadre non ce la fanno, costano troppo e non si trovano sponsor disposti a svenarsi».
E la colpa di chi è?
«La colpa è di chi ha fatto creare, almeno qui in Italia, una situazione di nausea e sconcerto intorno a questo sport. In una parola, la colpa è della Federciclismo».
Come si è arrivati a questo punto?
«Attraverso una gestione personalistica che bada solo a perpetuare il proprio potere, senza interessarsi ai problemi del ciclismo. Chi guida la Federazione guarda i suoi interessi, e nel frattempo non fa niente per affrontare questioni serie come, ad esempio, il doping: ad ogni Giro c'è qualche blitz delle forze dell'ordine, ma la Federazione si guarda bene dal difendere i corridori. Ci si accanisce sui professionisti, ma su giovani e dilettanti i controlli sono scarsissimi, ed è lì che si radicano certe pratiche. Verbruggen, presidente dell'Uci, non viene più in Italia, perché come ci mette piede viene assalito da qualche zelante pm che lo vuole interrogare: dov'è Ceruti quando accadono queste cose?».
Possibile che sia proprio il presidente federale il nemico numero uno del ciclismo italiano?
«E' tutto un sistema imperniato sul nulla. Si fanno solo convegni inutili, nei quali si parla, si parla e non si conclude mai niente. Manca una mentalità manageriale, che possa valorizzare al meglio questo sport. Il Consiglio Federale è monopolista su tutto, la discussione non esiste».
E cosa esiste, invece?
«Il voto di scambio. Poco prima delle elezioni Ceruti accorda piccoli contributi alle società dilettantistiche, e così si assicura gli appoggi di cui ha bisogno. Addirittura c'è chi si vende per una cena o per un soggiorno a Salice Terme: come si fa ad avere un dialogo costruttivo in un simile ambiente? Ci troviamo di fronte ad un dilettante che gestisce da dilettante un mondo di dilettanti».
Cosa pensa che risponderà, Ceruti, a queste pesanti accuse?
«Niente. Queste cose da un orecchio gli entrano e dall'altro gli escono».
A questo punto, chi gliela fa fare ad andare avanti?
«Nessuno, infatti sto qui solo per dovere di ufficio, alla prossima assemblea passerò la mano. Spero che divenga presidente un ex atleta, capace di sopportare critiche, ritrattazioni, tranelli: non ce ne sono molti, in giro, che rispondono a questo identikit».
Lascia con parole di un'inaspettata amarezza.
«Nel ciclismo ci rimetto soltanto: non ho ritorni di immagine, non mi interessano le cene o i soggiorni negli alberghi, in più vedo che tutto quello che ho fatto, dal contratto collettivo all'uniformazione dei regolamenti internazionali, alla regolamentazione del ruolo di procuratore sportivo, interessa poco. A questo punto, meglio andarsene».
Ha qualche messaggio particolare, per finire?
«Ho un aneddoto: qualche mese fa la Federazione propose al Consiglio Professionistico un progetto per regolamentare il passaggio degli atleti dal dilettantismo al professionismo. Noi, in accordo con l'Assogruppi e con gli organizzatori di corse, evidenziammo 200-300 correzioni al testo, per renderlo più funzionale ed evitare, in futuro, cause dovute ad alcune ambiguità del testo stesso. Il rappresentante della Fci, Emilio Farulli, si disse completamente d'accordo con noi. Era mercoledì. Al sabato Farulli, insieme a tutto il Consiglio Federale, approvò all'unanimità il testo originale. Come si fa, insomma, ad avviare discorsi importanti con un gruppo di persone la più colta delle quali ha la licenza media? Non lo dico, ovviamente, per discriminare chi non ha studiato, ma perché un ambito complesso come quello normativo avrebbe bisogno di persone di maggior cultura per essere portato avanti».
Ceruti (FCI): «Non ho nulla da rispondere a Ingrillì».
«Non è al signor Ingrillì che io e la Federazione Ciclismo dobbiamo dar conto del nostro operato». Parole secche, che non ammettono repliche, quelle di Gian Carlo Ceruti, presidente della Fci.
Eppure le accuse che vengono dall'ACCPI sono abbastanza circostanziate.
«Io devo pensare a fare il presidente, e non replicare a questo o a quello: è al mondo del ciclismo in generale che devo rendere conto di ciò che faccio».
Cosa ha da dire del gran numero di disoccupati che si registrano quest'anno?
«Il mondo dei professionisti è regolato dall'Uci, noi non possiamo far altro che uniformarci. Per il resto, vigono sempre le regole del libero mercato: Gotti e Pantani hanno sempre trovato una squadra da sé, non hanno mai avuto il bisogno dell'appoggio federale. A tutto il resto, ripeto, pensa l'Uci».
Ingrillì sostiene che Verbruggen non mette più piede in Italia. Che rapporti ha con il presidente dell'Unione Ciclistica Internazionale?
«Normalissimi».
Quali sono i prossimi impegni della Fci?
«Abbiamo definito calendario e programmi per il 2004, l'obiettivo primario sono le Olimpiadi di Atene: siamo stati la prima federazione a predisporre già l'impegno per i Giochi».
La crisi del Coni vi ha penalizzato parecchio?
«Il momento è difficile per tutti, comunque siamo riusciti a chiudere in attivo il bilancio del 2002. E abbiamo avuto anche grandi risultati sportivi».

Cantù (ACCPI): «Ridimensioniamo il problema».
Un tocco di serenità viene da Alfonso Cantù, direttore organizzativo dell'Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiana: «La tendenza è effettivamente di un aumento dei disoccupati, ma per quanto riguarda l'Italia il numero è cresciuto di poche unità rispetto agli anni scorsi. E se consideriamo che ha chiuso una squadra come la Mapei, possiamo capire meglio la situazione».
Cosa fa l'ACCPI per chi, comunque, fa i conti con la disoccupazione?
«Per la prima volta abbiamo concluso un accordo con la Adecco: mandiamo da loro i corridori, poi lì fanno dei master, imparano a usare il computer, vengono inseriti nel mondo del lavoro: in questo modo abbiamo trovato una sistemazione ad una ventina di ragazzi solo negli ultimi due mesi».

Zanardo (Team Manager): «Rivedere il meccanismo dei punteggi Uci».
Gian Enrico Zanardo, attualmente collaboratore del tedesco Team Fakta, è stato fino a tutto il 2002 team manager della De Nardi-Montegrappa, squadra che quest'anno si è fusa col Team Colpack riducendo drasticamente i suoi ranghi: una ventina di corridori si sono ritrovati senza ingaggio. «Sei dei "miei" ragazzi sono confluiti nella nuova squadra. Gli altri, in particolare gli slovacchi, hanno trovato una sistemazione a livello dilettantistico. Purtroppo con la crisi degli sponsor bisogna fare un passo indietro».
Non avrete esagerato in passato?
«Io la vedo da un'altra prospettiva: abbiamo dato a un bel numero di giovani la possibilità di farsi vedere a livello internazionale. Qualcuno, e penso a Palumbo, Miorin, Cadamuro, Gobbi, Aug, forse non avrebbe avuto la stessa chance se non ci fosse stata la De Nardi-Montegrappa. Qualcuno si è poi fermato, ma lo avrebbe fatto lo stesso prima che noi lo ingaggiassimo».
Avete fatto qualcosa per il "dopo" di questi ragazzi?
«Dispiace vedere che qualcuno resta senza squadra, specie se si ritiene che possa valere qualche professionista tuttora in attività. Ma in verità non possiamo considerare il posto da professionista un diritto acquisito indipendentemente dai risultati».
Perché tante squadre sono in crisi?
«Perché gli sponsor non amano rischiare al buio: è inconcepibile che, lo scorso anno, un corridore come Cipollini, indiscutibilmente il più rappresentativo degli italiani, sia rimasto fuori dal Tour: se un'azienda sponsorizza un corridore, deve avere la certezza che quel corridore, ad esempio, sarà in Francia in luglio. E deve avere la certezza che un certo numero di corse avrà la copertura televisiva: attualmente, invece, si vive e si spende al buio».
Quali sono le responsabilità dell'Uci?
«Sono da rivedere i calendari e il sistema dei punteggi. Esempio: in Italia abbiamo tante gare classificate 1.3, per le quali gli organizzatori non hanno interesse a farle diventare 1.2 (spendendo di più), perché tanto tutte le principali squadre italiane vi partecipano lo stesso. Così la De Nardi si trovava a lottare sempre con una quindicina delle migliori squadre del mondo, e pur piazzandosi come il miglior gruppo di seconda fascia, non prendeva punti perché arrivava al massimo al decimo posto. In Germania e in Belgio, invece, le squadre piccole lottano fra loro, e raccolgono molti più punti pur valendo, in assoluto, meno di noi. Quanto ai punti, bisogna capire che non è la serie dei piazzamenti che fa il campione, ma i singoli successi e la natura del personaggio. Pantani resta sempre amatissimo anche con 0 punti; a chi importa se Basso ha 300 punti e Arvesen ne ha 700? In questa maniera i corridori hanno eccessivo potere contrattuale: al contrario, bisognerebbe trovare un sistema di punteggi che premiasse la squadra come gruppo».

Grafici basati su dati tratti da www.cycling4all.com (Aggiornati al 30 dicembre 2002)




