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L'avvocato del Giro - Carmine Castellano, organizzatore della corsa rosa, si confessa a Cicloweb

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Di lui si potrà ben dire che non sta fermo un attimo, sempre in giro per la penisola a cercare nuovi percorsi, a controllare quelli scelti, a verificare mille cose che riguarderanno le "sue" corse. Auto, treno, aereo, bicicletta: non importa il mezzo ma solo il fine. E il fine si chiama Giro d'Italia.
Ma fino a quando continuerà a fare questa vita?
«Finché quelli della Rcs riterranno di avvalersi del mio lavoro, e finché le mie forze mi sorreggeranno».
Così per curiosità, quanti chilometri fa lei in un anno?
«Solo negli ultimi venti giorni ne ho fatti 3000 in auto, più quelli percorsi in treno o in aereo; in totale, e solo con l'automobile, in un anno copro 50-60mila chilometri».
E con la bicicletta quanti ne fa?
«Di meno: la uso principalmente d'estate, ma d'inverno mi rifaccio con la cyclette».
Cosa faceva prima di dedicarsi anima e corpo al ciclismo?
«Esercitavo la libera professione, ho fatto l'avvocato per 20 anni».
E poi...
«Poi iniziai a collaborare con Vincenzo Torriani, aiutandolo col Giro dal 1982 al 1988. Il primo Giro che considero "tutto mio" è quello del 1989».
Fra tutte, qual è stata l'edizione più bella?
«L'ultima, quella del 2002, mi ha dato grandi soddisfazioni: sia dal punto di vista tecnico, sia perché, con un'idea forte alla base (l'introduzione della moneta unica), abbiamo fatto tappa in mezza Europa, realizzando un Giro memorabile».
E la più brutta?
«Nessuna. Quando si arriva alla fine dell'organizzazione, significa che tutti i problemi sono ormai alle spalle. Poi non sempre si realizza tutto quello che si era pensato, ma avere di fronte la cartina di un Giro significa aver già raggiunto un importante risultato».
Qual è la cosa più difficile per un organizzatore?
«Riuscire a sfruttare al massimo ciò che il territorio offre, creando nel tracciato una continuità di interesse. Ovviamente rispettando le esigenze tecniche e dei corridori, degli sponsor e della stampa».
Quale tappa le ha lasciato un ricordo indelebile?
«Quella del Colle dell'Agnello nel 1995, per come risolvemmo una situazione drammatica dopo averla presa praticamente per i capelli: sul Colle c'era stata una slavina prima del passaggio dei corridori, in un quarto d'ora riorganizzammo tutto, anticipammo l'arrivo da Briançon a Ponte Chianale, rifocillammo gli atleti e trovammo una sistemazione confortevole per tutti».
Cosa fu peggio, il blitz di Sanremo o l'assurda mattinata di Madonna di Campiglio?
«Madonna di Campiglio, senza dubbio: nessuno si aspettava la sospensione di Pantani in maglia rosa (il Pirata venne fermato per ematocrito troppo alto), il mondo ci crollò addosso. I fatti di Sanremo ci diedero molto fastidio per come venne condotta l'azione delle forze dell'ordine, per questa spettacolarizzazione della giustizia che accompagna spesso il Giro».
Si aspetta blitz dei Nas anche nel 2003?
«Non lo escludo: fa gola intervenire quando c'è la massima attenzione dei media. Quest'anno l'inchiesta di Brescia, che andava avanti da 14 mesi, si è conclusa, guarda caso, proprio quando il Giro è rientrato in Italia: non ci eravamo neanche accorti che Romano (il corridore della Panaria inquisito) era scappato, pensavamo stesse sull'altro aereo, e quelli dell'altro aereo pensavano stesse con noi... Solo a Cuneo ci rendemmo conto di tutto. Comunque non è solo in Italia che succedono certe cose: guardate la Francia, con il fermo dell'intera Lampre subito dopo la Parigi-Tours».
Com'è il suo rapporto con i corridori?
«Chiaro e franco. Parliamo apertamente, io vado incontro alle loro esigenze. A patto che loro facciano lo stesso con me».
Le hanno mai dato problemi particolari?
«In una Sanremo di qualche anno fa addossarono a noi la colpa dell'invasione della sede stradale da parte dei fotografi. Qualcuno chiese addirittura all'Uci di "togliermi di mezzo", di non farmi più organizzare le corse. Era il 1993».
Tifa per qualcuno?
«Prima di fare questo lavoro sì, ora non ne ho il tempo. Mi piace chi dà spettacolo nelle mie corse».
C'è una corsa che le piacerebbe organizzare?
«Nel cassetto ho qualche idea, anche fuori dall'ordinario. Ma non voglio svelare di che si tratta».
Non sarà un "Giro d'Europa"?
«Quello l'abbiamo in parte fatto all'ultimo Giro. No, restiamo in Italia».
Cosa invidia al Tour de France?
«Riconosco ai francesi una sorta di diritto di primogenitura, e il fatto di essere sempre stati innovatori; invidio al Tour gli anni '30, quando la Grande Boucle, disputata dalle squadre nazionali, diventava sempre più importante, mentre il Giro, per motivi politici, attuava un certo ostracismo nei confronti degli stranieri (era una corsa italiana e doveva essere vinta da un italiano): fu allora che si scavò quel solco tra noi e loro, solco tuttora visibile. Un'altra cosa che invidio al Tour è la collocazione nel calendario: in luglio tanti appassionati sono in vacanza e possono seguire la gara francese, che gode perciò della massima attenzione; noi veniamo invece in pieno periodo lavorativo, e quando le scuole stanno per chiudere».
C'è qualcosa che si porta sempre appresso?
«Nulla di scaramantico. Per il lavoro, non faccio mai a meno delle cartine del Touring Club».
Come si sta evolvendo il ciclismo?
«Si va verso una maggiore valorizzazione dei grandi eventi, per avere un circuito di vertice con tutti i big e il massimo dell'attenzione da parte di media e pubblico. La Coppa del Mondo, ad esempio, è pensata proprio per questo».
Internet può aiutare il ciclismo (o un organizzatore)?
«Sì, velocizza la circolazione delle notizie, permette di seguire le gare anche a chi non ha il tempo di stare davanti alla tv, può avvicinare i giovani a questo sport».
A parte le biciclette, quali sono i suoi altri interessi?
«Un libro quando sono in giro, una passeggiata con mia moglie quando ho tempo; non ho altri hobby, non gioco a golf...».
Chi vincerà il Giro del 2003?
«Non sappiamo neanche chi ci sarà, come possiamo parlare di vincitori?».
Ma perché al Giro vengono così pochi stranieri?
«Un po' perché è preso in mezzo tra le classiche del Nord e il Tour. Ma è soprattutto una questione di mentalità. Il Tour è al di sopra delle parti, e va bene; per il resto, gli spagnoli puntano tutto sulla Vuelta, gli italiani sul Giro; poi c'è chi corre le classiche e non le corse a tappe, e chi va forte solo due mesi all'anno. Questa selezione a monte è la fine del ciclismo».
C'è mai un momento in cui le viene voglia di dire "basta"?
«No, mai! Credo ancora nel ciclismo. E se mi guardo intorno, vedo segnali positivi».

Marco Grassi


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