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Vuelta a España 2014

Non fosse per quel popolaresco nomignolo affibbiato alla elegante piazza di Jerez, parrebbe una Vuelta convertitasi del tutto alla protezione dei santi in Paradiso. A pochi metri dal pirotecnico laghetto punteggiato di fontane e colonne che scandiscono le quinte di questa partenza andalusa, dal suo alto piedistallo san Giovanni Battista de la Salle, patrono degli insegnanti, ammonisce con garbo ciascun partente per questo viaggio direzionato alla tomba dell'apostolo Giacomo (ovvero Santiago de Compostela). Ma, si sa, nel profondo sud europeo, dove, non senza azzardo, viene fatta partire questa Vuelta il 23 di agosto, mese più caldo dell'anno da queste parti, sacro e profano si scambiano facilmente i ruoli, uniti nel segno della passione, del caliente e volubile umore gitano. Il flamenco ne è un emblema. Il famoso vino di qui, che attende il suo tempo nel silenzio delle cupe cripte di romaniche cantine, un altro. Dalla Plaza del Mamelón – questo l'ammiccante toponimo - il percorso di questo prologo lungo ben 12.6 km si incunea fra le candide facciate del centro storico: stradine in pavé, poi lastricate, poi di nuovo pavé, che a queste riarse latitudini risulta perennemente patinato, quindi improvvisamente scivoloso in caso di rara pioggia. D'altra parte i risibili 6 mm medi di pioggia in tutto il mese di agosto, incoraggiano. Un altro simbolo moderno di questa città, emblema potente di libertà, l'enorme statua acefala del Minotauro, saluta dai suoi 23 metri di altezza l'uscita da questa trattenuta prima parte, che dalla omonima Plaza in poi si snoda su viali assai più ariosi e comodi per governare la bici da crono. 10 chilometri abbondanti dove far valere potenza ed aerodinamica, sufficienti forse a compensare un po' di ragionevole prudenza nelle viuzze del centro. O forse proprio un avvio spregiudicato là in mezzo potrebbe dare quel margine giusto per prevalere sui più macchinosi passisti. Fatto sta che dal Minotauro in poi, staccate e rilanci non ce ne sono. Solo un paio di aggiramenti di larghe rotonde per invertire la direzione negli ultimi 3 chilometri. Sotto lo sguardo bonario del monumento equestre al torero Domecq, le ultime energie serviranno per piallare un interminabile, crudele rettifilo di 2 chilometri. Lo scalatore, in queste geometriche ampiezze, sparisce.

Ogni partenza è un richiamo, una promessa, un ponte gettato. Sulla baia di Algeciras, arabesca distesa di tetti bianchi, il cui nome, esattamente come la celebre emittente araba, significa penisola, domina per l'appunto la rocciosa penisola di Gibilterra, di antichissima colonizzazione. La tappa circumnaviga la punta meridionale iberica, per approdare al capoluogo. Un Gpm di terza categoria in partenza dalle pendenze decisamente pacifiste, due sprint intermedi a scandire terzi di tappa. Rotta occidentale fino a Puerto de Santa Maria dove, miraggio di basse case bianche disteso sul mare, all'orizzonte compare la fenicia, lasciva, labirintica Cadice. Un' isola collegata da un ponte e da un lembo di terra artificiale alla terraferma, istmi che verranno entrambi percorsi nel finale di tappa. Da notare, il Levante, vento orientale abitualmente spazza, caldo-umido, queste terre. È dunque favorevole per quasi tutta la tappa, salvo proprio negli ultimi 10 chilometri, quando la direzione viene invertita, a lambire il capoluogo e a giungere nella prospiciente San Fernando, dopo questi due passaggi marittimi, con visibilità multichilometrica. Una agonia, per qualunque fuggitivo, là alle viste, al vento, bersaglio facile. 4 curve non difficili a ridosso dell'ultimo chilometro, sempre bianco abbacinante dagli edifici ai lati, uno strappetto dopo la seconda, una breve discesa dopo la quarta. Sprint dunque velocissimo, si può anche anticipare. In vista, un contemporaneo campanile in forma di minareto. In tema di dialogo ecumenico: vie diverse per scalare una medesima cima.

C'è un itinerario turistico chiamato Ruta de los Pueblos Blancos. Intonaco bianco usato per riflettere i raggi solari e mantenere una maggiore frescura negli oscuri locali. Spesso lunghe scale scavate nella roccia conducono a soggiorni situati alcuni metri in profondità, al fresco. La terza tappa approda ad una delle perle di questi abbacinanti borghi. Arroccata su una alta rupe, Arcos de la Frontera attende vistosa all'orizzonte il gruppo che scende dalle alture boscose dei sorprendenti, umidissimi Arconocales. Dalla riarsa macchia sabbiosa delle piane andaluse, si sale nel cuore di una zona montuosa fertilizzata da numerosi corsi d'acqua, rigogliosa, verde. Vi si perde, tra numerosi saliscendi, il tratto centrale di questa tappa, tormentato, insidioso. Svetta infine, il Puerto del Boyar 4.4 km per 370 metri di dislivello, la cima a 54 chilometri dal traguardo. Candidi blocchi di cemento tratteggiano fedeli il bordo strada. In discesa, quei quattro spigoli a filo d'asfalto, meglio non guardarli. Solo pericolosi. Ancora un'ora di corsa per arrivare ai piedi della rocca di Arcos. Strade buone, orizzonti sempre ampi, favorevoli al gruppo arrembante. Tre stretti ponti ai -3, sul Rio Guadalete, ormai all'ombra dell'alta rupe di Arcos, ad allungare il gruppo, ad innervosire, a costringere a prendere posizione avanzata. C'è un chilometro abbondante al 7-8% che porta nel cuore caldo del borgo, è quasi rettilineo, in cima due semicurve, l'ultima a sinistra, che nascondono lo striscione d'arrivo, che dunque arriva quasi improvviso. La pendenza non eccessiva sarà motivo di alta velocità e convenienza a rimanere a ruota il più possibile. Tempi dell'apertura del gas non facili da intuire.

Si ritorna nella metropoli. Cordoba è arrivo ormai quasi irrinunciabile per questa corsa, stavolta condito da due salite non delle più scontate, ad una media distanza dal traguardo. La tappa si snoda quasi per intero lungo la valle del Guadalquivir, tra Siviglia e Cordoba, all'orizzonte sono solo bassi arbusti, qualche filare di viti, olivi, campi coltivati. Non c'è una sola oasi d'ombra. Nel finale, due salite di media lunghezza, rispettivamente 350 e quasi 500 metri di dislivello, il già noto Alto de San Jerónimo e un altro Puerto denominato nel segno della sua pendenza massima, il Catorce por Ciento. Sono entrambi dislocati sulle alture settentrionali della città, sempre alle viste, due strade panoramiche. In quanto panoramiche, non riparate. Tutta strada violentemente assolata, rispetto alle rive del Guadalquivir ci sono dei pini marittimi, aghifoglie permeabili ai raggi. La prima salita è da prendere con le molle, ormai conosciuta, veniva proposta nei finali di tappa. Sono 5 chilometri di braccio di ferro su pendenze intorno al 10 per cento dal secondo in poi. Discesa più facile e lungo giro, sinceramente evitabile, dieci chilometri, per le strade più larghe della città a passare una prima volta sotto lo striscione d'arrivo. La seconda salita invece, a dispetto del nome, appare meno velenosa. Riserva sì due fendenti a sorpresa negli ultimi due chilometri, ma rimane a lungo delicata, sale per 5 chilometri ad una media del 4-5%. La sorpresa arriva nel percorrere una ampia curva a sinistra a 180 gradi, in corrispondenza di un ripetitore sulla destra della carreggiata. Da lì ci sono due chilometri pepati, e il prevedibile 14 per cento non è nemmeno la punta massima. Percorso accattivante, un attacco sulle rampe dure sarà corroborato da un lungo tratto in altura, più di 10 chilometri, senza pianura, fitto di strappi in doppia cifra e brevi discese. Traguardo allontanato dai 10 chilometri sui viali cittadini, arrivo che richiede coraggio in attacco, non proprio da uomini di classifica. Insomma la Sierra Morena, percorsa nella sua interezza, e scalata da due versanti indipendenti, non riserverà più misteri al corridore. Un califfo vi costruì una magnifica città per la concubina prediletta, con progetto magnificente, adagiata sul primo assolato pendio. Visibile da lontano come una gemma incastonata, la chiamò città dei fiori, Medina al Zahra. Cordoba era un luogo di delizie, rinfrescata da una rete d'irrigazione all'avanguardia, fitta di giardini e palazzi. Nulla a che vedere con l'arsa tappa in questione.

Come fosse autunno, inoltrato, la quinta tappa, incurante delle temperature medie del periodo, non teme di riportare il gruppo a sud, profondo sud, di nuovo sulla Ruta del los Pueblos Blancos. La frazione non è piatta, ci sono leggeri e continui dislivelli ad aggirare brulli massicci, su strade nazionali spietatamente larghe e lineari. A Cuevas del Becerro la strada, da falsopiano, passa ad una pendenza accreditabile come salita. Rocce calcaree, aridi arbusti punteggiano il lieve crinale. Effettivamente, il Sinai non pare lontano. Un vitello d'oro, così narra una leggenda, pare sia stato trovato tra le grotte che si aprono intorno. Da lì il singolare toponimo. Poco più su, 3 km al 6-7%, divalla il Puerto del Saltillo, 15 all'arrivo in leggerissima discesa, senza contare una sola curva degna di questo nome. Sembra proibitivo attaccare un gruppo lanciato a velocità elevate, su quei rettifili. Ronda è una delle perle del sopracitato itinerario, fiera custode di una intonsa tradizione di corride. Affascinò, calda e contorta nel suo dedalo di vie, sospesa nel tempo e nelle tradizioni, Hemingway e Orson Welles. Cinematograficamente perfetta, sorge a sua volta su una rupe, che espone il suo sbalzo tufaceo ad ovest, mentre verso nord-est scende con pendio più lieve. Qui abitava il precursore arabo di Leonardo e dei fratelli Wright, sugli orridi che ne sfiorano le vie concepì in anticipo di qualche secolo una macchina volante, da lui sperimentata involandosi da una torre di Cordoba. Dal versante più lieve, tuttavia, Ronda sarà aggredita dal gruppo, il quale, oltre una rotonda posizionata in prossimità del triangolo rosso, imposterà uno sprint in salita sensibile, sul 2-3%, senza altre insidie. Sangre y arena, insomma: infine, anche lo sprint è tauromachia.

A differenza di altre precedenti edizioni, la Vuelta 2014 entra nel vivo con gradualità. Rinuncia in parte ad una certa esplosività, a certi colori forti e stridenti, nel disegnare le tappe fin dalla partenza. Non propone colpi a sorpresa nei primissimi giorni, piuttosto ricomincia a far seguire difficoltà a difficoltà, come volendo ritornare ad un solco più antico. Fino a qui un arrivo di breve salita, per scattisti, ad Arcos, poi una tappa con salita impegnativa, ma non lunga nel finale, non vicina all'arrivo; al sesto giorno, un primo arrivo in salita duro e non lungo. Successivamente il primo arrivo in salita di importante impegno. Non è detto che i corridori da salita emergano subito, anzi la crono di 12 chilometri iniziale potrebbe tenere a galla altri protagonisti, del tutto diversi, fino a qui. La frazione passa dalle affollate località di mare alle Sierre dell'immediato interno, attraverso un valico, l'Alto de Zafarraya, che immette in un altopiano rigato da numerosi corsi d'acqua. Non è sufficiente tuttavia per rinverdire significativamente il territorio, in maniera tale da avere piante d'alto fusto ad ombreggiare la strada. Zafarraya è un vero e proprio accesso, una gigantesca finestra aperta all'orizzonte della Sierra, per tutti i 12, regolari chilometri di salita, appare alle viste. Niente di impossibile. Siamo al km 73 dei 157 della tappa. Oltre questo introduttivo valico la strada però non spiana, un paio di altri non impervi dislivelli, il percorso scende a scorrere sopra la diga dell'Embalse de Los Bermejales, con un breve tratto di pavé vecchio, leggermente accidentato. Lo scorrevole Alto de Bermejal, che da lì prende avvio, è invece pietosamente e sorprendentemente incorniciato da due file di alberi di vario genere, fino ad un chilometro dalla cima. Intorno, arida terra chiara ad aumentare il riverbero solare. La vicina e maestosa Sierra Nevada chiude il passaggio alle correnti umide, e rende ancora più secco il clima di questi altipiani. La cima è un solitario rettifilo, ad introdurre 45 km di leggera e costante discesa, fino alle porte di Granada. Tappa scaldata a metà e poi lasciata decantare in attesa del bruciante finale. La Zubia, sede nominale di tappa, è solo l'inizio di una singolare ascesa, tradizionalmente chiamata Cumbres Verdes, dal nome dell'insediamento sommitale. Cime verdi, la pendenza però rimane sul rosso vivo della città dell'Alhambra, lungo un assurdo, lunare rettilineo di 4 chilometri al 10% costante. Senza punti di riferimento, il pueblo in cima rimane nascosto oltre la dolce curvatura del dosso. L'asfalto è ruvido, senza segnaletica, ci saranno solo i cartelli chilometrici della corsa, a scandire la salita. Unica leggera spianata a circa 400 metri dall'arrivo, seguita immediatamente da una rampa al 12%. Con uno scatto, non si riesce minimamente a sparire. Un braccio di ferro.

Alcaudete sorge, tutta addossata al pendio della sua rocca medievale, nel mezzo di un ondulato, enorme tappeto a decorazioni geometriche. Sconfinate distese di filari d'ulivo ricoprono colli a perdita d'occhio. Alcuni di questi, sperduti nella grigioverde copertura, si ammantano di case dai tenui colori, tutte sfumature del bianco/ocra. Chiazze di colore in una atmosfera densa, inesorabilmente calda. Scenario per macchiaioli. Un territorio del genere prefigura, ciclisticamente parlando, il cosiddetto mangia e bevi. Ad oltranza. Ci sono, sì un paio di poco significativi Gpm, gli Altos de Íllora e Ahillo, quest'ultimo (10 irregolari chilometri, comprendenti un primo passaggio sotto lo striscione d'arrivo), svettante a 37 km dal traguardo. La reale cifra della tappa, tuttavia, consiste nella continuità delle ondulazioni, un mare mosso. Un vagabondare, infine, in uno scenario di tale quiete, da sembrare infine irreale, uguale a se stesso per innumerevoli chilometri. Gli spunti per un attacco, una sgasata, un'invenzione, si trovano ad ogni svolta, ad ogni cambio di versante delle mille colline tra le quali serpeggia il percorso. A differenza dei giorni precedenti, sembra più difficile gestire le forze di una squadra per tenere sotto controllo la corsa. Parrebbe giorno favorevole per una fuga ben assortita. L'arrivo sale, al 4-5%, negli ultimi 5 chilometri, attraversando il paese in costante, regolare, ascesa. C'è una curva a destra poco oltre l'ultimo chilometro, strada non larga, ma la velocità ridotta dalla tenue pendenza dovrebbe scongiurare ogni pericolo. È invece uno sprint di grandissima potenza, oppure un arrivo da anticipare con azione di forza, tutta e sempre salita pedalabile.

Al-Basìt. Questo era il nome arabo della città, "la pianura". C'è un mostruoso rettilineo lungo 27 chilometri, dall'ultimo borgo incontrato per strada, Balazote, fino ad Albacete. Non è pianura però. Leggera discesa, quasi 200 metri di dislivello negativo. Un richiamo potente alla velocità. Un risucchio verso il traguardo insomma. Una pista d'atterraggio. Si approda nell'altopiano centrale spagnolo, muovendosi verso nord-est, già in Castiglia. Potrebbe essere il terzo o il quarto sprint di una prima settimana di approccio moderato allo sforzo, ma di presumibile calura opprimente. Ben vengano le velocità importanti, ad abbreviare tappe ed esposizione solare, pressoché totale in queste riarse lande. Considerando le crono, l'elargizione iberica, sempre copiosa, di arrivi in salita, le due giornate di riposo ancora da fare, questa sulla carta è però con buona probabilità la penultima occasione per uno sprint a ranghi compatti, il sabato della prima settimana. Solo Logroño è un arrivo chiaro per specialisti della velocità, da qui in poi, La Coruña ha le sue controindicazioni. Si vanno allora a cercare punti di riferimento per i tempi dei treni, per il lancio dei capitani. Poco, si trova. Albacete, Al-Basìt, non tradisce, rimane piatta, e la Vuelta va a percorrere un mezzo periplo della città lungo una specie di tangenziale interna, fino all'ultima rotonda, ad un chilometro e mezzo dall'arrivo. La strada si restringe leggermente immettendosi in questo ulteriore sovradimensionato rettifilo, ma rimane pur sempre un solenne viale alberato di ampio respiro. C'è giusto il tempo per respirare un soffio di imperialismo perduto sfrecciando lungo la candida cancellata del sontuoso palazzo costruito ad inizio XX secolo per la lavorazione della farina. Tanto per capire quanta ce ne fosse, in questi sconfinati campi. Sono tappe dove le misurazioni sul valore assoluto degli sprinter si fanno raffinate.

Il fulmineo passaggio per la regale Castiglia prelude all'approdo in Aragona, comarca meridionale di Teruel. È ancora la via dell'integrazione culturale. Sapori d'Arabia non abbandonano ancora il tracciato di questa Vuelta. A Teruel, km 99, tra le viuzze del centro, ne esplode qua e là il profumo come sprigionato da ricettacoli di fiori odorosi. Giri l'angolo e, tra mura medievali e bifore romaniche, ti appare il portale di una moschea, in forma di cattedrale. Il flusso policromo del gruppo scivolerà accanto alle complesse decorazioni mudejar delle sue torri, splendenti di ceramiche come minareti, nel più emblematico stile – il mudejar appunto - di fusione dei due mondi, quello romanico e quello arabo, che si fronteggiavano potenti lungo tutto il Medioevo. Dopo questi introduttivi 100 chilometri, il percorso graduale, ri-educato, di questa Vuelta comincia a riservare difficoltà serie, in vista del primo arrivo in alta quota, su salita lunga. Più di 10 chilometri per salire alla stazione invernale di Aramón Valdelinares. Senza contare che la salita è in sostanziale continuità - 3 soli chilometri, pochi minuti, di relativa discesa in mezzo - con il Puerto de San Rafael, già altri 500 metri di dislivello introduttivi. Al risalire della strada, i primi 2 km non cambiano tonalità, ma al primo tornante a destra, il volto severo della salita compare. Inizia un tratto di salita di 7 km abbondanti ad una pendenza media del 7.5%, che tuttavia non rende giustizia dei frequenti cambi di pendenza in doppia cifra. Passaggi che si intensificano ai -3 km.dall'arrivo. L'ultimo, spiana. Salita irregolare, da conoscere nelle sue pieghe per essere sfruttata. Sapere dove si trovano le gocce di veleno può essere molto importante per gestire forze e attacchi, e un Garibaldi difficilmente chiarisce bene le cose. Salita dai molti volti nascosti che ammicca ai suoi più intimi conoscitori.

La corsa tace per un giorno. L'arabesco comincia a trascolorare nel romanico. E, nella decima tappa, nel cistercense. Da una spiritualità all'altra, entrambe profondissime, due lingue del mistero, arabo e spagnolo, lingue di terre calde, dense, corporee, per secoli in confronto e in dialogo su queste riarse terre. Il silenzio della corsa, dopo il giorno di riposo, continua nel silenzio claustrale della partenza della crono. Due chilometri in meno, 36, dello scorso anno, stessa zona, stesso monte, il Moncayo. Altre strade, tutt'altri orizzonti. Meno dislivello, ma stessa ripartizione: prima parte salita, poi tutta discesa leggera. Stavolta, non equamente però: c'è meno salita, 8 chilometri pedalabili, un respiro e uno strappo di un chilometro. Tutt'intorno, il deserto. Forse un antico incendio ha annerito ettari di territorio, ma in ogni caso anche qui un immenso silenzio, cocente, incombe. La strada della crono, del tutto secondaria, polverosa, sconnessa fino a Bulbente, km 29, dove il percorso ritorna alla civiltà sulla Nacional 122, direzione Borja. Fino a lì, un viaggio interiore, nella fatica, in un altro mondo, desertico, eremitico. Ci sono quasi 20 chilometri di discesa pedalabile, più da guidare però che da spingere. Il finale, gli ultimi 7 chilometri finalmente quasi piatti e senza altre difficoltà di guida, torna a sorridere agli specialisti. Ai quali tuttavia non pare riservata molta strada dove fare grandi differenze. La tappa è complessivamente meno dura della sua sorella maggiore dello scorso anno. L'arrivo sfiora soltanto il centro storico della medievale Borja, città-torre, in arabo, arroccata, difensiva. Alla periferia le vie sono meno strette, ci sono tuttavia quattro curve a gomito, da prendere con le molle in sella ad una bici da crono, che spezzeranno il ritmo ai cronoman togliendo velocità all'ultimo chilometro e favorendo di nuovo i non specialisti. Una crono camuffata, insomma, disagevole per i suoi migliori interpreti. Traditrice. Dalla rocca di questa cittadina aragonese, provengono i Borgia.

Anche nell'11esima tappa il percorso conduce ad un luogo di antichissima spiritualità, serenamente disteso su un altopiano erboso, affaccio panoramico su buona parte della Navarra. C'è un complesso di edifici di età carolingia, il Santuario di San Miguel in Excelsis, sulla Sierra de Aralar. Ma, tutt'intorno, resti di dolmen punteggiano i prati. Zona meta di pellegrinaggio da epoche ancora più remote. C'è una nuova via che vi conduce, uno scarno sentiero cementato, che può costituire una discreta via crucis per chi non incontrasse una giornata di buona gamba. Tra le irregolari e repentine rampe della diabolica strada di recente costruzione, non si contano i cambi di pendenza, alternati a brevissimi respiri. Ad altitudine diversa, per ruvidezza ed irregolarità, fa eco alla più celebre Bola del Mundo. Sono 10 chilometri per un dislivello medio, nemmeno 800 metri, costellati di cambi di pendenza; ci sono alcuni tornanti, ma pochi. Pochi anche i punti di riferimento, la strada risale un versante roccioso lievemente ombreggiato da faggi e bassi arbusti, si intravedono le antenne sommitali solo nell'ultimo chilometro, quando ormai i lastroni di cemento stanno per sfociare nella più gentile strada che sale da Lekunberri, a 500 metri dal Santuario. Poco altro, nella tappa: il Puerto de Lizarraga, affrontato dal versante più delicato, è un semplice aperitivo, poco adatto anche per anticipi, visto il non brevissimo fondovalle (quasi 15 km) seguente, impresa difficile difendere poche manciate di secondi raggranellabili in cima. Ancora una volta, dunque, la Vuelta preferisce concentrare le emozioni su un arrivo in salita secco e dal sapore esotico, alla ricerca del nuovo. Questa corsa d'altra parte ha da sempre un'anima progressista. Il tradizionale disegno dai sapori forti, mordi e fuggi, tappe non lunghe, da guerriglia, viene fino a qui, tappa 11, rispettato. Soltanto, qualche fuoco d'artificio in meno, complessivamente parlando, riguardo alle pendenze. Tutta un'altra cosa è la storia che raccontano i luoghi, isole di pace antichissima in una terra per secoli frontiera culturale ed etnica tra il nord e il sud del mondo antico. San Miguel de Aralar tramanda leggende di respiro trobadorico. Un reduce degli scontri con i mori pellegrinava da queste parti trascinandosi appresso catene, retaggio di una antica penitenza. Vi incontrò un drago e San Michele. Fu l'arcangelo a liberarlo da entrambi i pericoli nel luogo dove eresse il santuario. Ogni storia di pace è sempre storia di libertà.

L'unica tappa in circuito cittadino. Semi-cittadino, per la precisione: c'è da compiere una peregrinazione fatta di impercettibili pendenze nella periferia meridionale della città, per un giro senza sostanziali ostacoli, di 20.8 km da ripetere 8 volte. Logroño, il guado, in lingua celtica, in nome di questo luogo sulle fertili sponde dell'Ebro, una delle capitali del vino iberico, La Rioja. Un guado verso il nord, verso le tappe chiave di questa Vuelta, riportata, nel suo baricentro, sensibilmente in avanti, verso l'ultima settimana. Logroño è anche una tappa obbligata del Camino de Santiago, una delle più popolose città attraversate, tanto per fare respirare un'aria di svolta, un sentore della fine del viaggio. Nella tappa ci sono quasi solo larghe arterie di comunicazione, il passaggio da un paese, Alberite, lungo la via principale che l'attraversa, il ritorno verso Logroño lungo un rettifilo di quasi 5 km a quattro corsie di percorrenza. Poche curve a 90 gradi all'interno della moderna città. Ultimo chilometro ancora completamente diritto e di leggerissima pendenza a favore. Pressoché niente da studiare, nessun appiglio per lo stratega. Tappa granitica, quasi impossibile da scardinare. Non ci sono crepe, spiragli dove far leva per aprirsi un varco che dia una prospettiva di anticipo sul gruppo. Per giunta: occasione imperdibile, visto che l'unica altra tappa rimasta da qui a Santiago per le ruote veloci, in un finale di corsa per una volta riempito di frazioni decisive, potrebbe essere l'arrivo di La Coruña, assai più insidioso, accidentato, imprevedibile. Qui invece verrà dato sfogo alla velocità. Stress, lotta per le posizioni, rilanci ai 60 all'ora, ma questo, per un corridore di un grande giro, è pur sempre il programma di una delle poche tappe semplici. Quiete, prima della tempesta.

La corsa giunge infine al nord, ad uno sguardo dalla costiera atlantica, periferia di Santander. Insieme ai monti cantabrici, arrivano anche tipologie di strade più continentali, europee, quasi alpine. Il che significa una orografia più complessa, spariscono gli altipiani e gli orizzonti vasti, a favore di un intreccio di valli, catene e massicci assai tormentato. Le strade seguono valli e crinali ricurvi, rocciosi, stretti. Tante più curve, e meno spazio per costruire larghe carreggiate. Alle viste, poca strada, migliori opportunità di sorprendere, attaccare e sparire. Nella 13esima frazione, ad esempio, nel breve volgere di 50 km si inforcano tre valichi boscosi, tortuosi, sinuosi. Estacas de Trueba, Braguia, Caracol, senza soluzione di continuità. Niente fondovalle, discese tutte da guidare, salite selettive ma solo per brevi tratti. La tappa è ancora interlocutoria, ma tutta da scoprire, interpretare. Possibilità di attacco ci sono. È una introduzione al gran finale, dal selvaggio Alto del Caracol c'è ancora un tratto non del tutto pianeggiante, ma sostanzialmente poco favorevole per gli attaccanti, di circa 20 km, prima di un finale disegnato su un paio di improvvisi strappi intorno al 10% all'ingresso del bucolico Parque de Cabarceno, tra laghetti artificiali e verdissimi pascoli per animali esotici. Siamo alle pendici del solitario piccolo massiccio di Peña Cabarga, quest'anno quindi risparmiato ai corridori nella sua versione integrale, posta sull'altro versante del monte, in nome della già sottolineata maggiore gradualità del percorso. L'arrivo tuttavia non risparmia ansie a chi non sopporta le brevi rampe in doppia cifra. Ci sono un paio di chilometri, preso il largo bivio sulla destra per il Parco, intervallati da una breve discesa che porta sulle serenissime sponde di un placido laghetto. Oltre il quale occorre dare una botta ulteriore, non più di 300 metri però, per arrivare al traguardo posto in prossimità del vero e proprio parcheggio per i visitatori del parco. Il tratto peggiore è il primo, subito dopo il bivio intorno ai -2 km, intorno al 10%. Arrivo da scattisti, in una tappa complessivamente selettiva. A questo punto, comincia a fare tanta differenza l'interpretazione dello spartito. Spazio per recuperare terreno ce ne è già tanto nelle giornate successive. Spazio per sorprendere avversari che si sono già dimostrati più forti, forse no. Ai Laghi di Covadonga, o a Somiedo o sul Puerto da Ancares, parrebbe difficile invertire i rapporti di forza.

Si parte dal mare di Santander puntando decisamente a ovest e all'entroterra, attraversando la Cantabria per arrivare al traguardo castigliano di una di quelle rampe la cui tipologia identifica ormai da anni la Vuelta. 200 chilometri (lunghezza non usuale da queste parti), e un paio di salite che - incontrate strada facendo - risulteranno alla fine abbastanza sprecate. Passi per la Collada de la Hoz, che giunge dopo 70 km più o meno tranquilli (un paio di strappetti, ma niente di che), a punteggiare coi suoi 7 km al 6% un percorso che va increspandosi. Maggiore rammarico per il Puerto de San Glorio, che parte al km 109 e finisce al 130, 21 km di ascesa, anche in questo caso parliamo di cifre poco usuali per la corsa iberica. Una scalata così lunga poteva risultare forse intrigante se posta vicino all'arrivo. O forse no, visto che le pendenze del San Glorio non sono eccezionali, e anche se ci sono dei tratti all'8-9% la pendenza media non raggiunge il 6. Dalla vetta all'arrivo, 70 km, 65 dei quali pleonastici: la discesa del San Glorio è più dolce della salita, oltre che molto più breve (7 km), dopodiché si va di totale pianura (appena increspata dopo Riaño) fino ai piedi della salita finale. Una scalata inedita e tutta da scoprire: parte piano, le carte parlano di 8 km di ascesa ma i primi 3 sono al 3%; i 5 finali sono a loro volta spezzettati, primo al 4%, secondo all'8%, terzo addirittura in piano; con gli ultimi due siamo dalle parti del garagismo più bieco, le pendenze ballano dal 14 al 20% e saranno due lunghissimi chilometri da fare in apnea, pedalata dopo pedalata, probabilmente messi uno per cantone (come si suol dire), con la chimera di quella spianatina ai 300 metri che permetterà di ricominciare a mandare ossigeno al cervello, e al vincitore di riorganizzare le idee nella scelta dell'esultanza da esibire in cima.

La 19esima volta dei Lagos alla Vuelta, per una cadenza che ha preso ritmo biennale. Occorre spendere troppe parole per presentare una delle salite che hanno fatto la storia della gara a tappe iberica? Qui vinsero scalatori come Lejarreta e Millar, Herrera e Delgado (questi ultimi per due volte), Rincón e Tonkov, ma s'impose pure Laurent Jalabert, che non era propriamente un grimpeur e che in qualche modo esorcizzò la temibile scalata, tanto che da lì in avanti s'imposero quasi solo uomini in fuga. La chiave è questa: la brevità della frazione, unita a una certa facilità del percorso di avvicinamento, potrebbe ancora una volta mettere le ali ai piedi alle lepri partite nei primi chilometri. Il primo vero ostacolo per gli eventuali fuggitivi è il Puerto del Torno, e si tratta di 8 km di ascesa, di cui i primi due più complicati e gli altri più abbordabili. Nulla di più che un modo per scaldare i motori in vista dell'ascesa finale (35 km dal Gpm del Torno al traguardo). La picchiata verso Corao offre 10 km di puro spettacolo: discesa molto tecnica, con una moltitudine di curve e tornantini, con pendenze a tratti interessanti (si sfiora il 10%) e inoltre con un paio di contropendenze (2 km in cima, 1 km - bello tosto - quasi a valle) che renderanno il tutto più incerto. Solo una decina scarsa di chilometri in piano separano infatti la fine della discesa del Torno dall'inizio della salita ai Lagos. Di questa montagna sappiamo ormai tutto: nei primi 7 km non dà scampo, oscilla tra il 7 e il 12% di pendenza (con punte ovviamente anche maggiori), e separerà immediatamente il grano dal loglio. Gli ultimi 5 km presentano invece pendenze via via più dolci (e inframezzate da due discesine), almeno fino ai -200 metri, dove la rampa conclusiva sfiora il 18%. Un grande arrivo - quantunque probabilmente non determinante ai fini della generale - per chiudere in bellezza la seconda settimana di gara.

16a tappa: San Martín del Rey Aurelio - La Farrapona (Lagos de Somiedo)
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Lun, 08/09/2014
160.5 km
Partenza: 
San Martín del Rey Aurelio ore 12.45
Arrivo: 
La Farrapona (Lagos de Somiedo) ore 17.20-18
16a tappa: San Martín del Rey Aurelio - La Farrapona (Lagos de Somiedo)
Sprint intermedi: 
Pola de Lena km 75.5, San Martín de Teverga km 116.2
Gpm: 
Alto de la Colladona (850 m-1a cat.) km 17.6, Alto del Cordal (800 m-2a cat.) km 69.4, Alto de la Cobertoria (1185 m-1a cat.) km 86.2, Puerto de San Lorenzo (1347 m-1a cat.) km 127.1, La Farrapona (Arrivo-1705 m-1a cat.) km 160.5

Senza nemmeno un giorno di riposo nel mezzo, si passa dai Laghi di Covadonga a quelli di Somiedo, per una nuova tappa di montagna. Forse, in assoluto, LA tappa di montagna di questa Vuelta, con 5 belle salite concentrate in 160 km. La prima, l'Alto de la Colladona, è messa lì (inizia dopo appena 10 km) per lanciare subito qualche fuga importante, magari contenente quegli uomini che torneranno utili ai capitani da metà tappa in avanti. L'accoppiata Cordal-Cobertoria è lo spartiacque, intorno a metà frazione: 8 km tra il 5 e il 7% la prima, 10 km ben più duri la seconda (i 5 km centrali oscillano tutti tra il 10 e il 12%). Ma i 9 km di discesa verso Bárzana (non ripidissima, ma molto tecnica in avvio), uniti a un fondovalle troppo lungo (oltre 20 km) fino ai piedi del Puerto de San Lorenzo fungeranno da deterrente per attacchi da troppo lontano. Il San Lorenzo (Gpm ai -33), strada sistemata e aperta al ciclismo da pochi anni, è una brutta bestia: parte piano, per quasi metà della sua scalata lo si definirebbe una salita per nulla eccezionale; ma nei restanti 5.5 km non si scende mai sotto il 10% di pendenza, e in definitiva possiamo affermare senza tema di smentita che si tratti di una delle ascese più difficili della Vuelta. E il coefficiente di difficoltà è accentuato da una discesa complicatissima, 10 km di curve e di velocità (le pendenze sono simili a quelle incontrate sull'altro versante), per cui non è per nulla detto che in fondo alla picchiata siano per forza da prevedere ricompattamenti di sorta. E quindi, l'ultima salita di giornata. La convenzione la vuole lunga 16 km, in realtà per i primi 5 parliamo di un falsopiano, quindi una rampetta più tosta, e una discesina, e un'altra spianata... fatica a decollare, insomma, questa ascesa verso La Farrapona. Gli ultimi 5 km però meritano assai: la pendenza media passa dal 9 all'11% nel giro di poche pedalate, e a questo punto della corsa dovrebbe essere in atto un testa a testa tra i migliori. Con tanto di consapevolezza (mancata il giorno prima) di poter dare tutto e anche di più, visto che l'indomani c'è il giorno di riposo.

Ripartenza soft dopo il secondo giorno di riposo e prima del rush finale. Dall'incantevole baia di Ortigueira, paesino di 6mila anime, non può che prendere le mosse una frazione in tutto e per tutto marina. Si percorre il litorale per buona parte della tappa, assecondando seni e coseni di una costa molto irregolare e sicuramente scenografica. Le difficoltà di un simile tracciato sono tutte nel possibile vento e nelle tante curve, visto che gli strappetti, pur presenti, non sono di natura tale da provocare dissesti in un gruppo tranquillamente lanciato all'inseguimento della fuga del mattino. Solo dopo il primo passaggio da La Coruña (o A Coruña, in ossequio alla recente tendenza spagnola alla regionalizzazione dei nomi dei luoghi), tramite un giretto nel primo entroterra, si incrocia qualche salitella un po' più allegra, a movimentare (forse) gli ultimi 65 km della frazione. Non tanto nel senso che qualcuno possa partire dal gruppo e fare la differenza, quanto per la possibilità che i fuggitivi possano difendere meglio il margine guadagnato in precedenza. Gli strappetti degni di nota: 2 km a Feans (ai -60), 3.5 km a Veiga (ai -40), 1 km alle porte di A Laracha (ai -30), 2.5 km girando intorno a Pastoriza (ai -15), infine un altro chilometrino arcigno (al 6%) entrando a La Coruña, a 8 km dal traguardo. Non sarà per nulla facile organizzare inseguimenti a tutta né tantomeno treni (oltre ai dentelli citati, ce ne sono altri meno accentuati, ma ci sono), comunque un gruppo anche frazionato dai continui cambi di ritmo potrebbe presentarsi abbastanza corposo (60 uomini? 80?) all'appuntamento col volatone. Una volta riguadagnato il lungomare non restano che 4 km piatti sui quali bisognerà fare attenzione a quelle 4-5 rotonde disseminate su un tracciato che non presenta vere curve, ma solo una lieve e continua torsione verso sinistra, per seguire il ritmo dell'Insenatura di Orzán in cui si trova la spiaggia di San Vicente de Elviña davanti a cui si conclude la tappa.

Profumo di mare, anzi d'oceano, per una tappa con arrivo in quota: la Galizia è anche questo. I primi facili 40 km dopo la partenza di A Estrada puntano (con qualche divagazione) verso ovest, verso la costa atlantica. Un lungo circumnavigare peninsulare, 80 km che possiamo definire piatti (anche se non mancano due o tre dentelli. Poca roba), per giungere a Pontevedra, nella cui zona (dopo un rapido passaggio in città) si imbocca il circuito che, ripetuto una volta e mezza in senso antiorario, culmina sul Monte Castrove. La salita viene imboccata per la prima volta a 30 km dal traguardo. Non è lunga, appena 5 km, ma sufficientemente insidiosa da promettere che sulle sue rampe si accenda la battaglia. La pendenza oscilla tra il 7% abbondante dei primi tre chilometri e il 9% degli ultimi due, e la differenza andrà fatta lì, visto che la successiva discesa non offre spunti, coi suoi dolci rettilinei. Semmai, si potrà dire che con una simile "picchiata" dopo il primo Gpm, e altri 7 km in piano prima del secondo approccio al Castrove, le polveri degli attaccanti da lontano finiranno col risultare bagnate. Tutto rinviato, allora, per la vittoria di tappa, agli ultimi 5000 metri di scalata. Tutti li avranno visti e studiati nel passaggio precedente, e si potrà attaccare con più cognizione di causa del solito.

Nasce sul confine con il Portogallo la terz'ultima tappa, e costeggia lungo 70 km completamente piatti il fiume Miño, fino alla sua foce e quindi - nuovamente - all'Atlantico. Da qui, comunque, non si percorre direttamente il litorale, ma si passa dall'interno e dalla salita di Alto do Monte da Groba: 11 km di scalata, ma solo nei primi 4 si trovano pendenze interessanti, dopodiché tutto diventa un falsopiano; l'altro versante segue un andamento simile, dolce più in alto, tosto alle basse quote: gli ultimi 4 km di discesa sono complicati, tre toboga si susseguono fino al livello del mare, a Bayona. Da qui mancano 80 km; i primi 60 sono tutti sul litorale, passando anche da Vigo, e sono certo irregolari e pieni di curve e semicurve, ma sostanzialmente piatti. Esposti al vento dell'oceano, magari, e chissà che le correnti, dovessero effettivamente manifestarsi, non portino un gruppo già selezionato ad affrontare la seconda asperità di giornata, il Monte Faro. Salita da prendere con le molle, 5 km che partono forte (nel primo chilometro), spianano nella fase centrale e diventano infidi negli ultimi 2000 metri, costantemente tra il 10 e il 12-13% di pendenza. Proprio quella che si chiama "una rampa", pronta a lanciare chi avesse la voglia di provarci, con la consapevolezza di una discesa tutta da pedalare dopo il Gpm (8 km fino a Moaña), con alcune curve da affrontare però con la massima attenzione; e ben sapendo che, una volta riguadagnata la costa, rimarrebbero ancora 7 km in piano, fino al traguardo al porto di Cangas do Morrazo. Non un'impresa di poco conto, qualora a qualcuno riuscisse.

La frazione decisiva. O di quei tapponi in stile Vuelta, che poco hanno a che vedere con quelli degli altri due GT: non si raggiungono quasi mai i 2000 metri di altitudine, le salite sono più brevi e il chilometraggio complessivo è contenuto entro i 200 chilometri. Si farà quel che si potrà, e questa è una massima che vale sempre e vale ancor di più considerando la natura delle ultime due salite della tappa. La prima metà della frazione è abbastanza interlocutoria: una salitella a Lornís dopo 30 km (lunga 10 km ma pedalabile), un altro strappetto a Barrio da Esperanza appena prima del primo sprint intermedio. Ma è dopo il rifornimento che iniziano i 90 km determinanti. In rapida sequenza subito tre scalate di seconda fascia, Alto de Vilaesteva, Alto de O Lago, Alto de Restelo: siano o meno Gpm (il terzo "Alto" non lo è), abbiano o meno tratti insidiosi (e ce li hanno), è impensabile che qualcuno si faccia venire voglia di partire all'assalto in questa fase: i 15 km dalla vetta del Restelo ai piedi della penultima scalata di giornata sono tutti a favore di chi insegue, tra discesa (anche ripida ma larga, permette di guidare bene le traiettorie) e fondovalle. Dopodiché, in località Fontela, a 32 km dal traguardo, la strada si impenna: sono le prime rampe dell'Alto de Folgueiras de Aigas, subito un muro al 10% a spaventare chi lo approccia; ma finisce subito, le pendenze si regolarizzano oscillando tra il 7 e l'8%, per 6 km che rappresentano il punto chiave della tappa: è qui che potrebbe essere più fruttuoso attaccare, perché poi in cima spiana (2 km facili) prima di un ulteriore muretto di 500 metri fino al Gpm. Attaccare sul penultimo colle per poi tenere sui 3 km in piano dopo il Gpm, e sui 4 di discesa (l'ultimo ha pendenze superiori al 10%) prima di sparare tutto sull'Ancares? Perché no? In fondo la salita conclusiva ha sì tratti asfissianti, ma anche qualche spianata su cui riprendere fiato prima di rilanciare. Pur senza ipotizzare assalti dal Folgueiras de Aigas, bisogna riconoscere che (nel ciclismo d'oggi) ci vuole coraggio anche a partire ai piedi del Puerto de Ancares. 13 km di salita, i primi 2 subito tosti (all'8.5%), poi una delle citate spianate precede il tratto più duro, praticamente 6 km in doppia cifra (tra il 10 e il 13%), divisi in due da un nuovo pezzetto (al 6%) in cui provare a respirare. Al nono chilometro, la strada si fa più dolce, assume l'aria di un falsopiano via via più leggero, 3 km per rimescolare tutte le carte prima della rampa decisiva: il chilometro e mezzo finale inizia con una pendenza del 12%, finisce all'8, e non dà scampo. Guai a sbagliare i tempi dell'attacco, si rischia di esporsi al contropiede di uno scattista. Il Contador balbettante (anche se alla fine vincente) formato 2012 se lo ricorda bene questo arrivo che non arrivava mai; Purito Rodríguez ringraziò.

Un finale che ancora mescola sacro e profano, che inviterà più d'uno (ciclista, addetto ai lavori, tifoso) a invocare qualche miracolo, perché si sa che l'ultima tappa di un grande giro - laddove non si disputi per meri fini statistici e festosi - ha sempre qualche posizione da assestare, qualche ribaltone da consumare, qualche obiettivo da veder perseguire. E anche se è breve breve, questa cronometro che ripercorre la parte finale del Camino de Santiago, qualcosa riserverà per forza. Il percorso è tutto piatto, ma nel suo svilupparsi tra la Biblioteca de Galicia e l'arrivo posto proprio davanti alla Cattedrale di San Giacomo (Santiago, appunto), è quantomai irregolare, a livello planimetrico. Non si raggiungono i 10 km di lunghezza, ma le curve sono tante, specie nella prima metà della prova: un continuo dover rilanciare l'andatura che qualcuno inevitabilmente soffrirà. Più che mai esaltato, quindi, l'assioma che vuole la crono finale di un grande giro più adatta a chi ha conservato maggiore freschezza: malgrado lo sforzo minimo (in termini di durata: poco più di dieci minuti, poco meno di un quarto d'ora), non si potrà bluffare. I maggiori specialisti potranno scatenarsi nella parte centrale, su strade più larghe, gli altri dovranno difendere lì quanto eventualmente costruito nel primo terzo di gara. Al traguardo, lo stesso della Vuelta 1993 (l'ultima, prima di questa, a non concludersi a Madrid), il tempo per rifiatare sarà poco: la cerimonia di premiazione incombe, e poi tutti a casa.

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