Innovare nella tradizione - Intervista a Marco Toni, candidato alla presidenza della FCI
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Ultimo in ordine di tempo a rendere pubblica la sua candidatura alla presidenza della Federciclismo, Marco Toni, 44enne sindaco di San Giuliano Milanese, rappresenta, rispetto ai suoi concorrenti, una maggiore continuità con la gestione Ceruti, pur con prospettive di azione diverse da quelle che sono state proprie del presidente uscente.
Per quale motivo ha deciso di candidarsi?
«Il mio percorso inizia da lontano. Sono tesserato dal 1973, prima come atleta, poi come consigliere del comitato regionale e responsabile del settore giovanile lombardo, quindi come presidente del comitato provinciale di Milano. Per 4 anni sono stato presidente della struttura tecnica della Federazione. Quando Ceruti mi ha confessato che non si sarebbe ricandidato, mi ha chiesto di essere presente alle elezioni in prima persona, e io ho accettato».
Come si sta svolgendo la sua campagna elettorale?
«Abbiamo creato un gruppo di lavoro molto ampio, abbiamo sentito i consigli regionali, ed ora abbiamo definito il programma, che abbiamo appena spedito alla segreteria generale della Federazione. Ho girato tanto, sentito umori, cercato il contatto diretto coi tesserati, che sono la base del nostro impegno».
Proprio questi ultimi hanno espresso palesi malesseri nel corso della gestione Ceruti.
«Infatti la cosa più importante che dobbiamo perseguire è la fidelizzazione dei tesserati, che ultimamente si sentivano un po' troppo trascurati. La Federazione deve avere uno spirito unitario e deve essere funzionale ai suoi iscritti, deve essere un'agenzia di supporto alle società e non un ente burocratico».
Lei viene dalla pubblica amministrazione: questo può essere un freno o una carta a suo favore?
«A dire il vero io conto molto su questo fattore. La mia esperienza nei rapporti con i vari enti locali e con le amministrazioni potrà essermi molto d'aiuto, così come le conoscenze che inevitabilmente ho fatto in campo politico in questi anni, per esempio nell'Anci, l'associazione dei sindaci italiani, nell'ambito della quale faccio parte del club "Amici della Bicicletta"».
Quali sono le linee di continuità e quelle di discontinuità con Ceruti?
«Certamente condivido alcuni aspetti di carattere etico-morale del suo lavoro. Ceruti è stato parte attiva nella realizzazione della legge dello stato sul doping; ed ha avuto un ruolo anche nel definire l'articolo 9 del nuovo codice stradale, quello che finalmente riconosce e regola lo status di corsa ciclistica su strada. D'altro canto, la mia impostazione sarà diversa relativamente alla comunicazione. Non è un mistero che la Federazione sia malvista dappertutto, ciò significa che c'è un rapporto con l'esterno da recuperare, e che c'è una nuova immagine da veicolare. Uno dei nostri slogan è "Innovare nella tradizione", vogliamo cioé partire dalla grande ricchezza del ciclismo, la tradizione appunto, per trovare nuove strade, nuovi tesserati, nuovi programmi. Per esempio lanceremo delle campagne nelle scuole, mandando a parlare coi bambini dei pedagoghi, adatti al dialogo con gli scolari certo più che i presidenti delle società; e sceglieremo dei testimonial importanti per avvicinare sempre più persone al nostro sport».
Ci sta praticamente elencando il suo programma.
«Le idee ci sono. Un altro progetto è quello di vivacizzare (collaborando con gli enti e gli organizzatori) tutto quello che può orbitare intorno alle corse. Mi spiego meglio: vorremmo organizzare degli eventi a margine delle gare, per esempio dei minisprint per bambini in attesa del passaggio della carovana (un po' come funzionano, in alcuni stadi di calcio, le partite tra ragazzi prima del match ufficiale); vogliamo valorizzare il raduno di partenza, la punzonatura, tutti gli aspetti che un tempo avevano una loro centralità rituale nel ciclismo e che oggi si sono persi. Anche le società ne sentono il bisogno e vorrebbero essere coinvolte in iniziative di questo genere: chi cresce i Bettini, o i Cunego, poi non ha più un feedback una volta che questi ragazzi crescono e diventano professionisti».
Ceruti ha investito molto della sua immagine nella lotta al doping, con esiti peraltro discontinui. Lei come si pone in quest'ambito?
«Continuerò il discorso sulla tutela della salute, con un'accezione però più ampia: non solo per quanto riguarda il doping, ma anche per ciò che concerne altri aspetti: i ciclisti vanno protetti anche da infortuni e da incidenti in allenamento. Per esempio miglioreremo la natura delle polizze assicurative, oggi molto care e poco garantiste, e le metteremo a disposizione anche degli allievi. E poi interverrò con decisione sul traffico, attraverso accordi con le amministrazioni locali: in un momento in cui non ci sono fondi da investire per piste ciclabili o strutture simili, faremo di necessità virtù e lanceremo dei progetti pilota, che prevedano l'individuazione di circuiti di 10/12 chilometri intorno ai centri abitati, da chiudere al traffico in alcune ore della giornata (dalle 2 alle 5 del pomeriggio, per esempio), o da riservare a un solo senso di marcia, o quanto meno da calmierare relativamente al passaggio delle auto. Naturalmente il discorso riguarda strade secondarie e non arterie principali. Gli enti locali sono anche interessati all'aspetto ecologico di questa iniziativa: il ciclismo si sposa bene con politiche ambientali di riduzione delle polveri sottili».
Il discorso sul doping resta così sullo sfondo.
«No, si tratta di un problema molto sentito, ma bisogna essere realisti: la FCI ha un certo bilancio, e non può dilapidarlo nei controlli antidoping. In soldoni, su 10 milioni di euro di bilancio, oggi il 5% (500.000 euro) vengono investiti in questo settore. Ma io dico: c'è una legge dello stato che prevede un certo tipo di controlli? E allora perché non dev'essere lo stato stesso a mettere a disposizione i fondi per effettuare tali controlli? Quando si fa una legge poi bisogna impegnarsi per finanziarne l'attuazione, cosa che invece non accade. E badi che parlo di tutto lo sport e non del solo ciclismo, perché poi c'è chi si impegna a fare i controlli, come la FCI, e chi invece non li attua per niente, e così il ciclismo sembra sempre lo sport dei dopati. Se si pensa che l'ultima finanziaria del governo prevede uno stanziamento di 220 milioni di euro per rilanciare il calcio femminile, la disparità appare in tutta la sua enormità: basterebbero anche 2 milioni per organizzare dei controlli seri e trasversali».
Ma lei crede che il doping possa essere combattuto con efficacia?
«Io vedo in giro una nuova cultura, tecnici giovani che rifuggono certe pratiche. C'è più consapevolezza dei rischi per la salute, c'è un maggiore senso etico, e possiamo essere ottimisti, anche se non va fermata l'attività formativa e informativa tra i giovani».
Un'altra accusa che si muove a Ceruti è di aver affossato la pista.
«La spaccatura che c'era in seno alla Federazione non ha favorito la partenza di progetti adeguati. Diciamo che il settore femminile sta dando dei risultati confortanti in prospettiva, ma è anche vero che è sconfortante vedere che i nostri non ci sono più, ai Mondiali o alle Olimpiadi. Bisogna ricreare un progetto olimpico, portare avanti un gruppo di atleti, e non nascondersi dietro il falso problema degli impianti: il Vigorelli è inagibile dal 1985, ma noi a metà anni '90 avevamo atleti che primeggiavano nel mondo, quindi la crisi tecnica è molto posteriore a quella infrastrutturale. Se si guardano le statistiche, si nota come ci sia un fuggi fuggi generale dalla pista dopo il secondo anno degli allievi, ciò significa che questa disciplina ha poco appeal, e anche le società hanno disinvestito. Metteremo a disposizione un budget per rilanciare la pista; in Italia ci sono tuttora 40 centri dove si pratica, e c'è un vivaio, ma va ricostruito il rapporto con queste realtà».
Crede che il meridione sia un problema da affrontare?
«È indubbio che un movimento si deprime se si vede portar via i giovani migliori a 17/18 anni. Invece questi ragazzi vanno tenuti lì, nelle loro zone, nel loro ambiente, e supportati con tecnici e di qualità e risorse. Per quanto possa sembrare strano, nei miei giri per la campagna elettorale ho trovato al sud dirigenti più giovani della media, e molto motivati. A loro serve un aiuto, che può anche essere rappresentato dalla creazione di un pool di società che possano realizzare squadre miste (per abbattere i costi) da inviare alle varie corse».
Ma in generale, oggi, il ciclismo di cosa ha più bisogno?
«Di un'immagine più fresca, attualizzata alle esigenze moderne. Il ciclismo è uno sport di grandi tradizioni, ora tutti stiamo sperando che prenda quota una rivalità Cunego-Basso, che sarebbe una fonte di interesse per l'intera attività. Ma bisogna esplorare nuovi orizzonti: perché un ragazzo può trovare in qualsiasi negozio la maglia di Totti o di Vieri ma non quella di Cunego? Bisogna stare al passo coi tempi, anche per un migliore e più proficuo rapporto con gli sponsor».
Per trovare nuove risorse economiche, quindi.
«Il 25% del bilancio federale è retto dagli stanziamenti del Coni, un 30/40% da tasse, affiliazioni e contributi delle gare, il resto viene dagli sponsor: è una fetta che va allargata, e sono speranzoso perché oggi vedo più fiducia e meno paura del doping da parte di chi vorrebbe investire nel ciclismo».
Lei segue il ciclismo più dal vivo o più in tv?
«Dal vivo, al seguito della squadra che sponsorizzo e di cui sono dirigente».
Moltissimi altri invece devono rivolgersi alla televisione, e la situazione non è brillantissima. Ne conviene?
«Assolutamente sì. Anche se si deve mediare tra i bisogni degli sponsor e quelli degli spettatori: per dire, molte aziende oggi preferiscono passare sul satellite, perché così possono raggiungere un pubblico importante anche fuori dall'Italia. Detto questo, se il problema della Rai (di cui non conosco ancora il rapporto con la Federazione) è un'esigenza di risparmio, potremmo produrre noi in quanto FCI le immagini delle corse e dare alla tv di stato la videocassetta da trasmettere. In generale, dico che dobbiamo pesare di più politicamente: torneremo nella Giunta Coni, da cui manchiamo da 12 o 13 anni, e cercheremo di curare meglio i rapporti con un certo potere politico che ha influenza nella gestione della Rai».
Lei parla solo della Rai, come se non ci fossero altre realtà che potrebbero dire la loro in questo campo.
«Dico della Rai perché raggiunge tutti. Le altre televisioni pubbliche: Mediaset la vedrei poco interessata, forse si potrebbe imbastire un discorso interessante con La7, che per esempio col rugby sta facendo molto bene. Quanto al digitale terrestre o al satellite, non vorrei comunque che il ciclismo diventasse fruibile solo da un'elite».
E internet?
«Rispetto ad altri sport, il ciclismo in internet è seguito di più e meglio. Non vedo perché non si possa pensare alla trasmissione delle gare via computer. Tra l'altro noi vogliamo dare un serio impulso a questo tipo di tecnologie in ambito federale: dare una scheda magnetica ai tesserati, permettere loro di scaricare documentazioni utili attraverso il nostro sito... Bisogna pensare che il ciclismo è uno sport seguito e praticato da tutti: non riesco a pensare a un bambino che tira di boxe, o a un ottuagenario che gioca a calcio, ma entrambi possono andare in bici. Quindi il ruolo anche sociale del ciclismo va rilanciato a tutti i livelli, come un elemento culturale diffuso. Penso anche alla possibilità di far diventare la nostra rivista ufficiale, Tuttociclismo, un giornale che possa essere fruito non soltanto da tecnici o appassionati: perché non ospitare sulle sue pagine le esperienze in bici di un Jovanotti, o i ricordi da inviato di un Enzo Biagi?».
Torniamo al ciclismo pedalato: il Pro Tour darà maggiore visibilità al movimento?
«Per il momento mi astengo dal giudicare, riservandomi di parlare già nella seconda metà di quest'anno. Però intravedo qualche elemento di preoccupazione: chi è fuori dal Pro Tour ha vissuto un depauperamento e un netto calo di risorse, perdendo anche delle sponsorizzazioni importanti».
Etna e Pantalica hanno chiuso per questi motivi, o per loro problemi congeniti?
«Mi spiace molto per la sorte di queste corse, che avevano sempre riscontrato un grande successo di pubblico. Va recuperato il rapporto umano con gli enti locali, i quali sarebbero anche disposti a erogare fondi per questi appuntamenti, a patto però di avere un minimo ritorno: quando queste gare erano organizzate da Mealli, la carovana arrivava un giorno prima e c'era un clima da evento che oggi, in nome della riduzione dei costi, si è un po' perso. Così il politico locale ha meno visibilità e meno interesse a investire. Bisogna essere realisti e capire che le cose vanno così: va bene ridurre i costi, ma occorre considerare anche gli altri aspetti».
Capitolo nazionale.
«Tra i giovani abbiamo tecnici preparatissimi, laureati e competenti. Provvederemo in ogni caso a dotarli di una struttura di coordinamento che li possa supportare. Quanto ai pro', su Ballerini è stato fatto un investimento forte, è la figura giusta in quel ruolo, ha anche l'appeal del testimonial, malgrado le critiche che gli sono piovute addosso».
Si dice che un "blocco Mapei" sia ancora esistente e in grado di influenzare e indirizzare le scelte del ct.
«Lo escludo, conosco Ballerini come un uomo del tutto autonomo e in grado di respingere eventuali interferenze».
Nella sua "squadra di governo" ci sono atleti in attività come Marzio Bruseghin o Daniela Fusar Poli.
«I corridorio devono essere rappresentati da colleghi giovani, in attività al massimo negli ultimi 8 anni. Più in generale, puntiamo a svecchiare il consiglio: abbiamo candidato il solo Farulli tra i consiglieri attualmente in carica».
Quale sarà la prima cosa che farà, se dovesse essere eletto?
«Convocare il Consiglio Federale, secondo protocollo; e poi spingere tutti a viaggiare nella stessa direzione, compattando la Federazione. Ormai è antistorico che le delibere passino a maggioranza: a parte qualche caso particolare, come l'assegnazione dei campionati nazionali (laddove il consigliere veneto potrà votare contro l'assegnazione alla Toscana della manifestazione), bisogna remare tutti nella stessa direzione. Mi impegno a fare lo stesso qualora dovessi perdere».
In effetti Di Rocco pare filare come un treno.
«È una figura al centro dei giochi da tanti anni, è chiaro che l'esperienza paga. Ma io sono convinto delle mie possibilità, sento intorno un buon clima, la situazione mi pare addirittura più rosea rispetto alle aspettative. E non dimentico che 4 anni fa doveva vincere Moser, e poi invece venne confermato Ceruti: quindi i pronostici della vigilia lasciano il tempo che trovano».
Però, per esempio, anche l'Associazione Ciclisti Professionisti ha dato il suo appoggio a Di Rocco.
«Buon colpo per l'immagine, ma conta chi vota, ovvero i delegati, e l'ACCPI non sarà presente in sede di elezione. È come se gli stranieri volessero eleggere il nostro presidente del consiglio».
Ha un corridore del cuore?
«Mi piace tanto Bettini, per come interpreta le corse; ora è venuto fuori Cunego, anche se io ho sempre seguito, sin dalle giovanili, Basso, e quindi ho un occhio di simpatia per lui, e spero che possa regalarci grandi gioie al Tour».
Quale corsa le piacerebbe vincere, se andasse in bicicletta?
«La Parigi-Roubaix, la più bella delle Classiche del Nord, che hanno comunque tutte un fascino straordinario».
Anche se poi alcuni campioni moderni, vedi Lance Armstrong (che prima ha fatto loro la corte, e poi è tornato a concentrarsi sul Tour), tendono a snobbarle
«La Roubaix è una corsa per uomini veri: ricordo Moser vincerne una guadagnando 8' su tutti sotto la pioggia e malgrado un'infinità di forature».
Sta dicendo che Armstrong non è un uomo vero?
«Sto dicendo che non è un corridore completo come tende a far apparire: lui fa solo il Tour, e poi buonanotte. Non è questo ciò che intendo quando parlo di campioni».




