L'individuo e il Sistema - Discussione col professor Di Francesco
Vi proponiamo oggi l'intervista al professor Gabriele Di Francesco, docente di Sociologia dei gruppi presso l'Università "D'Annunzio" di Chieti-Pescara, con cui abbiamo cercato di capire come mai sia tanto difficile che nel ciclismo prenda quota un sindacato serio e deciso: cosa c'è alla base dell'incapacità dei ciclisti di maturare una coscienza di classe?
Procedendo su questo percorso, torneremo poi al tema centrale di quest'inchiesta, ovvero la radiazione o comunque il possibile inasprimento delle pene per i corridori dopati, prima di dare da domani la parola a qualche "addetto ai lavori".
La domanda al centro di ogni questione è: perché i ciclisti non riescono a darsi una compattezza per affrontare uniti le avversità? Perché non maturano una coscienza di classe per tutelare i loro interessi e far rispettare i loro diritti?
«Più che di coscienza di classe, che mi sembra un concetto improprio a tal riguardo, parlerei di capacità di aggregarsi, di far fronte comune per la tutela dei propri diritti. Per il resto mi pare che il ciclismo abbia regole abbastanza ferree in termini di dinamiche di gruppo agonistico: regole ben definite, e condivise da chi pratica questo sport, e che attengono ad esempio allo svolgimento di ruoli precisi nel gioco di squadra e all'esistenza di una gerarchia, che viene rispettata da tutti. C'è il campione e c'è il gregario. Forse esistono status e posizioni tanto differenti che non contribuiscono a far nascere spontanea una visione condivisa delle cose. È un fatto, del resto, che la prestazione è sempre individuale».
L'individualismo nel ciclismo è allora un destino scritto dalle stesse regole di questo sport? In fondo anche in altre discipline ci sono fuoriclasse e mediani.
«Ci sono anche altri fattori che intervengono. È molto importante rimarcare come lo sforzo sia principalmente individuale: prima si è ciclisti e solo successivamente ci si aggrega; uno sport di sofferenza come il ciclismo porta il singolo a isolarsi con la sua fatica e a credere solo nelle proprie capacità. Le logiche di squadra vengono dopo, e forse per questo prevedono una forte gerarchizzazione. Mi sembra che ci sia inoltre un fondamentale aspetto socio-economico: nel ciclismo non c'è un'identità occupazionale. Immagino non ci sia un contratto collettivo. Le differenze in ambito contrattuale marcano un'ulteriore fattore di individualismo: insomma, non conosco il ciclismo nel dettaglio, ma si può ipotizzare che in questo ambiente tutto concorra a che non si formi una coscienza collettiva».
Eppure in passato ci sono stati momenti in cui i corridori riuscivano a compattarsi e a protestare (e a vincere!). C'erano altri leader, migliori di quelli odierni?
«Il riferimento al concetto di leadership può essere centrale in questo contesto. Il campione non è sempre un leader legittimato da tutti, e se non c'è una leadership condivisa non si può nemmeno pensare che intorno ad essa si possa coagulare un movimento, un gruppo, cosa che invece può avvenire quando la leadership è indiscussa. In alcune epoche - come del resto mi sembra quella in cui viviamo - non emergono leader che siano riconosciuti da tutti, amici e "nemici": i Coppi, i Bartali, i Merckx, i Moser erano riconosciuti come leader anche dagli avversari; oggi succede? E se in periodi di "magra" un personaggio si può sempre "inventare", grazie al lavoro dei media e alla passione dei tifosi, al contrario un leader non potrà mai essere inventato».
E non si inventa nemmeno la solidarietà di classe: quando un ciclista viene pescato positivo è raro sentire voci che lo appoggino, ma se possibile gli si dà addosso, anche se magari si è nelle stesse sue condizioni.
«Evidentemente l'omertà fa premio su tutto. Sto parlando di sistemi generali di valori, non della fattispecie del ciclismo: nella nostra società pur di vincere, di accedere a un'élite, si è pronti a tutto, e ciò inevitabilmente si riflette in ogni contesto, compreso senz'altro quella del ciclismo. Quando c'è un gruppo dominante, un'aristocrazia molto forte e potente - questa sì legittimata - che ti può troncare la carriera, la solidarietà non si avrà mai».
La definizione di "aristocrazia molto forte" potrebbe - mutatis mutandis - essere riferita all'UCI, l'Unione Ciclistica Internazionale, che ha il potere di decidere le sorti di questo o quell'atleta...
«Non conosco l'UCI e non posso dirlo. Se però ci fosse un'organizzazione tanto potente da avere la forza di incidere a fondo arbitrariamente sul destino delle persone, l'unica soluzione sarebbe cambiare il sistema. Combatterla da soli però è impossibile: io atleta, magari con qualche pecca, se mi pongo contro il sistema ne verrò stritolato. Si è già detto di quanto nel ciclismo l'atleta sia effettivamente solo, e tale si percepisca: l'opposizione al sistema, in queste condizioni, è una possibilità da escludere».
Con una situazione tanto sclerotizzata, la soluzione potrebbe essere un leader che venga dall'esterno e provi a convogliare le istanze dei singoli corridori in una protesta organica ed efficace?
«Sì, è ipotizzabile una leadership rappresentata da una persona di riferimento in grado di scardinare determinate dinamiche, che abbia il potere (o perlomeno sia ritenuto capace di averlo) di fronteggiare il gruppo dominante di cui parlavamo prima. Ma più che venire necessariamente dall'esterno dell'ambiente (che in ogni caso dovrebbe conoscere bene), occorrerebbe una persona che fosse estranea alla logica del gladiatore: "salvo me e gli altri periscono"».
Crede che se un sistema tende a svilire, sminuire (quando non annientare) l'individuo, sia possibile una coscienza di classe? Quali dinamiche si attivano in queste condizioni (e soprattutto, come un sistema può tendere ad annientare un individuo, che è pur sempre parte fondante nel sistema stesso)?
«Rispondere in poche parole non è semplice. In termini di "sistema politico" occorrerebbe far riferimento a quadri teorici ed ideologici assai complessi, molti dei quali, ad esempio, hanno determinato e determinano la vita politica e sociale dell'ultimo secolo (hegelismo, marxismo e via elencando). In tali contesti la storia ha mostrato come l'annientamento dell'individuo sia stato talora prassi costante. Ma non credo che ci si intenda riferire a ciò.
In termini più strettamente organizzativi si può dire che in ogni gruppo, o organizzazione anche informale, tendenzialmente ci possono essere persone o gruppi di potere che tendono a dominare o agiscono per il conseguimento del dominio sugli altri individui per affermare i propri interessi e far valere i propri scopi. A tal fine cercano di condizionare o limitare molto gli altri con tutti i mezzi possibili, dall'uso della forza, alla propaganda, al condizionamento psicologico o economico. Senza troppo scomodare pensatori, filosofi o sociologi dei gruppi, si può affermare che la presa di coscienza di questa situazione da parte del singolo non porta automaticamente a far gruppo con gli altri che sono nelle stesse condizioni. Spesso anzi vi è un adeguamento, un'acquiescenza ai voleri della maggioranza o di chi detiene il potere. E questo talora anche senza mirare a conseguire chissà quali benefici, ma spesso soltanto perché è comodo, perché è meno faticoso o perché non si hanno altri valori, altre mete cui tendere, o non si è messi in condizione di vederli».
Una logica che soggiace anche alla mancata reazione dei corridori al moltiplicarsi di richieste per l'introduzione della radiazione sin dalla prima positività. Ritiene un sufficiente deterrente all'uso del doping l'inasprimento delle pene?
«Inasprimento per chi? Per chi consuma? Per chi somministra, per chi propaganda? Se un corridore è consapevole in pieno di quel che fa, l'inasprimento delle pene può avere un'utilità; ma se non è consapevole al 100%, diventa ancora più vittima del sistema stesso, che a quanto pare fatica a colpire medici e dirigenti sportivi».
Ci sono studi che comprovino che l'inasprimento delle pene sia una risposta adeguata al diffondersi di un determinato crimine?
«L'inasprimento delle pene non limita mai il diffondersi del crimine. Se così fosse, negli stati dove ad esempio c'è la pena di morte, dovrebbero diminuire i crimini sanzionati con detta pena. È noto che non è così. In determinati ambiti, inoltre, come ad esempio quello dell'addiction, cioè dell'assunzione delle sostanze d'abuso, più si inaspriscono le pene, più aumenta il consumo di sostanze stupefacenti, perché, nell'ottica dello sballo, più il prodotto è vietato, più mi libera da una situazione stressante di repressione e di vita standardizzata, più mi fa felice. Allo stesso modo, più un prodotto è proibito, più lo sportivo tenderà a considerarlo utile e buono, e più sarà tentato di usarlo. Ancora una volta, siamo alle prese con meccanismi della società che si riverberano in tutti i gruppi umani: nessuno di noi ama soffrire per niente, se alle undici di sera ci viene un mal di testa non andiamo a dormire, ma prendiamo una pasticca per poter uscire con gli amici».
Un problema, quello del doping, che è complesso e difficilmente potrà essere risolto con soluzioni facili.
«È certo una questione molto complessa, che si presta a numerose interpretazioni e offre molteplici chiavi di lettura. Se ne hanno esempi differenziati che peraltro sono sotto gli occhi di tutti, a cominciare dall'esperienza di tanti cicloamatori che quasi patologicamente non sopportano di avere prestazioni inferiori agli altri ciclisti della domenica e che quindi si dopano con le sostanze più disparate. Ma il doping sportivo è anche un grosso business per tante multinazionali del malaffare (o anche solo farmaceutiche), per le quali una positività clamorosa rappresenta la miglior pubblicità, perché porta la gente comune a pensare: "Se quella sostanza la usano i campioni, perché non posso farlo anch'io?". È facile concludere che in queste condizioni il mercato del doping non potrà far altro che espandersi, all'ombra di quel che accade nello sport professionistico».