Giù le mani dal DNA! - Perché Basso non deve piegarsi

Di che parlare in queste giornate interlocutorie di Vuelta? In attesa che tornino tappe e sfide tecnicamente rilevanti, pur con tutto il rispetto dovuto ai vincitori delle ultime due frazioni, Paulinho e Martínez de Esteban, e ai tanti fuggitivi che ne hanno parzialmente accompagnato il cammino, è necessario fare un punto della situazione relativamente al caso più orrendo dell'anno, l'Operación Puerto e tutti i suoi cascami.
Nella fattispecie, ciò che ci preme analizzare è la posizione di Ivan Basso, a oltre due mesi dal suo coinvolgimento nella vicenda, e a 4 dall'inizio delle voci sull'affaire doping che ha sconvolto il ciclismo mondiale.
Ogni giorno viene fuori qualcosa di nuovo, prese di posizione da parte delle istituzioni che lasciano allibiti. Il protagonista di quest'ultima fase è il presidente dell'Uci McQuaid, che continua a sciacallare sul cadavere del ciclismo, tra un po' inizierà a chiedere tribunali speciali, leggi marziali, esecuzioni pubbliche ed esposizione alla gogna degli infedeli.
Ora, McQuaid è in realtà un tranquillo e pacioso irlandese che un tempo amava la birra più del ciclismo, ed ora ha abbandonato la bionda fresca bevanda perché ha scoperto una sostanza che gli dà dipendenza e di cui non può più fare a meno: normalmente non farebbe male a una mosca, ma poi si sente obbligato ad assumere questa sostanza e non capisce più niente, inizia a straparlare, anzi il suo personalissimo Mr. Hyde prende il sopravvento e lo mette in minoranza coi suoi neuroni.
La terribile sostanza, a cui McQuaid risulterebbe iperpositivo se avesse la compiacenza di sottoporsi - lui - ad un controllo antidoping, si chiama EVO: sigla di EritroVerbruggina, e il lettore capirà benissimo i danni che comporta in chi dovrebbe autonomamente (hahaha) gestire il movimento ciclistico internazionale.
Fior di giallisti sono all'opera per capire dove andrà a parare la politica di Tafazzi McQuaid, che tipo di Pro Tour vorrà vendere ai prossimi gonzi che si accosteranno al malcapitato ciclismo. Francamente, al momento non ci si capisce un tubo.
Ora McQuaid arde dal desiderio di analizzare il dna di Ivan Basso. E con lui un tumulto di appassionati che - come popolani dell'antica Roma al cospetto di leoni e gladiatori - rumoreggiano sotto le finestre del potere perché vogliono che il Cesare di turno getti loro in pasto qualche brandello del re deposto. Appassionati maddeché?
Ancora una volta si calpesta come se nulla fosse lo stato di diritto. Non è più possibile sopportare che il ciclismo sia un'autoeletta zona franca in cui le più elementari garanzie civili vengono ignorate in nome di un giustizialismo schifoso. Il popolo bela, "se Basso non si sottopone al test del dna significa che è colpevole!", ma perché, signori cari, perché? Perché sempre e solo nel ciclismo dev'esserci questo sproposito tra accusa (tutta da provare) e presunto obbligo morale della difesa?
Se mi si accusa di aver rubato una mela, e io dimostro che chi mi accusa potrebbe aver visto qualcun altro scambiandolo per me, e per fare ciò mi basta esibire un alibi, o un'analisi della suddetta accusa, o qualsiasi altra prova a discarico, perché dovrei anche sottopormi a un test del dna per certificare che non sono mie le tracce organiche trovate su quella mela? Ma dov'è finita la privacy, dove il diritto del singolo a non subire più vessazioni di quelle richieste da un normale procedimento giuridico?
Perché il ciclismo perpetua questo suo senso di inferiorità per cui i suoi protagonisti devono provare 100 quando basterebbe 50? Il sistema ciclismo voluto dai McQuaid/Verbruggen e - diciamolo una volta per tutte - dal Cio e dalle altre federazioni sportive internazionali, prevede una certa ratio nei controlli e nell'antidoping. Allora, in base a questa ratio, Ivan Basso non ha bisogno di sottoporsi ad un invasivo test del dna per risultare scagionato dalle ridicole accuse che gli sono state mosse. Ridicole perché basate sulla sabbia.
E ricordiamo che il test dna - ripetiamolo: invasivo (quantomeno per la privacy) - viene richiesto per scoprire gli assassini. Ragazzi, ma lo sapete che, comunque sia, stiamo parlando di biciclette? Ma ci rendiamo conto di quali cose diamo ormai per scontate, come fossero normalissime? Il test dna per un ciclista! Stiamo impazzendo, o cosa? Dopo le urine, dopo il sangue, siamo ora al dna. Quale sarà il prossimo passo? La biopsia? Il prelievo osseo? La macchina della verità?
E quindi, per tornare alla suddetta ratio, se c'è un modus secondo cui un corridore è pulito in base a certe condizioni, perché ora McQuaid e gli altri invocano leggi speciali? Il comitato di salute pubblica è alle porte, quindi, basta saperlo.
Un'altra cosa, poi. Non ci risulta che le federazioni internazionali di calcio, tennis, boxe, e altre, si stiano dannando l'anima per sapere dagli inquirenti spagnoli i nomi dei loro atleti coinvolti nell'inchiesta. Qui non è più questione di essere più vogliosi di pulizia rispetto agli altri: McQuaid e soci ci stanno turlupinando, stanno giocando sporco, e lo stanno facendo, ancora una volta, sulla pelle dei ciclisti.
Fino a quando non verranno a galla i nomi degli altri atleti coinvolti, ci rifiuteremo di considerare questa inchiesta una cosa seria. È una burla, sic et simpliciter. E Ivan non deve, e sottolineiamo tre volte, NON DEVE, NON DEVE, NON DEVE dare il suo dna a questi sciacalli. Ne uscirà pulito, secondo le normali e consuete procedure previste dalle vigenti leggi. Non c'è nessuna norma che preveda che un corridore debba mettere a disposizione la sua mappa genetica. Ne uscirà pulito e non c'è nessuno che dovrà permettersi, alla luce dell'attuale stato di cose, di gettare altro fango sulla sua figura.
Giù le mani da Ivan Basso, giù le mani dal ciclismo.