Le nostre proposte - Doping, ne parliamo con Di Rocco
Sabato inizia la Vuelta a España. Ma è inutile nascondere che da quasi due mesi il ciclismo non rappresenta per noi appassionati quella ventata di gioia che spazzava via ogni cosa e ci regalava divertimento e passione. Oggi come oggi le torme delle cure onde meco il ciclismo si strugge schiacciano tutto il resto, quasi anche la voglia di seguire le gare, di apprezzare il gesto tecnico, di innamorarsi quotidianamente di questo meraviglioso sport. Restano rovine, macerie, distruzione, dovute più a una dissennata gestione da parte dei management che a effettive colpe dei corridori.
Come già detto in varie occasioni, il ciclismo mangia i suoi figli, li denuda, li espone alla vergogna pubblica, li cuoce a fuoco lento e li dà in pasto alla pazza folla, senza che mai un dirigente si prenda una che una responsabilità. Le squadre sono quasi intoccabili, e quando delle sanzioni vengono minacciate, ciò sembra più un regolamento di conti interno a una cosca mafiosa che un atto di vera, reale giustizia.
Un gruppo di direttori sportivi marci fino al midollo può decidere di infangare per sempre l'onorabilità di campioni come Ivan Basso, che potrà essere pure colpevole ma non dovrebbe mai e poi mai essere giudicato da quel consesso di corrotti che ha creato il Pro Tour e lo regge in nome del dio denaro e di nient'altro. Il dio denaro che spinge a distruggere un movimento nella malintesa volontà di salvarlo: si butta via il bambino con l'acqua sporca, si pensa di salvaguardare la credibilità di uno sport distruggendone umanamente i protagonisti.
Molti dirigenti del ciclismo sono la rovina di questo sport. Nelle alte sfere hanno proposto di tagliare i grandi giri, quelle menti obnubilate non hanno saputo proporre altro che questa castroneria tecnica. Forse non hanno mai visto una gara, non sanno che vuol dire ciclismo, scaldano poltrone e stop. McQuaid e Verbruggen, finché ci saranno questi personaggi a reggere le sorti del ciclismo, il ciclismo non avrà futuro.
Si ciancia di un rinnovato codice etico, ma ci stanno per l'ennesima volta prendendo in giro, altro che codice etico, qui bisogna rifondare alla radice il sistema ciclismo. Non è possibile che solo il nostro sport venga ogni volta spaccato dai casi di doping, mentre altri atleti se la spassano bellamente alla faccia di chi crede nella lotta alle sostanze illecite.
O si liberalizza il doping, e ce ne freghiamo di tutto, usciamo dal Cio (in fondo le Olimpiadi sono solo una volta ogni 4 anni, possiamo anche sopravvivere senza, come del resto fanno un sacco di sport in piena salute, dal rugby in giù; del resto il Cio stesso non è il massimo dell'affidabilità, oggi ci sei, domani chissà, magari sarai sostituito dal lancio dei tronchi: chiedere alle squadre di fioretto per informazioni).
Oppure bisogna cambiare obiettivi di questa lotta disperata. Partire dalla consapevolezza realistica che il doping non verrà mai battuto. Bisogna optare per la limitazione del danno, l'unica battaglia sensata, possibile, attuabile, che non sembri una lotta contro i mulini a vento, oppure una roulette russa in cui se ti capita il giro sbagliato, il proiettile esplode e ti fa saltare via.
Spostare il focus: basta criminalizzazione dei ciclisti, basta spettacolarizzazione dell'antidoping. Gli altri non lo fanno, perché noi sì? Dobbiamo essere a vita i più scemi dell'universo? Basta, basta.
Ecco le nostre proposte, allora. Umilmente le esponiamo perché vengano discusse da lettori e addetti ai lavori, in questa settimana in cui si va verso la Vuelta con la voglia di un gatto che va verso l'acqua.
Siccome si tratta di proposte in parte utopistiche, scordiamoci che vengano prese in esame. Ma magari si inizia a parlarne, e hai visto mai che un giorno...
La premessa obbligatoria è la totale riformulazione del Pro Tour. Un meccanismo infernale che fa pagare un prezzo altissimo (la devastazione del movimento "medio", di squadre a valenza nazionale, di corse con una storia prestigiosa alle spalle che vengono però penalizzate dalla contemporaneità con troppe gare UPT, e ci fermiamo qui) per avere delle starting list appena più decenti di qualche anno fa in gare come Giro d'Italia e Vuelta a España. Abbiamo visto che così non si va da nessuna parte. Sfoltire il calendario Pro Tour; inserire delle gare a rotazione; ridurre le squadre Pro Tour. Poi possiamo iniziare a ragionare.
Certificazione NO DOPING: le squadre, se vogliono, possono richiedere la certificazione NO DOPING ad un organismo esterno all'Uci e indipendente.
La certificazione (almeno all'inizio) non è obbligatoria.
Per avere la certificazione bisogna ovviamente rispettare dei parametri, che andiamo ad elencare.
- Un calcio in culo ai preparatori personali, che devono sparire dall'orizzonte delle squadre NO DOPING.
- Niente spazio a direttori sportivi, team manager, medici che siano risultati positivi da corridori, o che abbiano avuto almeno 3 positività tra i corridori delle squadre precedentemente gestite.
- Istituzione di una sede societaria dove ci si allena, si fanno i raduni, c'è tutto quello che riguarda la squadra.
- Bilancio controllato per valutare le spese mediche, che siano nella norma (e per verificare che gli stipendi vengano pagati per intero).
- I medici e i preparatori ufficiali delle squadre NO DOPING devono rendere pubbliche le tabelle di allenamento, segnalare le previsioni dei picchi dei singoli corridori, giustificare eventuali crolli o exploit.
- Tali dati vengono gestiti da una commissione comprendente i medici e i preparatori di tutte le squadre NO DOPING, alla presenza di commissari Uci che vigilano e che si aggregano alle singole squadre (a rotazione, per evitare casi di corruzione). In questo modo tutti sanno tutto di tutti, tutto è pubblico, e non sarà più possibile che un Landis estragga dal cilindro un'impresa sovrumana, perché se una cosa del genere avviene, la commissione ha gli strumenti necessari per intervenire. Ma in questo modo i medici, che ovviamente devono avere a cuore la salute dei corridori, potranno anche - di comune accordo e senza che l'Uci contesti - prescrivere dei farmaci che oggi sono a restrizione d'uso: visto che tutti sanno che "una certa quota di doping" è inevitabile nello sport moderno, facciamo in modo di istituzionalizzare questa cosa, senza scandalizzarci come verginelle.
- Suivi medical per tutti i corridori, a disposizione della commissione e dei medici delle altre squadre NO DOPING.
- Vietati gli stage di allenamento in paesi dove la legge antidoping non è armonizzata a quelle - severe - di Italia, Francia o Belgio.
- Invito obbligatorio di tutte le squadre NO DOPING a tutte le corse più importanti.
- Abolizione dei controlli antidoping per le squadre NO DOPING. Se una squadra accetta il protocollo NO DOPING, non ci sarà più motivo di test polizieschi sui corridori. Tali esami saranno sostituiti da analisi cicliche i cui risultati verranno trattati dalla commissione medica, che prenderà eventuali provvedimenti sanzionatori nei confronti del management e dei corridori: il tutto nella massima discrezione.
- Pressione sui governi per arrivare alla depenalizzazione del doping tra gli atleti. I magistrati in cerca di facile pubblicità sono purtroppo sempre in azione.
- Redazione di una tabella dei limiti di allenamento: la commissione dovrà stilare tale tabella, e nelle squadre NO DOPING non si potrà andare oltre. Il delegato Uci presso le squadre NO DOPING dovrà vigilare: il suo compito sarà facilitato dal fatto che i corridori saranno tutti in sede, dovranno scomparire gli allenamenti personali, si andrà avanti collegialmente.
In pratica, la commissione dà agli atleti una certa libertà, dà loro gli strumenti per esercitare la loro professione, li esenta dall'incubo dei test, pone tutti su una base paritaria.
La non immediata obbligatorietà dell'acquisizione della certificazione NO DOPING porrà le squadre di fronte ad una scelta: ma gli appassionati come seguiranno chi adotta il nuovo sistema, e come giudicheranno invece chi se ne tira fuori (e per i quali tutto resterà come oggi)? Gli sponsor - secondo logica - in quale direzione decideranno di andare?
Non siamo così scemi da non vedere che questo corpus di proposte ha delle falle anche grosse, ma il nostro intento è di gettare un sasso in uno stagno, di avviare una discussione che porti lontano, altrove, in una direzione del tutto nuova relativamente alla gestione della "cosa ciclismo". Ci siamo affidati, per costruire questa serie di proposte, sulla nostra esperienza, sulle conoscenze pregresse, su quanto i nostri lettori quotidianamente ci suggeriscono sul Forum di Cicloweb.
Chiediamo un confronto con le istituzioni, una verifica della fattibilità di questo programma, anche una stroncatura, ma l'importante è smuovere le acque. Qualcosa di buono, dal confronto, emerge sempre.
E in tema di confronto, abbiamo affrontato alcune di queste questioni col presidente della Federciclismo, Renato Di Rocco. Il quale ci fa sapere ad esempio che «già esiste, presso l'Uci, una banca dati fornitissima, secondo la quale un Ivan Basso è un esempio e un modello di continuità», ma peccato che queste cose siano note solo ad un pubblico di adepti.
Il caso di Basso è stato molto preso a cuore da Di Rocco, che ha cercato di aiutare il varesino «in quanto tesserato FCI, e non in quanto Ivan Basso». Un atteggiamento, di difesa del patrimonio corridore, che se la vecchia gestione avesse attuato nei confronti del povero Marco Pantani, avrebbe probabilmente salvato il Pirata: questo non lo virgolettiamo, ma il senso delle parole del presidente è chiarissimo.
«Il doping è causato da un sistema che non va, che dev'essere cambiato: per esempio ci sono troppi professionisti in attività», ecco un altro montante sferrato da Di Rocco, che affonda il colpo contro il Pro Tour: «Comunichiamo male, il discorso etico non può essere gestito dai gruppi sportivi, ma dalle federazioni. È assurdo che Basso e gli altri siano stati fatti fuori dal Tour da un consesso di direttori sportivi, senza prove certe, e soprattutto senza sanzioni dell'Uci».
Da qui anche la famosa lettera aperta che Di Rocco ha inviato al presidente dell'Uci McQuaid, in cui chiedeva di non infierire sul ciclismo, ma di abbandonare le ipocrisie (evviva!) e di prendere atto che il nostro sport non è diverso dagli altri, e non si vede perché si debba continuamente autoflagellare. «Ci vogliono anche le "palle" per prendere una posizione del genere, spero mi sia riconosciuto. Stiamo proficuamente comunicando con le federazioni nazionali più importanti, quella francese, quella spagnola, per trovare una maniera congiunta di superare questi problemi».
Ciò partendo da una base di «avanguardia della FCI nella lotta al doping, merito anche (questo glielo riconosco) dell'operato della gestione Ceruti, che ci ha lasciato in eredità un ricco database sui corridori, le loro caratteristiche, i loro risultati e il loro stato fisico e di salute. Abbiamo controlli molto avanzati anche tra i giovani, ed è importante se si pensa che è tra i dilettanti, con l'obiettivo di passare al professionismo, che molti iniziano a sbagliare. Anche se ci sono squadre (ad esempio la Zalf, o la Trevigiani, ma anche altre, e non voglio far loro un torto citandone solo alcune) sulla cui pulizia si può mettere la mano sul fuoco».
È anche un problema di tecnici, se è vero che «in molti salgono in ammiraglia subito dopo essere scesi dalla bicicletta, senza nessuna preparazione specifica, tecnica o psicologica che sia». E la Federciclismo si muove quindi in questa direzione, indirizza i suoi sforzi principalmente nelle categorie giovanili, si avvale di collaboratori sulla cui cristallinità Di Rocco scommette ciecamente («Non è vero che tutto è marcio, per esempio Martinello ha messo a disposizione tutti i suoi dati perché venga verificata e conclamata la sua estraneità al doping»).
Il campo d'opera della Federciclismo esula quindi un po' dal professionismo d'élite. Di Rocco dimostra maggior interesse per la base che per i vertici, e quindi non era forse a lui che dovevamo indirizzare certe riflessioni; ma ci piaceva comunque aprire questo benedetto confronto. Nell'attesa di nuovi riscontri. Per il bene del ciclismo e del nostro umore di innamorati cronici e troppe volte traditi.