2002: fuga dal ciclismo - La Mapei saluta: a chi dispiace?
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Un fulmine a ciel sereno. Un terremoto - come se il ciclismo non ne avesse già sopportati tanti - un terremoto che prefigura brutti scenari figli diretti dell'incapacità di questo mondo di fare a meno del doping. La tanto temuta e più volte profetizzata fuga degli sponsor dalle due ruote non è ancora una realtà, per fortuna: ma se a fare i bagagli e salutare le competizioni è la più importante delle squadre, viene comunque da pensare.
La Mapei se ne va, da formazione numero uno al mondo, e il suo abbandono non si presta ad equivoci: "Nel movimento si intravedono finalmente segnali di cambiamento, indispensabili per ridare allo sport della bicicletta quella credibilità che la sua popolarità e la sua storia meritano: ma si tratta di segnali ancora troppo deboli, di progressi troppo lenti, rispetto alla gravità della situazione, non più tale da giustificare un impegno come il nostro. Non nascondo il fatto che lasciamo questo sport con tante soddisfazioni, ma anche con l'amarezza di essere stati troppe volte incompresi e non di rado osteggiati per quanto abbiamo cercato di fare e per i nuovi modelli che abbiamo proposto, sia nell'organizzazione e nella gestione della squadra, sia riguardo la lotta al doping": queste parole, pronunciate da Giorgio Squinzi, patron della squadra, la dicono lunga su quale sia il motore degli eventi.
La Mapei, negli anni, si è fatta paladina della lotta al doping, stando sempre in prima linea quando si è trattato di accogliere qualsiasi tipo di provvedimento che andasse nel senso di uno sport più pulito. E noi non dubitiamo che l'impegno di Squinzi (un vero mecenate, in questo), fosse sincero. Ma i fatti del Giro di quest'anno hanno incrinato la fiducia del grande capo nei suoi uomini: Garzelli, uomo faro della Mapei, rispedito a casa per positività, è un colpo troppo duro da mandare giù. Anche perché in gruppo quello che certo non manca è la facile ironia: "Fate i santarellini e siete uguali agli altri", pare di sentirle, le battute acide fra colleghi.
La Mapei se ne va e lascia un vuoto difficilmente colmabile: il vuoto di chi si è arreso a qualcosa di troppo grande, troppo radicato. Se ne va e l'esempio che si può trarre da questa storia è dei peggiori: "Se hanno rinunciato loro, che per anni si sono battuti con enorme impiego di mezzi, allora non c'è proprio niente da fare". Cascano un po' le braccia, ma non ci possiamo fare niente; a parte sperare che l'esempio di Squinzi non venga seguito da altri, che non ci sia una vera e propria emorragia di investimenti (ma poi, onestamente: quale azienda sognerebbe di essere rappresentata da atleti poco puliti?).
I corridori, nei loro orgiastici abusi chimici, non si rendono conto proprio di questo fatto: già molti spettatori si sono allontanati dal ciclismo ("Sì, quello ha vinto, ma chissà cosa nasconde"); se ora iniziano a farlo anche gli sponsor, è facile prevedere un'implosione dell'intero movimento. Che qualcuno prenda finalmente coscienza di tutto ciò, prima che uomini sempre più bionici si contendano corse che non interessano a nessuno. Che tristezza sarebbe, il ciclismo senza tifosi.