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L'intervista: Luca, ammiraglio d'America - Guercilena: «Che responsabilità la Trek! Il 2015 sarà l'anno di Nizzolo» | Cicloweb

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L'intervista: Luca, ammiraglio d'America - Guercilena: «Che responsabilità la Trek! Il 2015 sarà l'anno di Nizzolo»

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Luca Guercilena, team manager del Trek Factory Team © dougreport.comA 41 anni è uno dei tecnici più brillanti e apprezzati del ciclismo internazionale. Da un paio di stagioni, però, Luca Guercilena è qualcosa in più, visto che è stato chiamato a gestire, in qualità di team manager, la Trek, ovvero una delle formazioni più importanti del mondo. Per lui, nato allenatore di ciclismo, fattosi le ossa nella Quick Step e poi "sbocciato" definitivamente nella Leopard, si è trattato di un grande salto, affrontato con la consueta determinazione e con la consapevolezza di essere di fronte a un bivio fondamentale in una carriera ancora "freschissima". Di questo e di molto altro abbiamo parlato direttamente col tecnico lodigiano.

Entriamo subito in argomento e partiamo da un bilancio della Trek 2014: avete raccolto secondo le aspettative?
«Si è trattato di una stagione a due facce. Nella prima parte, con la vittoria al Fiandre e diversi piazzamenti nelle classiche con Cancellara, la maglia azzurra e la vittoria di tappa al Giro con Arredondo, è stata discreta, considerando anche che abbiamo lavorato bene con diversi giovani. Dopo l'ottavo posto al Tour de France, però, c'è stato un crollo verticale, le performance in agosto e settembre sono state abbastanza deludenti, anche nel ranking World Tour siamo scesi dall'ottavo posto di luglio al 13esimo di fine stagione, cosa di cui non possiamo essere contenti e che ci farà trarre le dovute conseguenze. Dovendo dare un voto, oscilliamo tra il 6- e il 6+, ma consideriamo anche che si è trattato della prima stagione con Trek proprietaria del team, per cui è stato anche fisiologico da parte di tutti un periodo di adattamento e di ristrutturazione generale».

Cos'è mancato per l'optimum?
«Una grande vittoria alla Vuelta, la continuità nelle classiche dell'ultima parte di stagione; anche nella cronosquadre mondiale siamo andati al di sotto degli obiettivi, prendendo sin da subito tutto il distacco dai migliori e non andando alla fine oltre il settimo posto. Comunque con 12 under 26 in squadra, e tanti di loro che erano alla prima stagione nel World Tour, è normale che abbiamo pagato qualcosa: l'attività nel WT è esasperata, si corre da gennaio e abbiamo finito a novembre con la Japan Cup, poi per tutelare i giovani non puoi neanche farli correre sempre. Crediamo che nel 2015, con maggiore esperienza nel gruppo, le cose andranno meglio».

L'uomo simbolo è sempre Fabian Cancellara. Per quanto tempo tirerà ancora la carretta? In altri termini, come trova nuove motivazioni uno che ha vinto tanto come lui?
«Per un grande campione l'automotivazione resta alta per gli obiettivi più importanti. Lui viene da 4 anni di continui cambiamenti, dalla Leopard al subentro della RadioShack, poi il management è passato a me, quindi è arrivata la Trek come main sponsor. Per il leader di una squadra tutto ciò implica ogni volta un cambio di vedute che lascia qualche traccia. Detto ciò, per quanto riguarda la stagione di Fabian, la primavera è stata eccellente col Fiandre e i podi nelle altre classiche, mentre la più grossa sorpresa in negativo è stata quella relativa al Mondiale: l'aveva preparato in modo incredibile, aveva una condizione ottima, e alla fine quel giorno gli sono mancate le gambe. Credo anche perché veniva da un periodo senza vittorie (malgrado ci avesse provato varie volte alla Vuelta), e a un corridore come lui non deve mancare mai l'attitudine alla vittoria, anche per una questione di self-confidence. La controprestazione iridata è stata insomma una questione psicologica, e non fisica».

Approvi la sua scelta di perdere magari qualche piazzamento pur di non farsi più "inculare"? (Non è colpa nostra, Fabian ha usato proprio questo termine in un'intervista Rai di qualche mese fa).
«Lui è sempre stato un generoso, quest'anno ci siamo confrontati e gli ho detto che va benissimo correre col cuore, ma non ha senso fare regali ad atleti di pari livello, magari anche più giovani. Diciamo che l'input a spendere meno nelle fughe e a fare meno regali è partito proprio da me».

Quest'anno è esploso Julián Arredondo. La sua dimensione è quella vista al Giro (uomo da fughe in montagna e da maglia dei Gpm) o potrà dire qualcosa anche per la classifica?
«Per il momento è bene che si concentri su quanto ha già fatto vedere nel 2014. Deve abituarsi al circo mediatico che lo circonda nel WT, è stato catapultato praticamente dall'anonimato (pur con buoni risultati in corse di secondo piano) all'essere al centro dei riflettori, cosa che ha peraltro comportato grandi pressioni a livello familiare. Se imparerà a gestire certe situazioni, a non stressarsi troppo (cosa che spesso fa la differenza, anche se viene poco considerata), potrà senz'altro emergere anche sulle tre settimane. Lui poi è un ragazzo attento e rigoroso, confido nella sua futura crescita».

In tema di grandi giri, che margini ha Riccardo Zoidl?
«L'abbiamo ingaggiato proprio con l'obiettivo di fargli far bene i GT, ma la caduta che ha fatto alla Strade Bianche lo ha segnato, lasciandogli una paura rilevante per le discese che l'ha poi limitato soprattutto al Giro. Se supera questo problema, può venir fuori bene, come team lo stiamo aiutando anche facendolo seguire da uno specialista».

Fränk Schleck continuerà a inseguire top ten al Tour de France o proverà piuttosto a tornare buon protagonista delle classiche, com'era qualche anno fa?
«Partiamo dal presupposto che con l'esperienza che ha può far bene sia nelle grandi gare a tappe che nelle classiche; poi sarà la strada a scegliere se sia più utile per lui lavorare per sé o per gli altri al Tour. Per conto mio potrà essere buon protagonista sulle Ardenne e nelle gare di 9-10 giorni, e dare una mano a Mollema in Francia».

Il ritiro di suo fratello Andy lo lascerà più tranquillo, secondo te?
«Fränk è molto responsabile, e questa sua caratteristica l'ha portato a prendersi spesso anche responsabilità che non erano sue, ora che è rimasto solo sarà senz'altro più svincolato e libero mentalmente».

Cosa possiamo dire di Andy e della sua scelta? Ci sono calciatori che da un infortunio a un ginocchio rientrano meglio di prima, e parliamo di uno sport molto più traumatico per le articolazioni. Lui dà l'impressione di aver gettato la spugna appena possibile.
«Il recupero da un grave infortunio dev'essere anche psicologico e non solo fisico, per alcuni il desiderio di rientrare è automatico, per altri no. In questo caso c'è sicuramente una mancanza di stimoli a ritornare ad alti livelli, considerando anche che Andy veniva da due anni e mezzo praticamente senza risultati, fatto che conteneva già in sé le premesse per un abbandono. Comunque si tratta di scelte personali, è difficile giudicare, bisogna solo attenersi a quando deciso dalla persona. Certo, dispiace per un simile talento perduto per il ciclismo in generale e non solo per la nostra squadra, ma sono cose che possono capitare e che succederanno ancora. Non dimentichiamo che una carriera può durare 7-10-12 anni, ma poi c'è tutta una vita da affrontare e su certe scelte, se sono prese per il meglio, non mi sento di sindacare».

Un pensiero ai due tedeschi che hanno appeso anch'essi la bici al chiodo, ma in maniera ben diversa da Schleck junior, ovvero Danilo Hondo e Jens Voigt, il quale ha chiuso proprio col botto.
«I nostri grandi vecchi! Sono stati protagonisti di un finale di carriera strepitoso; Danilo ha sempre aiutato con consigli preziosi i più giovani, in particolare Nizzolo, quanto a Voigt, ha vissuto tre generazioni di ciclisti in gruppo, era un'istituzione. Anche nella sua ultima gara ha voluto tentare la fuga. Non va sottovalutato, peraltro, il clima istituzionale in cui i due sono cresciuti, la vecchia scuola tedesca che possiamo dire forgiasse uomini duri, fatto che è rimasto evidente per tutta la loro carriera».

Il Record dell'Ora è stato un "capriccio" di Voigt o ci avete creduto insieme?
«Era un obiettivo della squadra, pensavamo di perseguirlo con Cancellara, ma poi ci siamo resi conto che era un impegno che mal si coordinava con il calendario pieno di uno stradista. Però avevamo già raccolto tanti dati per questo tentativo, era un'esperienza che per noi era diventata fondamentale, e abbiamo allora individuato in un ex cronoman come Jens l'uomo giusto per provarci. Ho avuto grande piacere a lavorare sullo studio di questo tipo di performance, e abbiamo ottenuto un risultato lusinghiero, considerando anche che parliamo pur sempre di un atleta di 43 anni, per il quale poi risulta difficile raggiungere determinati standard a livello di intensità del lavoro. Lui però aveva stimoli particolari, essendo a fine carriera, e a un certo punto lo sponsor ha sposato in pieno il progetto, lanciando intorno all'evento un piano di marketing che ha avuto grande successo: basti pensare che nel giorno della prova il relativo hashtag su Twitter ha avuto qualcosa come 100 milioni di contatti, diventando terzo trend mondiale. Io sono stato presente fino alla sera prima del tentativo, poi quando ho capito che Jens ce l'avrebbe fatta sono volato in Spagna per lavorare sulla cronosquadre mondiale».

Capitolo italiani: Giacomo Nizzolo ha raccolto tanti piazzamenti importanti, che cosa gli manca per essere un vincente ad alti livelli?
«Non moltissimo, penso; qualche automatismo coi compagni, un treno che lo aiuti come capita ad altri suoi rivali. Purtroppo per lui si ritrova a gareggiare contro velocisti di livello eccelso, in un ciclismo in cui l'85% delle corse si decidono in volata la concorrenza è fatalmente aumentata molto. Comunque ha raccolto 7 secondi posti in gare World Tour, e ha un'età che gli permetterà di crescere in futuro. Può darci moltissimo, quest'anno tra l'altro si è rotto una clavicola in febbraio, poi al Delfinato ha subìto la frattura dell'omero, nel finale di stagione è stato vittima di una malattia; nonostante ciò, se un paio di quei secondi posti fossero stati delle vittorie, staremmo parlando di una stagione di assoluto rilievo».

In tema di treno per Nizzolo, avete ingaggiato Marco Coledan. Il suo ruolo sarà appunto quello di uomo di fiducia di Giacomo o può avere anche altri obiettivi?
«Il suo ruolo sarà esattamente quello di uomo del treno, tra l'altro Nizzolo è suo amico sin da quando erano dilettanti e si fida molto di lui; non escludo però che Marco possa fare un salto di qualità che gli permetta di ben figurare anche in altri ambiti. Ho lavorato con lui diversi anni fa, dopo il suo infortunio al ginocchio al Mondiale di Varese, lo conosco bene e so che ha un gran motore. Deve dimostrare di crederci lui per primo».

Roberto Reverberi, che l'ha avuto fino a quest'anno, ci ha detto pochi giorni fa che per Coledan il peso rappresenta un notevole problema.
«Gli daremo la massima assistenza affinché questo problema non diventi insormontabile; detto ciò, siamo professionisti, e dev'essere chiaro che certe responsabilità devono prendersele direttamente gli atleti, siamo squadre di ciclismo e non gruppi di carità. Comunque Coledan è già consapevole di tutto ciò».

Fabio Felline prometteva molto e si è un po' perso. Si potrà ritrovare?
«Sicuramente, viste le sue qualità. Ha corso qualche anno in realtà piccole, tornato nella massima divisione voleva forse dimostrare a tutti i costi le sue potenzialità, e ciò è risultato essere deleterio. Per ragioni di calendario ha anche corso un po' troppo quest'anno, nel 2015 con lui ci focalizzeremo su alcuni obiettivi e sono certo che farà bene. Lo aspetto in evidenza nelle classiche delle Ardenne, insieme ad Arredondo, Mollema e Schleck».

Eugenio Alafaci come lo giudichiamo invece?
«Un corridore molto solido, ha capito il suo ruolo ed è un ottimo uomo-squadra, è capace di fare gruppo, insomma è uno di quei corridori che in un team non possono mancare. Sa essere importante anche nelle volate, pur non essendo l'ultimo uomo del treno, e penso che con le sue caratteristiche possa ritagliarsi una carriera a lungo termine».

Panoramica sui giovani: Bob Jungels è il fenomeno di cui si dice?
«È uno dei corridori che quest'anno sono un po' mancati, per quelle che erano le attese; mi aspetto che nel 2015 salga un gradino in più per entrare a pieno titolo nel novero dei giovani corridori dal sicuro avvenire. È uno dei più grossi investimenti del team, ci attendiamo tanto da lui perché sappiamo che può dare tanto».

Danny Van Poppel, a dispetto della verdissima età, ha già raccolto risultati interessanti in diverse volate anche di gare importanti.
«Lo supporteremo di più, anche con sui fratello Boy, e spingeremo in maniera decisa sulle volate, sperando che centri qualcuno di quei risultati a cui è già andato vicino».

Altri due ragazzi poco più che ventenni sono Jasper Stuyven e Calvin Watson, meno noti al grande pubblico.
«Calvin è uno dei pochi ad essere arrivati direttamente dal dilettantismo, sta velocemente prendendo le misure al mondo del professionismo, l'ambientamento richiede tempo; Jasper si è più volte piazzato in volata alla Vuelta, ma è anche dotato di un buon fondo e potrà mettere in mostra qualcosa di sé anche in corse diverse da quelle destinate agli sprint».

Avevate due grandi regolaristi da GT, Robert Kiserlovski vi ha salutati, rimane Haimar Zubeldia che è il simbolo del corridore "fantasma", quello che non vedi per tre settimane di Tour e poi te lo ritrovi in top ten.
«Robert lo dobbiamo solo ringraziare per quello che ci ha dato in questi anni, ricoprendo un ruolo importante come leader in alcuni grandi giri; ora ha fatto una scelta diversa, si dedicherà a supportare i capitani in altre formazioni; di Haimar che dire? Credo sia arrivato 5 volte nei 10 al Tour, sa fare il capitano quando è necessario, ma sa anche lavorare benissimo per i compagni, un corridore prezioso».

Sul mercato avete fatto pochi movimenti, e avete puntato forte su Bauke Mollema.
«Per lui si tratterà della prima esperienza fuori dalla squadra in cui è cresciuto, puntiamo su di lui sia per il Tour che per le classiche, e sono convinto che le sue performance possano migliorare molto, soprattutto a cronometro: quest'anno ha perso tre o quattro posizioni nell'ultima crono del Tour, ha sicuramente margini su cui lavorare, e a 28 anni le stagioni buone per lui devono ancora venire».

In tanti credono che se un corridore migliora contro il tempo, perde per forza qualcosa in salita. Ciò corrisponde al vero, o nel caso di Mollema è un rischio calcolato?
«Io sono il primo ad essere convinto che un atleta non vada snaturato, e che le sue qualità non debbano essere cambiate. Diverso è dire che un corridore completo non possa migliorare parecchio in un particolare aspetto, con un lavoro specifico. Per le cronometro si può fare molto in tal senso, sia dal punto di vista dell'aerodinamica (con modelli simulati o in galleria del vento), sia grazie al critical power, che è un indice che permette di avere dati molto precisi calcolando il "periodo di esaurimento muscolare". In sintesi, è un indice per unità di tempo che mi dice quale potenza devo sviluppare per avere prestazioni ottimali in un dato lasso di tempo. Prima ci si basava solo sul dato della frequenza cardiaca, ora possiamo sapere con certezza che tipo di wattaggio si può e si deve esprimere per dare il massimo in una gara senza avere controindicazioni per i giorni successivi. Ciò permette di migliorare molto i risultati principalmente nelle cronometro, mentre per le prove in linea diventa più difficile la sua applicazione, in quanto subentrano tutta una serie di altre variabili da considerare. E forse è anche per questo che allenare i ciclisti è così bello: ci vuole creatività, a volte una tabella di allenamento la devi proprio inventare analizzando ogni singolo fattore, si diventa quasi artisti. In altri sport è diverso, faccio un esempio: se corri i 100 metri piani in 18", sai che non potrai essere competitivo per il successo; nel ciclismo invece anche un atleta non di prima fascia può lottare per vincere, in determinate condizioni, e lavorare perché ciò avvenga è molto stimolante».

Continuiamo la digressione su questioni di preparazione: cosa pensi dei modelli matematici applicati all'allenamento? In alcuni sport americani sono già realtà, pensi che possano avere un futuro anche nel ciclismo?
«In realtà non è una frontiera così nuova anche per noi, so per certo che in alcune squadre si son messi i numeri davanti a tutto, ma se ciò ha portato grandi risultati nel breve, è risultato poi controproducente nel medio termine. Non si può basare tutto sui modelli matematici, ci vuole sempre la mediazione umana, anche per le variabili cui accennavo poc'anzi. Un approccio fondato sul'estrema applicazione delle analisi matematiche sulle prestazioni porta secondo me a un esaurimento delle risorse umane; si tratta in particolare di metodologie nate per la pista, ma non possono essere trasposte in toto su un campo di gara diverso, perché su strada il ciclista non lotta solo contro il tempo ma anche contro gli avversari».

In effetti ci si sta rendendo conto della parabola particolare di alcune carriere, vien da pensare a diverse grandi promesse britanniche e australiane provenienti dalla pista: fortissimi all'impatto col professionismo, questi ciclisti hanno poi mostrato presto la corda.
«In pista si gareggia di meno, gli impegni sono ben cadenzati, c'è tutto il tempo, tra una competizione e l'altra, per adattarsi al meglio e recuperare anche mentalmente, e non sottovalutiamo anche una minore attenzione mediatica. Nel ciclismo professionistico corri 90 gare all'anno, a queste aggiungi 40 giorni di ritiro e 50 di viaggi internazionali: se in mezzo a questi impegni non si prevedono anche dei periodi di stacco mentale, si rischia di bruciare gli atleti. E quando si parla di ciclisti importanti, non puoi correre un simile rischio dopo un anno ad alti livelli».

Parlando di Mollema hai detto che per un corridore 28enne gli anni migliori sono ancora da venire. Come mai, rispetto a quanto avveniva in passato, il momento della maturazione dei ciclisti si è spostato tanto in avanti con l'età?
«Prima il ciclismo era fortemente caratterizzato a livello nazionale: si correva spessissimo in casa, e solo qualche volta ci si andava a confrontare in campo internazionale; oltre a ciò, anche l'approccio alle gare era diverso, si tenevano andature controllate per gran parte delle corse per poi scatenarsi negli ultimi 60-70 chilometri. Oggi è tutto cambiato, e l'adattamento a questi ritmi, sia in gara che fuori, determina un maggior periodo di ambientamento nel professionismo. Per questo, al di là di poche eccezioni di corridori che esplodono subito e poi continuano ad alti livelli per diversi anni, nella maggior parte dei casi la maturazione è più lenta».

Torniamo alla "nostra" Trek. Avete in programma altri ingaggi o il vostro mercato si è già chiuso?
«Abbiamo volutamente scelto di scendere da 30 a 26 atleti, nell'ottica di snellire l'organico in vista della riforma che - si prevede - dal 2017 dovrebbe portare i team a non avere rose di più di 22 corridori. Considerando il calendario che andremo a fare, 26 corridori potrebbero effettivamente essere un po' pochi. Nel caso, se ne valuteremo l'esigenza, più avanti inseriremo qualche altro nome in squadra».

Quali sono i vostri obiettivi per il 2015?
«Dovremo dare il massimo nel mese delle classiche, cercheremo più vittorie in volata, e puntiamo a far bene al Tour de France, con un occhio sul futuro per impostare una squadra che nel medio termine raggiunga risultati importantissimi».

Uno dei vostri su cui puntare a occhi chiusi?
«Dico Nizzolo, sia per gli innesti che abbiamo fatto al fine di favorirlo, sia perché mi pare sia giunto per lui il momento ideale per fare l'atteso salto di qualità».

Veniamo a te: già in giovane età sei stato un direttore sportivo di vaglia a livello internazionale; ora, quarantenne, guidi una squadra così importante. Vale la stessa cosa detta per Cancellara, quali sono le motivazioni che trovi dopo simili traguardi già raggiunti?
«Il cambio di ruolo negli ultimi due anni, il passaggio dall'area tecnica a quella dirigenziale, è già un'automotivazione importante, devo dimostrare di essere capace di non deludere chi ha creduto in me. Poi in ambito sportivo lo stimolo di fondo è sempre quello della vittoria, per cui è sempre difficile accontentarsi. Mi spinge molto, ad esempio, il confronto con le classifiche nel corso degli anni, con la conseguente voglia di scalarle fino alla cima; oltre a ciò, non trascuriamo il fatto che si tratta di un lavoro molto gratificante, in cui ci si diverte e si è in grado di instaurare rapporti basati sul massimo rispetto reciproco».

Qual è la maggiore difficoltà nel guidare un team di tale levatura? Insomma, sei pur sempre a capo di un team di americani!
«Proprio il fatto di rendersi conto di guidare un team di 90 persone, di proprietà di una società così importante, è un grande stimolo ma allo stesso tempo una responsabilità incredibile, anche pensando che il mio background è quello della scienza dello sport. La cosa più difficile è senz'altro la fase decisionale, quella che a volte ti porta a dover dire dei no, cosa che purtroppo passa dall'obbligo di tenere maggiori distanze nei rapporti umani, per avere la serenità necessaria. Per me, che da ds basavo tutto - al contrario - sulla vicinanza umana, questo salto non è stato facile da compiere».

La tua più bella esperienza nel ciclismo?
«A livello di risultati, una vittoria di tappa con Matteo Tosatto al Tour de France, quel giorno l'interazione tra me e l'atleta fu incredibile, e quando un corridore non al top ottiene un simile risultato, la soddisfazione è moltiplicata per dieci. A livello personale, gli attestati di stima ricevuti da un campione del calibro di Paolo Bettini, a fine carriera: un simile riconoscimento per di più mi giunse quasi inaspettato».

Ti piacerebbe guidare un progetto italiano, ovviamente del calibro della squadra che attualmente gestisci? Più che altro, ti pare possibile che ne nascano a breve?
«Mi piacerebbe, come no. Ma ci vorrebbe uno sponsor di livello internazionale che volesse investire, non so se con l'attuale crisi economica che c'è in Italia sia possibile trovare un'azienda del genere. Purtroppo il ciclismo va (e sempre più dovrà andare, secondo me) verso un'internazionalizzazione che al momento nel nostro paese è ancora poco recepita. Non si può pensare di partire drenando risorse nello sport di base, perché per salvare certe piccole realtà si rischia di fallire del tutto; piuttosto, sposare un approccio internazionale può favorire l'ingresso di risorse che poi, a cascata, riattiverebbero virtuosamente tutti i circuiti di livello minore».

Eppure il World Tour, nato per gli scopi da te appena esposti, oggi fatica a mettere insieme 18 (e forse anche 17) squadre. Cosa gli è mancato per essere un progetto vincente?
«Quando nacque (e si chiamava Pro Tour), l'esigenza era di trovare risorse comuni per non essere schiavi degli sponsor; dopodiché tutti gli stakeholder hanno badato sostanzialmente a difendere quello che avevano, più che a migliorare tutti insieme; finché non si arriverà a guardare l'interesse comune al di sopra di quello particolare, non si faranno passi avanti. La questione non è tanto, insomma, il fatto di avere retrocessioni e promozioni, o un sistema diverso dal punto di vista meramente sportivo. La questione è avere delle entrate che permettano di fare progetti a lungo termine. Oggi i nostri atleti percepiscono uno stipendio pagato dalla squadra, che a sua volta è sovvenzionata dagli sponsor, e così restiamo sempre in un circolo che rimane chiuso; nel momento in cui - come sta già avvenendo - il ricambio tra sponsor verrà a mancare, andremo dritti verso una deprofessionalizzazione dell'intero movimento».

Per dirla fuori dai denti, stiamo parlando della spartizione dei diritti televisivi, questione già da tempo all'ordine del giorno?
«Non solo, non sarebbe neanche l'entrata più importante, se pensiamo ad esempio al grande valore commerciale che potrebbero avere i dati biofisici dei corridori, quello che si può trasmettere da una camera bike... ma non mi focalizzerei neanche su questo, perché quel che conta è lavorare insieme per raggiungere sempre migliori risultati. Più che insistere su un modello europeo, ci dovremmo ispirare allo sport americano, al sistema delle franchigie, per - ribadisco - stabilizzare l'alto livello di modo che le risorse arrivino di conseguenza anche alla base. Ma mi rendo conto che parliamo di mondi differenti, basti l'esempio dello sport per i ragazzi: in America tutto è istituzionale, si inizia a praticare sport a scuola, da noi l'educazione fisica è una materia trascurata, e se un giovane vuole iniziare a praticare una disciplina deve rivolgersi ai privati, ai club».

Come vedi il ciclismo nel 2020?
«Difficile capire cosa succederà. La mancanza di risorse porta tutti, nel breve termine, a una spinta per autoregolarsi e per mostrare le proprie qualità; ma quando il gioco non varrà più la candela, in tanti lasceranno, e come ho detto prima si andrà incontro a una deprofessionalizzazione inevitabile. C'è in ballo questa riforma, è ancora in fase di studio, vediamo cosa verrà fuori dallo shaker. Per ora non possiamo neanche giudicare troppo la nuova UCI di Cookson, diciamo che si son presi un anno per studiare bene le cose, anche se mi sarei aspettato un maggior dinamismo, una maggior verve».

Tornando al ciclismo pedalato, visti i percorsi ti piace più il Giro o il Tour?
«Il Giro per me ha sempre un fascino speciale fra i tre GT, non guarda in faccia a nessuno, a livello tecnico: non presenta tappe facili».

E poi offre anche scenari di impareggiabile bellezza, e in questi ultimi anni questa è una direzione sempre più marcata, pare.
«Il ciclismo resta il veicolo principale per la promozione del territorio, per questo è incredibile che, mentre all'estero le istituzioni lo appoggiano e sovvenzionano in tanti modi (con squadre, corse e quant'altro), in Italia si fatichi tanto ad avere un supporto. RCS è una società privata, trovare la sponda delle istituzioni è sempre più difficile, non si riesce a capire l'importanza che può avere questo sport a tanti livelli».

Sempre convinto che giù dallo Stelvio, quest'anno, la corsa potesse fisicamente essere neutralizzata?
«Doveva! C'era lo spazio per fermare chi era passato davanti alle moto con le bandierine rosse, e per ripartire, a fine discesa, coi tempi presi al Gpm. Era stato detto che i corridori dovevano scendere a passo d'uomo dietro alle bandierine, ma ciò non è valso per tutti; la cosa che più mi è dispiaciuta è che si fece passare il concetto che alcuni tecnici avevano letto bene la gara e altri no. Alla fine, tutti i ds erano stupidi, e solo tre bravi? È un'idiozia. Le frasi dette da Radio Corsa non erano interpretabili, poi che la situazione fosse difficile, perché a volte al Giro ci si confronta con situazioni meteo estreme (e quello fu un caso limite), siamo d'accordo. Ma la giuria doveva assumersi la responsabilità di decidere e invece non prese alcuna decisione».

Però, a distanza di mesi e avendo avuto il tempo di metabolizzare il tutto, non possiamo dire che si è trattato di una pagina a suo modo epica, di una tappa di cui si parlerà ancora a lungo?
«Se non altro è stata utile per aprire un dibattito interno su come regolamentare certe situazioni. Non possiamo più considerare i corridori come carne da macello, io non voglio avere qualche ciclista sulla coscienza, e le condizioni meteo quel giorno erano impossibili».

Ma chi vieterebbe ai corridori di scendere dallo Stelvio con una giacca a vento?
«Niente te lo impedisce, però si parte organizzati in un certo modo e poi non è sempre pensabile provvedere a variabili di questo tipo. Poi mettiamoci che senza la giacca a vento si impiegherebbero 5' in meno per fare quella discesa, per cui alla fine tutti sarebbero indotti a scendere - come ora - con la semplice mantellina, e saremmo punto e daccapo».

L'attitudine fisica a sopportare anche il gelo, però, non avrebbe tutta la legittimità ad essere premiata? In fondo è una componente che da sempre fa parte del ciclismo.
«Quel giorno il rischio era per tutta la carovana, non nascondiamocelo. Con la strada ghiacciata, scendere a tutta con le ammiraglie comportava un pericolo per tutti. Un tempo si correva in maniera diversa, non possiamo rapportare tutto al ciclismo del passato. Comunque, ripeto, il dibattito fa crescere tutti. Ora abbiamo chiarito che le comunicazioni alle ammiraglie devono essere chiare in tutte le lingue, penso che possa esserci meno spazio per errori in futuro; e spero che il "legislatore", qualora si rendesse conto che l'applicazione di una regola è sbagliata, avesse il coraggio di cambiarla in loco. Stavolta non è stato fatto».

Marco Grassi

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