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DéTour 2014: Panzer tedeschi e modelli ciclistici - Vincere senza avere squadre si può. Ma è sufficiente?

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Miro Klose esulta per il secondo dei 7 gol con cui la Germania ha sommerso il Brasile © www.olimpiazzurra.comIeri sera è successa una cosa di un certo rilievo nello sport. Nello sport tutto, quindi va bene parlarne anche in questo nostro angolo ciclofilo. Con un risultato mai visto né in una semifinale mondiale né tantomeno nella storia del Brasile, e destinato quindi a rimanere negli annali, la Germania ha battuto la Seleçao ed è volata in finale, dove incontrerà la vincente di Olanda-Argentina di stasera. 7-1 è il clamoroso esito di una partita giocata in maniera perfetta dai "crucchi" e non giocata affatto dai verdeoro, rimasti negli spogliatoi.

La concomitante figura barbina dell'Italia in questo Mondiale di calcio (eliminata con ignominia al primo turno) fa ora suonare molte fanfare affinché la nuova dirigenza del calcio azzurro prenda esempio dalla realtà tedesca, al fine di costruire un prodotto di successo (tanto sportivo quanto economico). Posto che siamo abbastanza certi che alle nostre latitudini, con le nostre "regole" del gioco e con i nostri palazzi romani, qualsiasi modello virtuoso non possa essere fisicamente imitato, ci sembra - e qui veniamo al nostro campo di fragole per sempre - di risentire le stesse parole che, per il ciclismo, sono echeggiate ancora fino a ieri, relativamente alla bontà del modello inglese per quel che riguarda il nostro sport.

Anche in questo caso, le miserie (organizzative) italiane vivono un impietoso raffronto con lo splendore del cycling d'oltremanica, un movimento che è nel pieno della salute e dell'appeal, e che continua a mietere risultati strepitosi (la tre giorni del Tour tra Leeds e Londra è stata a dir poco eccezionale). Il problema per l'Italia è che avrebbe bisogno di un navigatore satellitare per regolare meglio le sue rotte, visto che per il momento sta seguendo l'esempio inglese nel calcio (nazionale ridicola eliminata al primo turno del Mondiale), e l'esempio tedesco nel ciclismo (movimento destinato alla marginalità malgrado la presenza di qualche buon corridore).

Ecco, visto che si sta parlando tanto di panzer in queste ore, giova ricordare che l'esibizione di potenza tanto gradita al popolo guidato da Frau Angela non è visibile solo nel calcio, ma nel ciclismo un Marcel Kittel offre in volata le stesse sensazioni di straripante dominio sugli avversari. Il velocista di Erfurt ha conquistato tre tappe su quattro, vincendo in maniera diversa ma sempre togliendo l'aria ai rivali, data la grande superiorità che lo muove nei loro confronti.

Oltre al marcantonio della Giant, il ciclismo tedesco si fregia da anni del titolo di Campione del Mondo a cronometro, detenuto da Tony Martin, il quale - esattamente come Kittel allo sprint - nel suo campo è mediamente troppo più forte di tutti gli altri cronoman (ovvero: magari qualche volta trova uno che lo batte, ma si tratta di momenti episodici). Quando poi il passista di Cottbus si lancia in azioni nelle tappe in linea, con le sue fughe impossibili ma a volte vincenti, "viene giù lo stadio" per gli applausi.

Oltre ai due fortissimi capofila del movimento, non mancano altri corridori di tutto rispetto, a partire da John Degenkolb (sia velocista - nonché compagno di Kittel - sia uomo da classiche), senza dimenticare le belle individualità in altre discipline ciclistiche (il Philipp Walsleben del cross) o le consolidate realtà come quelle della Velocità su pista (4 ori agli ultimi Mondiali, e ci piace citare le fortissime Kristina Vogel e Miriam Welte). Certo, manca lo Jan Ullrich della situazione, ovvero il nome che da solo smuove le montagne, ma il livello medio è ottimo, e le eccellenze - come visto - non mancano.

Quello che manca è un riscontro reale, nel World Tour (ovvero nella categoria di vertice del ciclismo), dell'importanza che il movimento tedesco potrebbe e dovrebbe avere. Nell'ultimo decennio la dispersione è stata enorme e quasi incredibile, tanto che attualmente la Germania non ha nella "serie A" di questo sport neanche una squadra (Kittel e Degenkolb corrono per una formazione olandese, Martin per una belga), mentre resiste tra qualche difficoltà solo una corsa (la Classica di Amburgo).

Gli scenari che si profilavano all'epoca della grande riforma ciclistica che introdusse il Pro Tour (oggi diventato World Tour) erano di tutt'altro genere: si stava, 10 anni fa, puntando fortissimo sul Giro di Germania (che in effetti iniziava ad acquisire un'importanza mai avuta in precedenza), e i team di prima fascia erano 2 (T-Mobile e Gerolsteiner, nel 2005), con una Professional (la Wiesenhof) a supporto. Oggi su quel fronte c'è il nulla assoluto, il WT non presenta team tedeschi, e a livello Professional ce n'è solo uno (la NetApp, presente anche al Tour ma il cui sponsor è prossimo al disimpegno nel 2015).

Dire che la colpa di tutto è il contraccolpo di Operación Puerto, ovvero dell'inchiesta antidoping che pose fine alla carriera di Ullrich evidenziando al contempo come nella T-Mobile fosse attuato un doping di squadra, è dire solo una parte della verità. Son passati tanti anni dall'epoca, il ricambio generazionale è pressoché totale (oddio, Jens Voigt è ancora nel fiore della carriera...), ma gli investimenti nel ciclismo si contano col contagocce (in rapporto alle enormi possibilità tedesche, s'intende). È possibile che parte di quei possibili investimenti siano stati dirottati altrove su progetti di lungo termine (magari anche e proprio nel calcio, perché no?), e che quindi occorra ancora altro tempo prima che qualche sponsor di grido torni a trainare la carretta del ciclismo.

In questo, sì che l'Italia prende esempio alla grande: è notizia fresca fresca che la Cannondale (nella versione con Roberto Amadio in qualità di team manager: insomma, nella versione italocentrica della squadra) è destinata alla fusione con la Garmin, il che si traduce nella scomparsa di uno degli ultimi due team italiani del WT. Ci rimane la Lampre, almeno fino a quando anche lì il sodalizio e il nome non diventeranno interamente stranieri. E anche per il ciclismo italiano, alcuni grandi sponsor hanno abbandonato per dedicarsi al calcio (il dottor Mapei - che anche grazie al ciclismo è diventato uno degli industriali più potenti del nostro paese - è passato dal possedere lo squadrone più forte del ciclismo mondiale a possedere una squadretta della serie A italiana), altri si sono via via stufati e ora preferiscono andare a passare il loro tempo in barca, e quelli che rimangono sono sempre di meno, uno zoccolo duro di appassionati che non garantiscono di fungere da base per un progetto ad ampio respiro.

Come sempre, ci si appella ai dirigenti affinché qualcosa cambi. Ma - e l'esempio tedesco su cui è imperniato questo articolo lo dimostra abbastanza fulgidamente - a volte non basta nemmeno la dirigenza, perché un paese può essere attraversato da cambiamenti socio-economici che passano sopra a qualsiasi capacità o inettitudine del Cookson o del Di Rocco di turno.

Marco Grassi

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