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Giro d'Italia 2014: Ne abbiamo viste di tutti i colori - Tre settimane di spettacolo con un occhio al futuro

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Fabio Aru, Nacer Bouhanni, Nairo Quintana e Julián Arredondo © Bettiniphoto

Quante cose contiene una gara a tappe di tre settimane? Quante ne può contenere un articolo che non sfori la lunghezza consentita dalla ragionevolezza? Proviamo a compendiare.

Come non partire dal fatto di trovare due 24enni sul podio, evento riuscito per l'ultima volta esattamente 20 anni fa, con Berzin primo e Pantani secondo? Nairo Quintana e Fabio Aru hanno reso prezioso questo Giro non solo con le rispettive vittorie e belle prestazioni in salita, ma anche con il fatto in sé di essere lì a lottare per la vittoria, e di farsi simbolo del rinnovamento del ciclismo. Un grande ricambio generazionale è in atto, lo osservavamo a due terzi del cammino rosa e lo confermiamo più che mai al termine delle belle tre settimane di gara. Anche nelle ultime frazioni la tendenza è stata confermata in pieno, con 5 vittorie di corridori nati dal 1987 in poi, contro l'unica di un veterano (Rogers ieri allo Zoncolan).

La partenza nordirlandese, accolta dalla pioggia consueta a quelle latitudini, è stata un trailer, più che uno spot: nel senso che ha presentato in sintesi quel che avremmo visto nei successivi 20 giorni: tanta acqua sul gruppo (tanta che neanche la festa finale, con la cerimonia delle premiazioni, è stata risparmiata dal solito nubifragio, puntuale come una cartella delle tasse).

Gli australiani hanno monopolizzato la prima metà del Giro almeno quanto i colombiani la seconda: non a caso, la maglia rosa è stata vestita da australiani per 10 dei primi 11 giorni (dopo il canadese Svein Tuft il primo giorno - in rosa per la vittoria dell'australiana Orica nella cronosquadre - abbiamo avuto in testa alla generale Michael Matthews per 6 giorni e Cadel Evans per 4), e da colombiani negli ultimi 10 (Rigoberto Urán per 4 giorni, Quintana per 6). Cinque le tappe vinte dagli aussie (la citata cronosquadre d'apertura con la Orica, la frazione di Montecassino con Matthews, quella di Sestola con Weening e quelle di Savona e dello Zoncolan con Michael Rogers), quattro quelle dei sudamericani (la crono di Barolo con Urán, quella del Monte Grappa e la tappa di Val Martello con Quintana, la frazione di Panarotta con Julián Arredondo), i quali però aggiungono al bottino anche la maglia azzurra di migliore scalatore conquistata dallo stesso Arredondo, oltre a quella rosa (e conseguentemente quella bianca di miglior giovane) che sono state appannaggio di Quintana.

I colombiani sono stati i veri mattatori del Giro, due di loro si sono piazzati ai primi due posti della classifica, ma tanti altri sono stati comunque protagonisti, e tra questi ricordiamo il giovanissimo Sebastián Henao ma anche i rappresentanti del team Colombia diretto da Claudio Corti (con in testa Fabio Duarte, Robinson Chalapud e Jarlinson Pantano). Tra le altre Professional invitate alla corsa rosa, hanno raccolto poco Androni e Neri: la squadra di Savio è stata la più presente nelle fughe (ben 18 volte coi suoi corridori) e ha vinto con Marco Bandiera la classifica dei traguardi volanti, e rimane col rammarico della vittoria sfuggita per poco a Franco Pellizotti sullo Zoncolan: quel successo avrebbe cambiato in maniera radicale il bilancio della formazione piemontese.

La Neri si consola col premio per il corridore rimasto in fuga per più chilometri (Andrea Fedi, 608 km in totale), ma ha chiuso in calando e il 17esimo posto di Matteo Rabottini nella generale non raddrizza la baracca. Tutt'altro discorso per la Bardiani, protagonista nella seconda parte di Giro con ben tre vittorie di tappa (Marco Canola a Rivarolo, Enrico Battaglin a Oropa e Stefano Pirazzi a Vittorio Veneto); anche ai Reverberi resta il rimpianto per la tappa dello Zoncolan (Manuel Bongiorno è stato frenato da un improvvido tifoso quando era al comando con Rogers a poco più di 3 km dalla vetta), ma nel loro caso la delusione si stempera in un mare di soddisfazione per le tre affermazioni.

Tra le squadre italiane, tutto sommato soddisfatta la Lampre, che se non ha avuto in Cunego e Niemiec due uomini all'altezza della classifica generale, ha esibito un Diego Ulissi in forma smagliante nella prima metà del Giro (vittorie a Viggiano e a Montecopiolo per il toscano); resta invece a bocca asciutta la Cannondale, che a parte il premio per il fairplay non ha raccolto quasi niente: diversi piazzamenti di Elia Viviani in volata e pochissimo altro, considerando anche il declino di Ivan Basso.

Se a Viviani è sfuggito il successo in volata, lo stesso possono dire tutti gli altri velocisti italiani, a partire da Giacomo Nizzolo (quattro volte secondo, e conseguentemente secondo anche nella classifica a punti); troppo forti gli sprinter venuti da fuori, con Marcel Kittel autore di un fragoroso avvio (due tappe vinte in Irlanda prima del precoce ritiro una volta che il Giro è rientrato in Italia), e con Nacer Bouhanni che nel prosieguo si è imposto all'attenzione generale: tre vittorie per il francese e la prestigiosa maglia rossa della classifica a punti portata fino a Trieste. Anche nella tappa conclusiva, poi, a vincere è stato uno straniero, Luka Mezgec, partito come vice di Kittel (a conferma della qualità che alberga nelle fila della Giant).

Che sia stato un Giro pieno di volti nuovi è confermato anche dal fatto che i primi quattro della classifica dei giovani hanno chiuso la corsa rosa nei primi 7 posti della generale: oltre a Quintana e Aru, troviamo anche Rafal Majka e Wilco Kelderman molto in alto. In particolare col sardo l'Italia trova il tanto sospirato nome per il futuro delle gare a tappe. Partito come co-capitano con Michele Scarponi, Aru ha saputo strada facendo anche fare a meno del supporto dell'esperto marchigiano (frenato dai postumi di una caduta e poi costretto al ritiro), imponendosi in prima persona ed elevandosi al rango di principale avversario di Quintana in salita. La vittoria di Plan di Montecampione e il secondo posto del Grappa sono le due perle del 24enne di Villacidro.

Meno appariscente la prestazione di Domenico Pozzovivo, quinto della generale e capofila di una AG2R davvero competitiva (come è confermato dalla vittoria della classifica a squadre); le squadre francesi sono state comunque protagoniste, e se la FDJ si gode le tre vittorie di Bouhanni, la Europcar può a buon diritto rivendicare il ruolo di squadra più spettacolare: ruolo esaltato dal supporto dato a un Pierre Rolland in stato di grazia. Molti temevano che il transalpino venisse al Giro a passeggiare per preparare il Tour de France, e invece Pierre non solo ha attaccato praticamente in ogni tappa di montagna, ma ha anche sfiorato il podio finale, oltre ad essersi speso in ripetute dichiarazioni d'amore per la corsa rosa, da lui scoperta quest'anno.

In parallelo con Rolland possiamo valutare il Giro di Ryder Hesjedal, sfortunatissimo in avvio (la sua Garmin ha perso oltre 3'30" nella cronosquadre ed è stata decimata da una caduta che ha messo ko Daniel Martin, attesissimo sulle strade d'Irlanda ma costretto subito al ritiro da una clavicola rotta), ma poi caparbio attaccante. Citando i corridori sfortunati, bisogna parlare anche di Joaquim Rodríguez: partito con due costole rotte (anche se non aveva rivelato la cosa per non dare troppe indicazioni ai suoi avversari), se ne è rotte un altro paio nella maxicaduta di Montecassino, e si è dovuto ritirare.

Una caduta, quella della tappa laziale, che ha innescato tante polemiche, perché Evans e la BMC non si sono fermati per aspettare che rientrassero gli uomini di classifica coinvolti nello scivolone. Nulla, comunque, in confronto a quanto avvenuto nella frazione di Val Martello, influenzata da una decisione sbagliata degli organizzatori (l'inserimento, nei primi chilometri della discesa dello Stelvio, delle "safety moto", ovvero mezzi con bandiera rossa che avevano lo scopo di segnalare le curve e le traiettorie più adatte). Una misura di sicurezza che è stata interpretata da molti direttori sportivi come una neutralizzazione temporanea della corsa: solo che chi ha interpretato correttamente la cosa (gli Europcar e i Movistar tra gli altri) si è avvantaggiato, e da qui è nata la sequela di lamentele che ha caratterizzato l'ultima settimana.

Dato che si parla di Stelvio, una citazione la merita pure Dario Cataldo, che ha chiuso bene un Giro partito maluccio. L'abruzzese è transitato per primo sulla Cima Coppi, e poi ha proseguito cercando la fuga anche nei giorni successivi (era all'attacco anche nella frazione dello Zoncolan). Questa ottima presenza sulle salite alpine ha permesso a Dario di andare a (quasi) insidiare la maglia azzurra di Arredondo.

Il pubblico, poi: presente in misura massiccia in alcune tappe (soprattutto in Irlanda e nell'ultima settimana), ha confermato che il Giro resta un evento amato e seguito, e ciò riempie il cuore e fa dimenticare qualche intemperanza dei tifosi (in particolare fa dimenticare il signore che a Cassino "prese in prestito" il casco di Giampaolo Caruso dopo che il siciliano era stato portato via dall'ambulanza; e il già citato scalmanato che ieri per poco non faceva cadere Bongiorno sullo Zoncolan). Quel che conta è che il Giro è sembrato essere in salute, ha offerto spettacolo (non sempre ma spesso), ci ha regalato dei protagonisti di qualità, e si è confermato uno degli appuntamenti di spicco del calendario internazionale. Un bilancio che rende orgogliosi per il presente e fa sperare per il futuro. Ecco, futuro: tutto considerato, è proprio la parola che meglio di ogni altra si sposa all'edizione 2014 della nostra amata corsa rosa.

Marco Grassi

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