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Tour de France 2013: 100 Tour, 1000 emozioni - Finita in bellezza la Grande Boucle dominata da Chris Froome

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Il podio del Tour de France 2013 © Bettiniphoto

L'asfalto è ancora caldo per il passaggio della carovana gialla, l'eco dello sferragliare delle bici è ancora percepibile nell'aria, l'urlo dei tifosi si è appena affievolito, Chris Froome ha vinto il suo primo Tour de France e per la centesima volta Parigi ha accolto i protagonisti della corsa più importante del mondo.

L'inedita chiusura serale, scenografica e spettacolare attraverso i Campi Elisi, e coronata da una premiazione che ci ha lasciati senza fiato con lo spettacolo di luci e proiezioni sull'Arco di Trionfo, conduce dritti all'ultima fuga, la più agognata, quella verso il riposo dopo tre settimane di fatiche. Si è partiti dalla Corsica in maniera incredibile, con un bus incastrato sotto l'arco del traguardo, si è vissuta la prima settimana nel segno della squadra proprietaria del pullman in questione, la Orica, che forse per far dimenticare l'imbarazzante incidente di Bastia ha vinto due tappe (Gerrans e cronosquadre) e ha indossato per 4 giorni la maglia gialla (lo stesso Gerrans e Impey, primo africano a vestire il simbolo del primato, anticipando di un paio di giorni nientemeno che Froome!).

È partita nel segno di Kittel la sfida tra i velocisti, ed è finita con lo stesso giovane tedesco a braccia alzate, ai Campi Elisi, con la bellezza di 4 tappe portate a casa sprintando in faccia a Cavendish (che si è dovuto accontentare di 2 successi e ha subìto una bruciante sconfitta oggi a Parigi, dove sperava di cogliere la quinta affermazione consecutiva nell'ultima tappa) e a Greipel (che comunque uno squillo l'ha fatto risuonare).

Il Tour in cui attendevamo grandi cose da Sagan, e invece lo slovacco, nonostante una classifica a punti stradominata, ha conquistato un solo successo, grazie anche a una giornata strepitosa dell'intera Cannondale. Per il resto, meno arrivi adatti a Peter, ma anche un paio di vittorie buttate via (soprattutto contro Gerrans). Quella Cannondale che poi, al di là della grande giornata di Albi, è tornata a farsi vedere sulle Alpi, con Moser (terzo all'Alpe d'Huez) e De Marchi (in fuga verso Le Grand-Bornand). Ecco, Moser: al primo grande giro, il trentino ha sofferto tanto, vivendo ai margini della corsa per oltre due settimane, per poi trovare il guizzo nella tappa più significativa.

Come Moreno, anche l'unico vincitore di tappa per l'Italia viene dal Trentino. E si chiama Trentin. Il giovane della Omega Pharma, apprezzatissimo uomo-squadra, ha indovinato la fuga giusta vincendo a Lione, a tre anni di distanza dalla nostra ultima affermazione in Francia. E ha dimostrato, Matteo, di non dover solo tirare volate a Cavendish o spianare muri per Boonen, nel suo futuro: le sue doti possono regalargli ritagli di grande soddisfazione.

Soddisfazione che è mancata totalmente in casa Lampre: forse minata nell'anima dall'attesa dei responsi dell'inchiesta antidoping di Mantova, chissà. Fatto sta che il capitano, Cunego, non si è mai visto, se non per una foratura nella tappa di Montpellier, e per una mezza fuga al terz'ultimo giorno. Troppo poco rispetto alle attese (far classifica!), e peggio di quel che hanno fatto altri compagni di Damiano (dalle fughe di Mori ai piazzamenti nelle varie volata di Cimolai e Ferrari).

È stato il Tour degli outsider di lusso, da Bakelants astutissimo vincitore ad Ajaccio (e conseguente maglia gialla), e poi confermato nel proprio salto di qualità da una terza settimana di ottimo livello, a Rui Costa autore di una memorabile doppietta in fuga tra Gap e Le Grand-Bornand, passando da Daniel Martin (finalizzatore di una grande Garmin a Bagnères-de-Bigorre, ma che ha terminato il Tour in forte calando). Il Tour della Spagna mai vincitrice di tappa, e della Francia salvata dall'impresa di Christophe Riblon all'Alpe d'Huez, a fronte delle delusioni griffate Pinot (ritiratosi a causa del terrore delle discese di montagna) e Rolland (subito fuori dalla classifica, gli è sfuggita pure la maglia a pois).

Il Tour delle solite tante cadute, di Jürgen Van den Broeck ritiratosi dopo poche tappe, di Tony Martin grattugiato su tutto il retro e rimasto stoicamente in corsa perché doveva per forza vincere la crono di Mont-Saint-Michel (missione compiuta); di Jean-Christophe Péraud che va giù nella ricognizione dell'altra crono, a Chorges, e malgrado una frattura alla clavicola vuol partire ugualmente per la prova, e parte, e gareggia pure bene, finché a 2 km dalla fine non cade di nuovo e batte la spalla sullo stesso punto del mattino, ritirandosi tra le lacrime di dolore.

E gli scenari della Grande Boucle, particolarmente fascinosi, dalla selvaggia Corsica alla placida Mont-Saint-Michel, dalla paurosa discesa del Col de Sarenne con quegli strapiombi sul ciglio della stradina, allo straordinario impatto della Parigi notturna che, affollata all'inverosimile, ha abbracciato gli eroi di oggi e di ieri (400 ex professionisti invitati per festeggiare questo Centenario). Eroi di oggi ovvero i 198 partiti da Porto-Vecchio che si sono ridotti a 169 al traguardo, l'ultimo ritirato - Lieuwe Westra - addirittura nell'ultima tappa, per problemi di salute (che sfortuna), l'ultimo in classifica invece, onori a lui come a tutti gli altri, Svein Tuft, che ha difeso quella maglia nera fino all'ultimo chilometro dell'ultima tappa.

Che dire poi di Nairo Quintana, grande protagonista dall'inizio alla fine, il primo ad attaccare Froome sui Pirenei, l'ultimo ad attaccarlo sulle Alpi, per una vittoria a Semnoz con cui ha completato un filotto stratosferico con la maglia bianca di miglior giovane, quella a pois del Gran Premio della Montagna, e col secondo posto in classifica: la Colombia è già ai suoi piedi, il ciclismo ha trovato un protagonista assoluto per gli anni a venire. Non è stato il solo giovane a mettersi in evidenza, Nairo: bravi anche Talansky e Kwiatkowski, col primo che ha chiuso in crescendo prendendosi la top ten all'ultima occasione buona, e il secondo che completa col comunque ottimo Tour una prima parte di stagione sensazionale per versatilità dimostrata (questo ragazzo fa classifica nelle gare a tappe - è stato pure quarto alla Tirreno - e partecipa brillantemente alle classiche del pavé, è fortissimo a cronometro e sa piazzarsi nelle volate).

Anche l'alta classifica si è popolata di nomi che potrebbero tornare con frequenza nei prossimi anni: Kreuziger, Mollema e Fuglsang hanno ancora un'età che lascia presupporre possibili progressi, anche se sono già abbastanza esperti, tanto da centrare la top ten al termine di un Tour che, per un motivo o per l'altro, è stato comunque abbastanza positivo per tutti e tre.

Qualcuno invece declina, ad esempio Cadel Evans, dopo il podio al Giro, ha dato chiaramente ad intendere di non averne più, non tanto sul piano fisico quanto su quello mentale. La maniera con cui ha letteralmente staccato nella terza settimana è stata forse un po' inattesa, per un lottatore del suo valore, ma di certo comprensibile. Si parla di declino anche per Alberto Contador, che era il primo a dover sfidare Froome e che strada facendo ha finito le risorse prima del previsto, chiudendo in affanno e perdendo pure il podio a Semnoz.

Una piccola Caporetto per la Saxo, che a un certo punto aveva sia il madrileno che Kreuziger sul podio, ma che nell'ultima settimana ha corso abbastanza male, mettendosi da sé il bastone tra le ruote (anche se alla fine ha vinto la classifica a squadre); e dire che proprio la Saxo (con Bennati e Tosatto protagonisti, nell'occasione), era stata splendido motore di una delle tappe più belle della Boucle, quella di Saint-Amand-Montrond, con i ventagli in favore dei rivali di Froome, e la foratura che ha buttato Valverde fuori dalla classifica.

Valverde, la Movistar: unica squadra a poter fronteggiare a petto in fuori la temutissima Sky, quella Sky che alla prima tappa pirenaica si è mostrata mostruosa (soprattutto con Porte) e che il giorno dopo si è letteralmente liquefatta al sole (soprattutto con Porte). Si poteva attaccare di più? Si poteva attaccare meglio? Sicuramente sì, Froome non era inscalfibile, ma quando c'erano gambe non c'era testa (a Bagnères-de-Bigorre, dove Movistar e Saxo non seppero approfittare del fatto che la maglia gialla era rimasta isolata a 100 km di montagne dal traguardo), e quando ci sarebbe stata testa non c'erano più gambe (nelle tappe alpine, soprattutto in quella di Le Grand-Bornand, orrendamente anestetizzata dal gruppo dei big, un antispot per il ciclismo).

Col calo progressivo di tanti protagonisti della classifica, è riuscito ad emergere alla distanza, fino ad arrampicarsi sul podio, Joquim Rodríguez. Il simpatico Purito ha mostrato più fondo di tutti, e anche se i suoi attacchi hanno spesso la gittata di un chilometro (preferibilmente l'ultimo prima del traguardo), bisogna riconoscere al catalano di aver finalizzato appieno una completa maturità ciclistica raggiunta tardi, dopo i 30 anni, ma che gli ha permesso di far podio a Giro, Vuelta e Tour negli ultimi 2 anni: non sono tanti quelli che hanno una simile tripletta in palmarès, tra i corridori in attività.

Così come non sono tanti, tra i corridori in attività, quelli che - come Chris Froome - hanno un Tour de France nel palmarès: solo Contador, Evans e Wiggins, club esclusivissimo in cui la Sky, piazzando due vincitori consecutivi, ripete quel che fece per ultima la Telekom '96-'97 (Riis-Ullrich). Froome è stato sottoposto a uno stress con cui probabilmente nessuno prima si era dovuto confrontare: bersaglio mobile degli ululati di tifosi sciocchi e delle insinuazioni di certa stampa, tanto che spesso le sue conferenze stampa erano più faticose delle tappe appena concluse.

Il ciclismo che non può più concepire che si vada oltre i risultati ottenuti in un recente passato, pena la lettera scarlatta cucita sulla maglia (la D di Doping, s'intende), non riesce più a godersi quasi per nulla lo spettacolo della strada. E dire che della storia di Chris ci sarebbe da appassionarsi, dalle sue origini africane alla malattia che l'ha limitato nei primi anni di carriera, dal suo stile incomprensibile (gomiti larghi, testa abbassata a guardare in terra, pedalata apparentemente sgangherata...) alle sue folli progressioni che tradiscono un approccio nuovo (non diciamo buono o cattivo, diciamo nuovo) alla pratica ciclistica.

Dopo aver forse meritato la vittoria l'anno scorso (ma si piegò alla ragion di squadra, come aveva fatto pure alla Vuelta 2011), dopo aver vinto tanto in primavera, l'anglokenyano ha centrato l'obiettivo più grosso della carriera, conquistando anche tre tappe, una sui Pirenei, una al Mont Ventoux, una nella crono di Chorges, e mostrandosi poi più umano nelle frazioni alpine, quando ha mostrato un piccolo calo che non ne ha comunque messo in discussione il dominio (oltre 5' al secondo in classifica).

E nonostante il quale, il britannico ha fatto intendere che - malgrado qualche passaggio a vuoto, tattico ancor prima che fisico - anche in futuro sarà lui la Stella Polare della corsa. Ha ancora 28 anni, ha un'altissima soglia della sofferenza, potrebbe essere davvero in grado di tenere anche mentalmente (al contrario di quanto capitato a Wiggo quest'anno) per ripetersi; o perlomeno per provare a farlo, perché da qui al luglio 2014 troveremo un Quintana presumibilmente cresciuto, e altri avversari che verranno a sfidare Chris per la maglia gialla: uno fra tutti, il più importante, si chiama Vincenzo Nibali.

Marco Grassi

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