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Mondiale 2012: Philippe Le Roi - Gilbert su Boasson Hagen e Valverde. Italia sconclusionata

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Philippe Gilbert si laurea Campione del Mondo 2012 a Valkenburg © Bettiniphoto

A 30 anni Philippe Gilbert può dire di aver raggiunto l'apice della carriera. Fino a ieri grande vincitore di classiche (due Lombardia, una Liegi, due Amstel, una Freccia, due Parigi-Tours e varie altre semiclassiche, oltre a una moltitudine di piazzamenti anche a Sanremo e Fiandre), da oggi il belga di Vallonia è entrato nell'Olimpo degli iridati.

Ha vinto a Valkenburg, su un circuito molto adatto alle sue caratteristiche, col Cauberg, già scenario delle sue vittorie all'Amstel, posto poco prima del traguardo e deputato ad essere la salita su cui si sarebbe decisa la corsa di Philippe - e ovviamente di tutti gli altri.

Gilbert ha vissuto un 2012 molto difficile, dopo i fasti dello scorso anno, quando a tratti era sembrato imbattibile; solo che nel 2011 la linea delle sue prestazioni era stata leggermente calante nella seconda parte di stagione, tant'è vero che - non considerando un Mondiale da velocisti in cui gli sarebbe stato difficile inventarsi qualcosa - il suo amato Giro di Lombardia gli sfuggì; allora l'idea di spostare in avanti la preparazione, in modo da arrivare al top proprio in occasione della sospiratissima corsa iridata.

Solo che ciò si è tramutato in una prima metà di 2012 parecchio scialba, con una gamba che faticava ad arrivare (anzi: proprio non c'era) anche nelle corse più importanti di primavera, dalla Sanremo alla Liegi. La rinascita è stata annunciata appena nell'ultimo mese, con due vittorie di tappa alla Vuelta. Ma come spesso capita ai campioni, basta una vittoria per sbloccarsi, e basta sentire di essere vicini alla miglior condizione per offrire prestazioni di tutt'altra caratura rispetto alle mosce apparizioni di quando non ci si sente intimamente a posto.

Fatto sta che l'albo d'oro del Campionato del Mondo dei professionisti si arricchisce di un gran bel nome, quello di un corridore che, tra qualche lustro, ci saremmo stupiti di non trovare in questo dorato elenco. Oggi è come se il ciclismo avesse tributato il giusto onore a uno dei suoi migliori rappresentanti in questo scorcio temporale. Nessuno degli avversari di Philippe azzarda una recriminazione o una parola di eccessiva delusione, son tutti lì a dire che ha vinto (con merito) il più forte. E quando raggiungi un tale riconoscimento da parte di quelli che pedalano ogni giorno con te, non c'è forse più altro da chiedere - in termini ideali - a una carriera. Verranno altre gare, altri successi e anche molto importanti (e molto inseguiti: un Fiandre?); ma oggi a Valkenburg Philippe Gilbert ha raggiunto la sua caratura definitiva.

I primi 108 km in linea, la prima bella fuga
Con un clima non propriamente rigido (malgrado i timori della vigilia) ad accogliere i 207 partenti del Mondiale olandese, i primi a muoversi sono stati proprio i padroni di casa, con Lindeman e De Kort frizzantissimi in avvio. Ma poi gli olandesi si son fatti da parte e hanno lasciato il proscenio ai primi fuggitivi di giornata, il lettone Smukulis e l'ucraino Buts. Al km 50 su questa coppia sono sopraggiunti altri 9 uomini: Cataldo (Italia), Lastras (Spagna), Mezgec (Slovenia), Duggan e Howes (Usa), Isaichev (Russia), Coppel (Francia), Anacona (Colombia) e Ferrari (Uruguay). Già nazionali importanti rappresentate in avanscoperta, e altre altrettanto importanti rimaste a guardare (Belgio, Olanda, Australia, Gran Bretagna).

Proprio i britannici, e in particolare un generoso Cavendish (che dopo essere stato a lungo in testa si è ritirato a 7 giri dalla fine), hanno tirato il gruppo praticamente per metà Mondiale. In tal modo il distacco dai primi è stato tenuto al massimo entro i 5'40"; d'altro canto, il ritmo non cicloturistico tenuto dal plotone sin dal mattino ha evitato che tanti riposassero sugli allori.

Poco prima che si giungesse a Valkenburg e quindi al circuito dove si sarebbe sviluppata la seconda parte di gara, l'Olanda ha tentato una mossa estemporanea, mettendosi a tirare a tutta per sfruttare un po' di vento laterale che in effetti ha frazionato il gruppo in tre tronconi (Wegmann e Haussler i due attardati più illustri). Ma a 170 km dal traguardo non era ancora il momento di spendersi in attacchi disperati, sicché gli oranjes si sono rialzati dopo un paio di chilometri, e tutto si è ricomposto.

Dall'attacco di Flecha a quello di Contador, e un'Italia attivissima
Un giro di circuito con Bemelerberg e Cauberg per prendere le misure al tracciato, ed ecco che già alla seconda tornata, al passaggio sul Cauberg (a 130 km dalla conclusione), la Spagna che tanto spesso in passato è stata accusata (a ragione!) di tattiche troppo attendiste e conservative, ha mosso un'altra pedina: Juan Antonio Flecha è scattato molto bene, portandosi dietro Cummings (Gran Bretagna), Bouet (Francia), Meersman (Belgio), Schär (Svizzera), Matthews (Australia), Fuglsang (Danimarca), Beppu (Giappone) e il nostro Rinaldo Nocentini.

Questo drappello, comprendente uomini veloci come Meersman e Matthews, e altri ottimi pedalatori, è rimasto intercalato tra i battistrada e il gruppo per 3 giri, prima di compiere il ricongiungimento; un aggancio che è stato doppio, perché nel frattempo sui contrattaccanti si erano portati altri contrattaccanti provenienti dal plotone, e tutti insieme appassionatamente sono andati a formare un gruppone di 29 corridori al comando della corsa a 80 km dal traguardo.

Chi erano questi secondi contrattaccanti? Nomi caldi, caldissimi, a partire da quello di Alberto Contador: il vincitore dell'ultima Vuelta ha saggiato una prima volta le forze in campo al quarto giro, con un allungo subito neutralizzato dalla marcatura di Slagter, Ulissi e Chavanel. Poco male, alla tornata successiva il madrileno è ripartito, con molta più convinzione di prima, e stavolta la sua azione ha sortito il bell'effetto di portar via Tiernan-Locke (capitano britannico che partiva mentre i suoi compagni Wiggins e Froome si avviavano a un mesto ritiro), Albasini (Svizzera), Leukemans (Belgio), Voeckler (Francia), De Kort e Gesink (Olanda, finalmente presente in un attacco), e gli azzurri Marcato e Ulissi.

Al momento dell'attacco di Contador le distanze dai primi due drappelli non erano enormi, sicché in tempi molto rapidi è avvenuto il ricompattamento di tutti gli attaccanti, per una situazione di gara (29 uomini con un vantaggio oscillante dal mezzo minuto al minuto intero e abbondante) foriera di grandi possibilità dal punto di vista dello spettacolo.

L'azione dei 29 prima promette, poi naufraga
Ricapitolando, in testa trovavamo a 80 km dal traguardo Contador con due gregari (Flecha e Lastras), Voeckler con due gregari (Bouet e Coppel), Gesink con un gregario (De Kort), due mezzepunte per il Belgio (Leukemans e Meersman), Albasini con un gregario (Schär), Tiernan-Locke con un gregario (Cummings), e altri corridori interessanti come Matthews, Fuglsang e Anacona; con loro, ben quattro italiani, senza che tra di essi ci fosse un capitano riconosciuto, ma buoni per formare un quartetto tutto sommato ben assortito, in cui un paio di uomini tra Cataldo, Nocentini, Ulissi e Marcato avrebbero potuto lavorare per gli altri due.

Con la collaborazione di tutti, l'azione avrebbe realmente potuto prendere quota, permettendo a quelli che ne erano coinvolti di andare a giocarsi un risultato importante senza avere tra i piedi i favoritissimi della vigilia. Ma se Contador e Voeckler ci hanno creduto a fondo, altri (i belgi soprattutto) non hanno mai minimamente preso in esame la possibilità di dare un cambio in testa. Lo spirito di partecipazione degli azzurri, molto forte finché Cataldo ha resistito alternandosi in testa coi francesi e gli spagnoli, è andato ben presto scemando nel momento in cui l'abruzzese, al settimo giro (e sempre sul Cauberg), ha alzato bandiera bianca.

A quel punto l'unica speranza per gli attaccanti di continuare a tenere viva la loro azione era che da dietro arrivassero nuovi rinforzi a sostituire quelli che non ce la facevano più, e a supportare gli altri. In un ideale disegno da manuale tattico del ciclismo, tra i -70 e i -40 km avremmo dovuto veder emergere dal plotone uomini come Vincenzo Nibali o Purito Rodríguez (o quantomeno Dani Moreno), e quantomeno un altro colombiano (Urán? Henao? Betancur?) e un olandese (Ten Dam? Terpstra?), per andare a rinforzare in maniera decisiva la prima linea.

Un assalto all'arma bianca dello Squalo dello Stretto e di JRO avrebbe permesso ai due di trovare tanti uomini a disposizione, là davanti (anche Contador, sì), per dare fiato a un'azione che sarebbe stata decisiva, e che quand'anche fosse alla lunga fallita, avrebbe lasciato a Spagna e Italia altre carte da giocare (Valverde e Freire da una parte, Moser, Paolini e Gatto dall'altra). E invece il massimo che abbiamo visto è stato un breve tentativo di Urán (con Rodríguez, Sagan e Paolini a ruota) sul Cauberg affrontato al sesto giro, e poi più niente.

Ci sta che questo gruppetto si sia rialzato per non portare Sagan in carrozza, ma non ci sta (parliamo sempre dell'ideale disegno da manuale tattico del ciclismo) che al settimo e all'ottavo giro non si sia più mossa foglia, e che si sia lasciata alla Germania la possibilità di trenare benissimo (con un grande Knees) per recuperare tutto lo svantaggio dai battistrada (che nel frattempo da 29 erano diventati 17, per via di successive naturali defezioni).

I motivi di tanto attendismo
Non possiamo non soffermarci su quello che è il vero momento chiave del Mondiale 2012, e chiederci se effettivamente la fuga dei 29 avrebbe potuto avere successo, almeno per qualcuno dei suoi componenti. La risposta è che se fossero arrivati i rinforzi sì, qualche reale speranza di farcela ci sarebbe stata, per i motivi sopra esposti.

Ma allora perché non crederci, perché esibire un simile braccino dopo aver fatto tanto per movimentare la corsa? (E la domanda è rivolta ovviamente a Italia e Spagna). La risposta è nelle gambe, che evidentemente a un certo punto sono mancate a più di un protagonista. L'Italia, muovendo l'alfiere Nibali, avrebbe dovuto poi puntare tutto su Moser e Gatto in seconda battuta. Ma Moreno non era in giornata di grazia, e Oscar si era ritrovato coinvolto nella caduta che ai -50 aveva appiedato tanti corridori, da Trentin a Mollema a Kiryienka agli stessi Ten Dam e Terpstra. Gatto era poi rientrato, ma evidentemente le garanzie che poteva dare erano tutte da definire.

Giocarsi subito Nibali poteva significare restare scoperti nel finale. Ma rinviare l'entrata in scena di Vincenzo, uomo nato per attaccare da lontano, aveva più senso? Quanto a Rodríguez (e Moreno), la Spagna aveva sì gli uomini da spendere all'ultimo giro (Valverde e poi Freire), ma evidentemente la brillantezza è mancata proprio ai due corridori della Katusha.

Sicché riannodiamo le fila della cronaca alla fine dell'ottavo giro, allorché dopo un ormai tardivo tentativo di rilanciare la fuga operato da Contador e troppo debolmente rilanciato da Voeckler in cima al Cauberg, l'azione a lunga gittata si è malinconicamente assopita, venendo assorbita dal gruppo a poco più di 30 km dal traguardo. In pratica, a due giri dalla fine ci ritrovavamo di nuovo 70 uomini (poi saliti a 90 con ulteriori rientri nel corso della nona tornata).

L'epilogo, dal velleitarismo di Nibali alla stoccata di Gilbert
Se siete arrivati a leggere fino a questo punto, significa che siete tanto appassionati da capire di ciclismo quanto basta per analizzare da voi, in base alla vostra sensibilità e lucidità del momento, quanto avvenuto negli ultimi due giri del Mondiale. Del resto chi meglio di voi può conoscere le sensazioni che provate nel finale di un Mondiale?

Questo scriveremmo se ci trovassimo nell'ammiraglia dell'Italia e ci chiamassimo Paolo Bettini, ct che a quanto pare non ritiene di dover dirigere la sua squadra nel momento topico della corsa più attesa dell'anno. Ma di tutto quel che riguarda più da vicino casa Italia parleremo a parte, e usciamo dal clima-boutade per riprendere le redini del commento alla corsa.

Nel nono giro, con Meersman che, dopo aver tanto risparmiato la gamba quand'era in fuga, si è messo a tirare ottimamente il gruppo (seguito a ruota dal blocco britannico e da quello italiano), solo Talansky e Stannard, un americano e un britannico, hanno avuto la possibilità di scattare, sul Bemelerberg (la salita di metà circuito), e di restare in testa per mezzo giro, prima di essere ripresi sul Cauberg. Sul muro simbolo dell'Amstel Gold Race, Kolobnev ha ricordato di essere spesso stato un protagonista della corsa iridata, e ha proposto un forcing poi rilanciato, poco dopo la vetta, da Nibali.

Tale azione non ha prodotto altro se non un minimo di giusta selezione, riportando il numero dei componenti del gruppo da 90 a 45. Il problema per Vincenzo è stato che Gilbert, alla sua ruota, non ha collaborato, e identico immobilismo hanno esibito Valverde e Boasson Hagen, subito dietro: guardacaso, chi non ha lavorato al penultimo giro si è poi giocato la corsa all'ultimo.

Dopo che un incazzoso Nibali si è visibilmente rammaricato della scarsa vena di chi gli era intorno, un breve contrattacco di Moreno (Spagna), Denifl (Austria), Van Avermaet (Belgio) e ancora Voeckler (Francia) è stato seguito, appena si è entrati nel decimo e ultimo giro del circuito, da un nuovo forcing accennato da Nibali con Daniel Martin (Irlanda) e ancora Stannard e Van Avermaet a ruota.

A quel punto era ormai chiaro che ogni resa dei conti era rinviata all'ultimo Cauberg. Prima Clarke per l'Australia, poi Samu Sánchez (già visto per un attimo ai 30 km, nell'inutile tentativo di portar via un gruppetto in pianura) e quindi Contador per la Spagna, hanno dettato il ritmo fino al Bemelerberg.

Dopodiché è entrata ancora in scena, e pesantemente, l'Italia: Marcato ai 5 km, quindi Paolini, infine Moser ai 3 km (e lì abbiamo avuto la conferma che Moreno non ne aveva più di tanto) hanno preparato il terreno a un attacco, ormai annunciatissimo, di Nibali. E appena giunti sul Cauberg, ancora Paolini ha aperto la strada a Vincenzo, che in effetti, poco prima di metà salita, è andato in testa con l'idea di scattare.

Ma l'azione del siciliano non è stata di quelle che spaccano un gruppo, del resto finisseur ci si nasce e invece difficilmente ci si diventa; il risultato dell'allungo del capitano azzurro è stato che Gilbert, dalla sua ruota, ha trovato l'aire ideale per partire a sua volta. Ma quando parte Gilbert, è tutta un'altra cosa. E anche stavolta, è stata tutta un'altra cosa.

Il vallone ha subito fatto un bel vuoto (anche un po' aiutato da una moto sin troppo vicina alla sua faccia: una scia non richiesta e non ortodossa), Kolobnev ha tentato di restargli il più possibile vicino, nella speranza di rientrare sul falsopiano successivo al Cauberg, e Boasson Hagen a sua volta è stato bravo a tenere le ruote del russo, mentre Valverde poco dietro faticava di più a non perdere contatto dai due, riuscendo però a rientrare subito dopo lo scollinamento.

Il terzetto così formatosi, però, era quantomai lontano dall'ipotesi di trovare un accordo per inseguire: del resto, se hai Boasson Hagen a ruota, e sai che ti batte 10 volte su 10 nello sprint ristretto, ti guardi bene dall'interpretare a tutti i costi il ruolo del pollo. Mentre i tre si sono impegnati per tutti i due chilometri conclusivi a scattarsi in faccia e poi a fermarsi, Gilbert è andato a nozze. Ha tenuto il risicato margine, l'ha aumentato, e negli ultimi 500 metri di gara non ha fatto altro che esultare, zigzagare di felicità, e prepararsi a ricevere tutti gli onori del caso.

Alle sue spalle EBH aveva la meglio su Valverde per il secondo posto (mentre Kolobnev si disperdeva nell'ultimo chilometro), e il gruppo in rimonta sul norvegese e sullo spagnolo piazzava un ottimo Degenkolb al quarto posto, davanti a Boom, Davis, Voeckler, Navardauskas, Henao e uno scurissimo Freire (che ha poi lamentato di essere stato abbandonato dai suoi nel finale).

Nel novero dei tanti sconfitti di giornata (da Boonen 12esimo a Sagan 14esimo a Gerrans 21esimo), si inseriscono alla perfezione gli azzurri, che non sono andati oltre il 13esimo posto di Oscar Gatto (troppo incerto nello sprint per il quarto posto), con Nibali piazzatosi al 29esimo posto, ultimo del primo gruppetto inseguitore.

L'anno prossimo a Firenze il Mondiale sarà ben più duro di quello - pur interessante e a suo modo divertente - olandese. L'Italia, questa stessa Italia, potrà avere più chance di quante non ne abbia avute oggi; ma aspettare dodici mesi per provare a riaversi dalla delusione di Valkenburg non sarà un'impresa facile.

Marco Grassi

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