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Ciclismo in crisi: Ma la frontiera non è americana - Se la terra promessa si rivela un bluff

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È reale o immaginario il futuro del ciclismo d'élite negli Stati Uniti? © www.allgrandcanyon.comAbbiamo letto ieri, in questo speciale, un bel po' di dati riguardanti la geografia del ciclismo, nel senso di quante e quali squadre provengono da quanti e quali paesi oggi, rispetto a 5, 10, 20 anni fa. Una base di dati che ci ha confermato alcune cose che sospettavamo, ad esempio la fine (o quantomeno la crisi) dell'eurocentrismo del ciclismo; ma non la fine (o la crisi) dell'impatto che le nazioni "fondatrici", per così dire (Italia, Francia, Belgio, Olanda e Spagna) hanno a livello di team: se nel 1991, su 71 squadre d'élite, 39 provenivano dalle cinque nazioni in questione, se nel 2001 erano ancora 39 ma su 64 totali, nel 2011 ne abbiamo avute 26 su 41. Dal 55 al 61 al 63% del totale, tra una decade e l'altra. Dov'è la crisi, quindi?

Apparentemente diremmo che non ce n'è una chiara manifestazione; se andiamo a valutare il peso specifico di queste squadre, vediamo che però le cose cambiano, se è vero che tra i grandi appuntamenti stagionali (consideriamo i tre grandi giri, le 5 classiche monumento e il Mondiale), nel 2011 solo in due occasioni (Gilbert alla Liegi e Cobo alla Vuelta) abbiamo avuto un vincitore militante in una squadra di uno dei cinque paesi suindicati. L'anno scorso andò meglio (4 affermazioni, con Freire alla Sanremo, Basso al Giro, Nibali alla Vuelta, Gilbert al Lombardia), ma siamo certo lontani dai fasti di appena qualche anno fa.

Ci interessa in questo caso approfondire però l'altro lato della medaglia, e lo spunto lo possiamo tutto sommato prendere da Goss, Vansummeren, Evans, Cavendish (ovvero i vincitori di Sanremo, Roubaix, Tour e Mondiale 2011), un filotto d'eccezione che ha premiato formazioni statunitensi. Unita alla crescita (o nascita) di alcune gare americane (California, Utah, Colorado), questa affermazione "di gruppo" a stelle e strisce ha fatto gridare più di qualcuno al nuovo Eldorado del ciclismo. Ma gli Usa possono effettivamente essere considerati la terra promessa del nostro sport? Il terreno dissodato dai successi in serie di Armstrong al Tour per quanto tempo resterà ancora fertile?

Ciò a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi ci suggerirebbe piedi di piombo. Del resto, se la più vincente squadra dell'ultimo lustro (la Highroad, oltre 500 vittorie in 4 anni!!!) non riesce a trovare un main sponsor per proseguire l'attività ai massimi livelli, il campanello d'allarme risuona fortissimo. Possibile che un sodalizio che schiera un Cavendish oggi iridato, non trovi il modo di andare avanti?

Ma fosse solo la Highroad, potremmo parlare - sforzandoci molto, ok - di un caso clamoroso ma pur sempre un caso. Invece se ci spostiamo alla RadioShack, ritroviamo una situazione ugualmente difficoltosa, che ci conferma che qualcosa effettivamente non va al di là dell'Atlantico: perché se la formazione diretta emanazione di Lance Armstrong è costretta a fondersi con un altro top team (la Leopard), siamo di fronte al secondo indizio che ci fa drizzare le antenne.

E se come terzo indizio prendiamo Garmin e Cervélo, che un anno fa si fusero e ora continuano insieme (ma con minori investimenti, a quanto pare), capiamo che la resistenza del ciclismo in squadre d'élite americane è tutta in discussione. Tiene bene la BMC, sostenuta da un facoltoso appassionato che non bada allo spicciolo, ma per il resto si fanno i salti mortali (e a volte - vedi appunto la Highroad - l'atterraggio non è morbido).

Perché è pur vero che la crisi economica attanaglia anche gli Stati Uniti (il campionato NBA fermo su un braccio di ferro sindacal-economico è una dimostrazione plateale della cosa), ed è ancor più vero che il ciclismo d'élite, così come lo sogna l'UCI, è molto, molto costoso. Ma che quelle che da tutti erano state indicate come le nuove frontiere dell'organizzazione di un team (le squadre che abbiamo appena citato) si dimostrino in breve (nello spazio di 2, 3, 4 anni) dei giganti coi piedi d'argilla, questo francamente non ce lo aspettavamo, da una realtà comunque ricca come quella degli Usa.

Ma è solo l'economia periclitante a frenare gli investimenti delle aziende americane nel ciclismo di vertice? Non si direbbe: due costruttori di bici sempre più rilevanti a livello globale, Trek e Specialized, investono sempre molto, ma ragionano da aziende e non certo da fondazioni sportive: e inseguono magari il campione spagnolo o svizzero o lussemburghese, ne sponsorizzano tecnicamente la squadra, ma non hanno come primo obiettivo quello di lanciare un campione americano intorno a cui coagulare un progetto autarchico.

Perché, è inutile nasconderselo, per gli Stati Uniti è di vitale importanza avere un campione che funga da traino, un atleta a stelle e strisce che vinca il Tour de France (quasi l'unica gara estera seguita da New York a Los Angeles). Serve uno come Armstrong, il quale, checché si pensi di lui, ha incarnato il testimonial perfetto per il ciclismo negli Usa: reduce da una grave malattia, è guarito, è tornato e ha iniziato a vincere Tour in serie, dando vita nel suo paese a un'onda lunga i cui effetti sono ancora in atto, ma che forse iniziano proprio ora a scemare.

Se guardiamo i grafici che abbiamo pubblicato ieri, vediamo che tra la fine dell'effetto Lemond (il primo grande traino per il ciclismo in America) e l'inizio dell'effetto Lance è passato un decennio buono. Ora si vedono delle crepe nell'effetto Lance, appunto (c'è anche una non irrilevante - e in evoluzione - questione doping che ha recentemente minato la popolarità di Armstrong), ma non sembra esserci alle viste un nuovo campione che raccolga nel breve cotanta eredità. E se, nell'attesa di un Van Garderen in giallo fra tre, quattro, cinque anni, la depressione si abbatterà sul movimento fondato dal mitico Fred Mengoni?

In assenza di un catalizzatore in bici, oltre Atlantico si può sperare in cosa, per tener su i battiti degli appassionati di casa? Come abbiamo scritto sopra, le corse di una certa importanza sono in aumento (lo vedremo più nel dettaglio nei prossimi giorni), ma - per dirne una - è pressoché impensabile l'organizzazione di un Giro che "unifichi" una nazione, come avviene in Italia o in Francia: ecco, quello di un Giro degli Stati Uniti sarebbe un progetto che rappresenterebbe un notevole salto di qualità per il ciclismo di quel paese, ma vista la vastità del territorio, parleremmo sempre di un Giro di una piccola parte degli Stati Uniti. E il localismo dei vari Touretti (sempre citati sopra) non è certo il presupposto ideale per una partecipazione popolare di massa.

Si può allora sperare, in Usa, che le politiche relative alla mobilità alternativa continuino a spingere molto sulla promozione dell'uso della bicicletta, e l'America, specialmente in alcuni stati confederati (vien da pensare alla California), è sicuramente in prima linea su certi fronti... ma se poi tra un anno Obama lascerà il posto all'ennesimo presidente texano con le mani nel petrolio, che cosa ci sarà da aspettarsi sul versante ciclistico? Oggi in America la bici è abbastanza cool, ma non bisogna commettere l'errore di pensare che questo status sia definitivo.

E parlando di errori, non possiamo che spostare il focus del discorso sull'UCI. La quale, bontà sua, continua tranquilla a seguire l'odore dei soldi senza curarsi più di tanto del bene del ciclismo. Perché a Aigle si fanno ragionamenti di grana grossa, e una volta spremuta la vacca americana, se ne troverà pur sempre una cinese da mungere fino allo sfinimento. Come? Per esempio attraverso le costosissime affiliazioni al World Tour di squadre o corse (principale fonte d'entrata dell'Unione Ciclistica, insieme ai proventi per l'organizzazione dei Mondiali).

Ma il baraccone costa e pure parecchio, i paesi in predicato di rappresentare la nouvelle vague sono ancora troppo indietro, la Russia ha un solo team d'élite, l'Australia ne avrà finalmente uno nel 2012 (dopo tanto patire per progetti mai decollati in passato), la Cina è ancora lontana da questo obiettivo. Ma l'UCI non desiste e muove tutte le leve in suo possesso (tramite i calendari, per dire) per spostare gli equilibri geopolitici del ciclismo verso orizzonti più danarosi, continua a tenere alta un'asticella sotto la quale la morìa è impressionante.

Restano le macerie, purtroppo. Corse nuove e senza lungo respiro vanno a togliere spazi (e quindi vitalità, e quindi fondi, e quindi futuro) a gare storiche, quelle su cui si è fondata la grandezza del ciclismo. La stagione World Tour 2012 si chiuderà col Tour of Beijing e non con il Lombardia (tanto per fare un altro esempio lampante). Ma meno gare in Europa (quante stanno chiudendo? Approfondiremo, approfondiremo) significa anche minori occasioni di visibilità per gli sponsor del vecchio continente, e di conseguenza meno squadre, e in assoluto meno ciclismo. E il cerchio si chiude.

Quel che i voraci padroni del vapore sottovalutano pericolosamente è che il ciclismo non può venire scarnificato nei luoghi dove è diventato grande. I nostri occhi hanno visto Girardengo e poi Binda e poi Bartali e poi Coppi, e nelle nostre menti è ancestralmente radicato il significato delle imprese di quei campioni. La nostra società è intessuta, trama e ordito, del ciclismo eroico, e molti fuori dal ciclismo probabilmente lo ignorano (anche se tutti sanno chi era Coppi), ma appena ci si entra, da appassionati, da pedalatori, da tifosi, come per osmosi si interiorizza tutto di quel mondo.

Cosa potrà mai sostituire questa immensa ricchezza che soggiace al ciclismo europeo? L'approccio un po' naïf, nonché localistico o - se vogliamo - ipernazionalistico degli Stati Uniti? (Esperienza diretta di chi scrive, oltre 15 anni fa l'americano tifoso sfegatato medio di Lemond non sapeva chi fosse... Indurain!!!). Oppure, passata la moda degli Usa, il nuovo modello sarà quello cinese? (Ovvero di un paese in cui la bici semmai è un mezzo da cui fuggire, retaggio del passato, idealmente legato a doppio filo a decenni di fatiche operaie malripagate)...

La verità è che un mulino ad acqua non lo puoi impiantare lontano dal fiume, perché anche se il proprietario di quel terreno ti ricopre d'oro per averlo, il mulino non funzionerà lo stesso. All'UCI non danno segno di sapere questo banale assunto. È il caso che gli appassionati, invece, inizino seriamente a riflettere su tutto ciò e a porsi qualche problema.

Marco Grassi

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