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L'intervista: E anche l'Emilia sparirà - Amici: «Fra due anni chiudiamo». Un altro disastro si profila

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Emilia paranoica? No, Emilia crudamente realista e amaramente rassegnata: quella che emerge dalle parole di Adriano Amici, presidente del GS Emilia, organizzatore di una moltitudine di corse, quest'anno tre gare in linea (Giro dell'Emilia, GP Beghelli, Memorial Pantani) e una a tappe (Settimana Coppi e Bartali più un supporto al Giro di Sardegna e GiroBio). Già rispetto al passato anche recente, il carnet di gare proposte da Amici si è snellito (non ci sono più Giro della Provincia di Grosseto, né la Due Giorni Marchigiana o il GP Misano; né i memorial Manservisi e Cimurri, tutte corse che abbiamo visto negli anni scorsi); ma all'orizzonte quello che si profila è un vero e proprio disastro ciclistico, per il nostro movimento: perché quel che accadrà è che il GS Emilia chiuderà i battenti, nel giro di due anni.

E di conseguenza chiuderanno anche queste gare, che innervano il calendario italiano dall'inverno sardo all'autunno sul San Luca, e che rappresentano un corpus di eventi che hanno molto caratterizzato, con qualità e non solo quantità (checché ne dica - schermendosi - lo stesso Amici), quest'ultimo decennio. Perché, mentre RCS faceva morire alcune gare storiche (Milano-Torino e Giro del Lazio su tutte, ma non solo) senza rimpiazzarle adeguatamente (la nascita della Strade Bianche è la mosca bianca della situazione), il GS Emilia ne inventava a getto continuo, dando magari una nuova veste a gare destinate altrimenti a sparire (è il caso della Milano-Vignola evolutasi in GP Beghelli).

Il quadro tinteggiato da Amici è fosco, e ci dice di un futuro insostenibile per il ciclismo italiano. Una (pre)visione che peraltro si inscrive perfettamente nel quadro più generale di un movimento che viene lasciato andare alla deriva verso lo strapiombo, senza che nessuno - Federazione in testa - provi a porre un argine; un quadro che - per dire l'ultima - vede il Giro di Lombardia sballottolato da una data all'altra, perché al momento l'UCI ha l'uzzolo di pompare a mille l'insignificante Giro di Pechino, nato l'altro giorno e già lanciato a sostituire il ruolo di chi ci ha messo un secolo (un secolo di investimenti e di impegno, sottolineiamo) a diventare grande.

In tutto ciò, il presidente federale uscente, Renato Di Rocco, è più impegnato a cercare escamotage per restare attaccato alla sua poltrona, che non a favorire politiche di rilancio del ciclismo italiano (che a ben pensarci, sarebbe la via più ovvia per essere riconfermato, o no?). E intanto la barca affonda.

Come si diventa in pochi anni il secondo organizzatore di corse in Italia, dopo RCS?
«Per quanto riguarda la quantità di corse che abbiamo assunto in 30 anni di lavoro, avendo fatto bene le prime manifestazioni chiaramente ci è stato chiesto se eravamo in grado di farne ancora altre, le abbiamo accettate e di volta in volta - l'appetito viene mangiando - siamo stati anche apprezzati. Siamo secondi come quantità, ma come qualità è chiaro che la nostra mamma RCS è tutto un altro discorso di valore e di potenziale».

A noi piacerebbe fare un discorso sul futuro del ciclismo in tempi di crisi economica. Il ciclismo è uno sport che costa e le amministrazioni locali hanno sempre meno fondi...
«No, nulla: nulla proprio».

Come se ne viene fuori, come si può andare avanti in questa situazione sempre più critica?
«Non so se questa intervista è sufficiente per poter spiegare le difficoltà che troviamo noi regione per regione: nelle regioni (magari a statuto speciale) in cui si sceglie di investire sullo sport come traino, c'è qualche possibilità. Laddove le regioni non puntano sullo sport come traino, è chiaro che le corse sono destinate a soccombere, a non essere più organizzate. Regioni come il Piemonte, come il Trentino, come la Sicilia, come la Liguria stessa, che investono molto su turismo e sport, è chiaro che garantiscono agli organizzatori una sopravvivenza diversa rispetto a noi. Noi dell'Emilia siamo destinati al massimo a sopravvivere, se non a finire».

Non c'è un modo per invertire la rotta? Per esempio consorziare più corse insieme per trovare dei grandi sponsor che permettano una diretta televisiva che diventi anche più appetibile per gli sponsor più piccoli?
«Il discorso della diretta è da valutare, perché non sempre è una soluzione ottimale. Bisognerebbe che ci fosse una diretta di 3 ore, in modo da accontentare tutti gli sponsor, perché altrimenti viene trasmessa solo la parte finale e basta. Allora io preferisco una differita dove posso concentrare tutte quelle che sono le nostre possibilità operative, industriali e finanziarie. La diretta è un discorso d'immagine se c'è una trasmissione come quelle della Rai, che magari in 6 ore riesce a far vedere anche le premiazioni, gli sponsor... Consorziarsi diventa difficile perché ogni organizzatore ha le proprie difficoltà o, se vuoi dire, necessità, e c'è conflitto tra noi. Non c'è una Lega Ciclismo, non c'è una Federazione che raggruppi effettivamente quelli che sono gli interessi globali del nostro ciclismo. Soprattutto, il ciclismo continentale, che sia italiano, francese o belga o olandese, è destinato a soccombere; infatti noi sopravviviamo a malapena nel ciclismo globalizzato dei grandi signori della Russia, della Cina, dell'America, dell'Australia; ed ecco che l'UCI va ad inserire corse in concomitanza con le nostre, portandoci via proditoriamente i corridori più importanti. E il ciclismo diciamo di livello minore, che prima era una tradizione, è destinato a soccombere».

Eppure nel World Tour, nella massima categoria, le corse presenti sono tutte bene o male europee, in Italia, Francia, Belgio...
«Eh, ma adesso c'è la Cina, c'è la Spagna, c'è il Portogallo, c'è l'America, c'è l'Australia, c'è la Russia che sta venendo, c'è la California, ci sono troppe corse Pro Tour in concomitanza con le corse in Italia, nostre; per nostre voglio dire europee, non solo italiane».

Tornando al discorso di prima: avere una diretta non significherebbe poter vendere il prodotto anche all'estero, tramite internet per esempio?
«Internet non è sufficiente, lo sponsor vuole la visibilità davanti al video, presso persone che internet per adesso non lo sanno usare. La gente che è in ospedale non usa internet; così come la gente che è in casa e che è quella che potenzialmente fa audience perché accende il televisore; con internet non siamo ancora a quella portata (di pubblico)».

La Federazione che cosa potrebbe e dovrebbe fare?
«Ma io credo che la Federazione Italiana non abbia una grande potenza da poter sovvertire questo sistema. Quando si pensa che il figlio del presidente McQuaid è diventato organizzatore in Cina, questo dice tutto: c'è anche un conflitto d'interessi che è notevole. L'UCI è un'azienda che va soltanto a caccia di soldi».

Quindi non c'è un modo per arginare questa deriva, dobbiamo rassegnarci.
«Da parte nostra, per quanto mi riguarda ho 68 anni, credo di poter dire che il mio gruppo sportivo fra due anni avrà smesso di fare le corse. Gli altri non lo so».

Quindi non ci sarà un seguito per il GS Emilia?
«No, assolutamente no. Appena scaduti i contratti con le varie aziende, nel giro di due o tre anni, che temporalmente vuol dire nulla, ho già deciso che il GS Emilia smetterà».

Non c'è un seguito per queste corse? Il Giro dell'Emilia...
«Qualcuno si dovrebbe fare avanti, però...».

...non ha avuto ancora proposte?
«Ma io non l'ho detto ancora a nessuno, è una cosa mia, sicura perché organizzare oggi diventa sempre più difficile e non hai nessun tipo di aiuto né da parte della Federazione se non per le cose burocratiche, né da parte di nessuno; se non cambia il tempo, rimane brutto».

Ci sta dando una coltellata al cuore con questa notizia.
«Sono molto sereno nel dirlo. Anche se a me dispiace; quando ho smesso di fare il commerciante non ho sentito nessun tipo di rimpianto, di rimorso. Quando lascerò il ciclismo invece qualche rimpianto mi rimarrà. Tanto, proprio. Perché è la mia vita, io ho cominciato a 15 anni a gareggiare, per cui sarà veramente un distacco molto forte, con tanto dispiacere. Mi segnerà certamente».

Prendiamo atto di questa notizia e ringraziamo Adriano Amici per tutto quello che ha fatto per il ciclismo in tutti questi anni.
«Siamo a 32 anni di organizzazioni, pertanto ne ho visti di passaggi, e adesso è un passaggio veramente molto difficile».

Vedremo nei prossimi anni come andrà...
«Eh, poi chi lo sa se cambia il vento. Però ripeto, non la vedo molto rosea: non s'è fatta la Coppa Placci, non s'è fatto il Giro del Lazio, non s'è fatto il Giro del Veneto, non si fa la Milano-Torino, questi sono segnali che sono importanti. In Italia abbiamo tre hors-catégorie, Giro del Piemonte, Giro dell'Emilia e Tre Valli Varesine; la Milano-Torino è un'hors-catégorie e non viene fatta, pertanto siamo molto scarsi anche a livello di categoria importante. Cosa che peraltro non viene nemmeno considerata perché non c'è la meritocrazia. Tu puoi fare una corsa da 250.000 euro, e vale come quella da 50.000 euro perché la categoria rimane sempre quella. Non c'è il merito come per il passato pur recente, quando si partiva dalla categoria 1.4, e poi si diventava 1.3, 1.2... Come il campionato di calcio, come in qualsiasi altro sport dove c'è un discorso di classificazione: se tu sei bravo sali, se non sei bravo scendi; allora c'è lo stimolo a far bene. Invece qui c'è lo stimolo a tirare avanti, e basta».

Questa politica che sta portando avanti l'UCI, cioè di favorire queste corse periferiche rispetto alla tradizione del ciclismo, è una politica comunque di corto respiro, perché parliamo di corse che vivono finché c'è uno sponsor che paga. Quando quello sponsor non paga più, quelle gare muoiono, ma nel frattempo abbiamo fatto morire le corse storiche in Europa.
«Io parlo dell'Italia, ma all'estero sono sparite tantissime corse molto importanti, con dei significati grossissimi; ha rischiato la Freccia Vallone quest'anno! Corse che hanno una storia, una tradizione. Ma se tu non dai una visibilità concreta, visiva allo sponsor (perché se gli enti non possono più pagare tu devi necessariamente andare verso le industrie, le industrie che hanno interessi nel movimento sportivo, perché delle industrie importanti ce ne sono, ma magari non gli interessa il target sportivo), chiaramente tutto diventa difficilissimo».

Marco Grassi

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