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Vuelta a España 2011: Ma parliamo ancora di un GT? - Riflessioni a tutto campo sulla corsa conclusasi con la vittoria di Cobo

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Il podio della Vuelta a España 2011, con Cobo primo tra Wiggins terzo e Froome secondo © www.teamsky.com

Che Vuelta è stata quella che si è chiusa oggi a Madrid? Domanda impegnativa che dà lo spunto per qualche riflessione.

Che vuol dire questo percorso insufficiente?
La prima e più importante è una sonora bocciatura del percorso, che non ha lesinato momenti interessanti, ma nel suo complesso è risultato essere gravemente carente, per quanto coerente con un trend che negli ultimi anni ha purtroppo impoverito la corsa spagnola. Al di là della grottesca scelta di non mettere per tutti gli ultimi 4 giorni una tappa che permettesse di provare a fare almeno in qualche misura la differenza, congelando di fatto la classifica malgrado il risicato margine del primo sul secondo (solo 13"); al di là del fatto che in ogni caso per tutta l'ultima settimana ci fosse solo la tappa di Peña Cabarga ad avere un rilevante contenuto tecnico (e in generale, che non sia mutato quasi nulla malgrado domenica scorsa ci fossero solo 22" tra Cobo e Froome, è ulteriormente significativo); al di là del voluto errore di piazzare le prime tappe al sud, in un clima rovente dovuto al fatto di aver anticipato la corsa di una settimana, facendola partire in pieno agosto; al di là di tutto ciò, il particolare che ormai non può più essere avallato è che non ci fosse nemmeno un tappone duro e decisivo di oltre 200 km.

Lo sappiamo che la Vuelta, per distinguersi dagli altri GT e anche perché in caso contrario avrebbe avuto parecchie defezioni strada facendo, ha intrapreso da tempo un cammino di semplificazione. Tappe più corte, chiuse magari da rampe di garage, ma che di rado propongono due o tre salite vere in un finale over 200 km. E, novità di questi ultimissimi anni, terza settimana sterilizzata. A simili condizioni, già definire Grande Giro una corsa del genere, risulta via via più difficile. Va bene il distinguersi dagli altri, ma a costo di snaturare decisamente la propria essenza?

Se la Vuelta, con Uci&Aso padrini (per una volta le due principali entità del ciclismo si trovano d'accordo?), abdica al suo ruolo di grande gara a tappe, dobbiamo quantomeno chiederci il motivo. Perché non vorremmo poi scoprire (diciamo piuttosto: avere l'ufficialità) che la corsa iberica è assurta al ruolo di laboratorio per un futuro del ciclismo in cui solo il Tour conserverà denominazione e durata di GT, coi suoi fratelli (Giro e Vuelta, appunto) ridotti a 18 giorni di gara, secondo quanto da tempo viene propugnato in altissimi uffici di Aigle.

Martin Lutero per distinguersi dal papa non è diventato muezzin (ardita metafora!), non si capisce perché la Vuelta debba trovare la sua via nel diventare una Volta a Portugal, tanto per fare un esempio geograficamente vicino. A meno che non stiamo certificando che oltre 15 anni di esperimento con spostamento della corsa spagnola in settembre hanno sancito l'impossibilità, per il calendario internazionale, di avere al suo interno tre GT, e quindi tanto vale tagliare qua e aumentare il numero di corse là. Dove per "là" si intende paesi ciclisticamente emergenti che hanno voglia di organizzare gare di un certo livello (a braccio: Tour of California e/o Colorado, il Deutschland Tour di qualche anno fa, i reiterati tentativi cinesi, gli annunciati ma ancora non realizzati tentativi russi, qualche australiata, qualche giochino d'emiro, chissà il Polonia...) che si affianchino a giri della valenza di Parigi-Nizza e Tirreno, País Vasco e Romandia, Suisse e Delfinato.

Insomma, una redistribuzione dei giorni di gara e del peso delle varie realtà geografiche nel calendario Uci. Perché fa prima la Vuelta, vaso di coccio tra vasi di ferro, a rinunciare lei a qualche storica caratteristica, che non l'Uci a rimodellare da capo e profondamente un calendario di gare che, per come è oggi strutturato, è correo della deriva di una moltitudine di corse della vecchia Europa, senza che peraltro tali corse siano state sostituite negli ultimi lustri da realtà con spalle abbastanza larghe per ereditarne il blasone.

Il presente della Vuelta e la morìa di protagonisti
Froome, Wiggins, Menchov e Poels all'inseguimento di Cobo nella tappa dell'Angliru © BettiniphotoNell'attesa di capire come si evolverà lo stato generale del malato ciclismo, c'è da fare i conti con un presente che, per la Vuelta, significa molto. In un simile contesto, è già chiaro come la tipologia di corridori più adatti a lottare per una simile corsa sia molto diversa da quelli che primeggiano a Giro o Tour.

Dice: ma volete quindi per forza assolvere Nibali per la grigia prestazione in terra di Spagna? No, ci mancherebbe. Del resto appena un anno fa lo incoronavamo vincitore. Ma se per corridore da GT intendiamo chi ha fondo, recupero, e qualità per emergere sulla distanza, beh, queste caratteristiche - che appartengono in misura variabile a Nibali come a Contador, Schleck, Evans, Menchov - sono esaltate o frustrate da un percorso come quello della Vuelta 2011?

Può capitare che un vero corridore da GT vinca la Vuelta, ma con questi chiari di luna ciò avverrà sempre più "malgrado" il percorso e non "grazie" ad esso. Una tappa di montagna di 160 km con un colle (all'arrivo, magari) equivale a una frazione di 230 km con 3 o 4 salite? Non parliamo di due sport diversi (come direbbe il grande Rino Tommasi comparando Wimbledon al Roland Garros...) ma quasi. Sperare che chi è abituato a misurarsi sulle seconde distanze, sia ugualmente competitivo - a lungo andare - sulle prime, è quasi utopico. Così come l'essere convinti che un fisico tarato per le tre settimane riesca a esprimere il meglio anche in una gara di fatto di 15 giorni, misura in cui invece chi patirebbe la terza settimana può dare tutto e poi difendersi su terreni non troppo infidi.

Quindi non sorprenda il fatto di trovare come protagonisti uomini del calibro di Cobo o Froome, e di veder invece arrancare (a tratti, anche a lunghi tratti) motori più diesel (Nibali, Menchov, Van den Broeck). È solo e per forza una questione di condizione fisica, o è che un determinato percorso seleziona determinati corridori?

La lotta in queste tre settimane, la vittoria di Cobo
Juan José Cobo Acebo, vincitore della 66esima Vuelta a España © BettiniphotoChe sia stata, questa, una Vuelta che non resterà particolarmente nei cuori e nei ricordi, è quasi superfluo dirlo. Inutile girarci intorno, l'affermazione di un pur degno vincitore come Cobo, in grado di partire quasi a fari spenti per poi fare la differenza sulla salita più dura del tracciato, l'Angliru, e di mettere in cascina 52" di abbuoni lungo le tre settimane (contro gli appena 20 del suo principale rivale, Froome), non resterà scolpita a caratteri di platino nel libro d'oro.

Non lo sarà perché a 30 anni (l'età di Juanjo), e senza essere mai stato prima in lizza per vincere un GT, l'impresa si qualifica da sé come un uovo fuori dal cesto. Non già per i soliti fantasmi che qualcuno tra le righe agita; quanto proprio per il fatto che la corsa risulta essere stata mediocre, snaturata nel suo essere Grande Giro.

E affermiamo questo anche alla luce delle buone prestazioni singole sulla singola salita, wattaggi (espressione di potenza) importanti e VAM (velocità ascensionale media) rilevanti che però, dati inscritti in un contesto di gara che favoriva proprio questo tipo di prestazione, perdono significato, se il concetto intorno a cui stiamo girando è quello del grande giro.

Posto questo, onori a Cobo e a una Geox che, per il rotto della cuffia, salva una stagione fin qui disastrosa. E nel gloriarsi di ciò, ringrazia anche la situazione creatasi in casa Sky, con una scelta chiaramente azzardata presa a metà corsa, scelta che avrebbe potuto pagare o no. Non ha pagato, e non ingrosseremo ora le fila di quelli del senno di poi gettando la croce sui direttori sportivi della formazione inglese.

I quali si son trovati ad avere a che fare con l'improvvisa esplosione di Chris Froome, giovane africano nonché britannico, in una formazione il cui faro era chiaramente Bradley Wiggins. Il quale, lungi dal crollare, ha pur sempre offerto una discreta prestazione. Mettere Froome (in rosso dopo la crono di Salamanca) a completa disposizione del capitano; farlo o non farlo? La storia del ciclismo è piena di errori in un senso e nell'altro, e anche di scelte azzeccate in entrambe le direzioni. Un'aleatorietà struggente sul tema, in pratica. Oggi potremmo dire che quei 13" gridano vendetta, se messi accanto ai 27" persi da Froome nel giorno de La Manzaneda (quando il ragazzo si spese parecchio per Wiggo e poi si staccò dai migliori nel finale).

Ma in quel momento la Sky aveva tarato la sua corsa su rivali come Nibali, eventualmente Menchov, sicuramente Mollema, forse Van den Broeck, in effetti tutti finiti regolarmente alle spalle di Wiggins. Se un errore di miopia l'hanno fatto nell'ammiraglia nerazzurra, è stato quindi quello di valutare la corsa, il percorso, in maniera fuorviante. Una corsa per Wiggins, e invece era probabilmente (oggi potremmo dire: certamente) una corsa per Froome.

Il quale, dal canto suo, non avendo mai fatto niente in un GT prima d'ora, non forniva le necessarie garanzie di tenuta sulle tre settimane; ma sulle due? E torniamo in loop al discorso centrale di queste riflessioni. Resta il fatto che Froome, in un'intera settimana, non è riuscito a erodere poco più di 20" a Cobo. Molto per la bravura dello spagnolo (che a Peña Cabarga è stato bravo quasi quanto il giovane contendente), molto per il già esecrato disegno del percorso.

La Vuelta degli italiani
Per Vincenzo Nibali una Vuelta al di sotto delle aspettative © BettiniphotoPer l'Italia non era facile ripetere l'exploit del 2010, quando un nostro atleta vinse la corsa spagnola. Ma auspicabile e possibile sì, lo era. Puntavamo forte su Nibali, campione uscente, e su Scarponi, reduce dal secondo posto al Giro (davanti proprio a Vincenzo). Ne usciamo col settimo posto finale del siciliano, un netto passo indietro; e col ritiro del marchigiano, che non è riuscito se non a rari sprazzi a mostrare il suo valore.

Forse il gran caldo dei primi giorni ha un po' svuotato la condizione di Scarponi, tra i primi a Sierra Nevada, in crescita a Valdepeñas (quinto), a un passo dal successo all'Escorial (secondo), e poi imploso clamorosamente. Su Nibali, vale quello che abbiamo scritto sopra, ma vale anche la considerazione che il 2011 di Vincenzo non è stato all'altezza del suo 2010. Gli è mancato qualcosa, tantopiù che era lecito attendersi semmai una crescita del corridore, e invece, confermato (seppur con minor brillantezza rispetto all'anno scorso) il podio al Giro, il risultato della Vuelta è stato comunque inferiore, nel complesso. Il tutto, in una stagione in cui il corridore della Liquigas non è riuscito finora a vincere neanche una corsa, e anche questo è un dato che qualcosa vuol dire, se parliamo di uno dei più forti corridori dei nostri tempi.

Non è veloce, Nibali, e questo gli tarpa spesso le ali, ma nel 2011 ha fatto qualche passo indietro anche sul piano del cambio di ritmo, che ha patito spesso più che in passato. L'atleta comunque c'è; e sarà il caso di incentrare la sua prossima stagione sul Tour, che è certamente più adatto alle sue caratteristiche che non la Vuelta. Ci sarà tempo per pensarci, anche se forse lo stesso Vincenzo è già convinto di questo assioma.

Nell'ultima settimana di Vuelta, poi, abbiamo assistito a una grande crescita di Bruseghin, che fuga dopo fuga e trenata dopo trenata ha tentato di assicurarsi un posto in Nazionale per Copenhagen, ma probabilmente non ci riesce per motivi che vanno oltre il ciclismo pedalato (veto federale anche per quei corridori solo marginalmente coinvolti in inchieste varie?).

Oltre alla bella prestazione di Marzio, abbiamo conquistato 2 delle ultime 4 tappe, la prima delle quali, a Noja, con un Francesco Gavazzi che si conferma come uno dei nostri migliori corridori "alternativi", ovvero quelli che vincono in maniera diversa: forse il valtellinese non sarà mai un gran vincitore di classiche, di certo non farà le volate di gruppo, né lotterà per la classifica dei GT... ma sa correre molto bene, sa attaccare, ha una punta di velocità comunque interessante e che gli permette di vincere spesso volate ristrette. Non un gran clasicómane, ma può piazzarsi bene, e una grande gara in linea può vincerla, in futuro. Forse anche più d'una.

E poi Daniele Bennati, lui sì coinvolto in pieno nella questione azzurra, capitano in pectore dell'Italia ai prossimi Mondiali, ha chiuso in crescendo, vincendo la frazione di Vitoria e piazzandosi anche a Madrid, alle spalle di Sagan. Un po' di fiducia per l'aretino arriva, anche per quel che riguarda la risposta data ai giovani cavalli della scuderia azzurra (Modolo e Viviani, per dire), che il ct Bettini avrà il compito di far coesistere nella selezione che in Danimarca avrà come obiettivo quello di fare una bella corsa senza essere il faro della prova iridata. Se poi arriverà anche un piazzamento importante, lo scopriremo tra due settimane esatte.

Marco Grassi

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