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Tour de France 2011: Una Boucle da ricordare - Il Tour di Evans e di mille piccole grandi storie da raccontare

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Cadel Evans tra Andy e Fränk Schleck sul podio del Tour de France 2011 © Bettiniphoto

E allora, che Tour è stato quello appena finito sui Campi Elisi?

È stato il Tour di Cadel Evans, innanzitutto. Sin dalla partenza, il più brillante tra i tanti favoriti presenti in terra di Francia, il migliore di un elenco che giorno per giorno, caduta dopo caduta, crisi dopo crisi, si sfoltiva progressivamente. Lui no, lui sempre davanti, lanciato in alto sin dal primo traguardo a Mont des Alouettes, rilanciato dalla cronosquadre del giorno dopo, e rimasto per giorni a 1" da Hushovd. Quella maglia gialla che sembrava per Cadel una sorta di supplizio di Tantalo, lì davanti agli occhi, che pareva a portata di mano ma sfuggiva sempre (a causa della grande resistenza di Thor), che poi si è allontanata con la fuga di Voeckler, che è passata per un giorno sulle spalle di Andy Schleck, ma che è giunta, infine, nel momento decisivo: un momento che Evans ha interpretato al meglio, con una cronometro strepitosa ma non decisiva, o meglio: non lo sarebbe stata se l'australiano non avesse già dato il meglio anche sulle montagne, specialmente sulle Alpi, tenendo una posizione da cui sparare la cartuccia finale.

È stato il Tour della prima vittoria australiana, ora diventano tre i continenti che possono vantare un'affermazione nella corsa più importante del mondo, chissà quando toccherà anche all'Asia e all'Africa; la globalizzazione del ciclismo procede probabilmente più a parole che nei fatti, ma il movimento aussie travalica le logiche economiche dell'Uci, è un movimento panciclistico che coinvolge tutti, uomini e donne, su strada ma anche (e finora soprattutto) su pista. Un movimento che indica una via che qualcuno ha già deciso di seguire; non l'Italia, anche se la speranza è sempre dura a morire...

È stato il Tour delle mille cadute, in spregio alla crescente sensibilità di appassionati e addetti ai lavori sul tema della sicurezza in corsa. Quando le cadute smettono di essere casualità ma diventano sistematicità, forse è il caso di porre qualche argine. Troppi mezzi in corsa? Sì, probabile, se una moto tira giù un corridore, e un'auto ne investe altri due, è inevitabile porsi il problema dei mezzi al seguito della carovana. Limitarli allo stretto necessario, impedire la presenza sul percorso di gara di vetture di ospiti e grandi invitati, può essere un inizio. Che poi non si sappia chi era alla guida della macchina che ha provocato la caduta di Flecha e Hoogerland, è una cosa inconcepibile, e comunque sintomatica, perché la dice lunga sull'omertà che ancora aleggia nel ciclismo: praticamente in tutti i sensi...

È stato il Tour che ha tolto al nostro sport il grande Vinokourov, caduto, fratturato, ricoverato, ritirato. Come il kazako, anche altri corridori (tra cui molti favoriti per la lotta ai massimi livelli) hanno dovuto salutare i sogni di gloria a causa di una caduta. La Grande Boucle ne è stata impoverita, certo. Come si fa a non chiedersi come sarebbe andata se ci fosse stato ancora in gara questo o quel corridore? Ma tutto sommato, possiamo accontentarci di come è venuta la corsa quest'anno.

Certo che ci possiamo accontentare, perché quello appena finito è stato anche il Tour delle grandi imprese, riuscite o solo sfiorate: per tutte valga la cavalcata di Andy Schleck verso Serre-Chevalier, 62 km di attacco da un corridore che fino al giorno prima non era ritenuto in grado di pensare (non: di attuare) numeri del genere. Il giorno dopo, Contador prende e rilancia, 95 km di fuga tentata. È vero, non ci eravamo più abituati, e l'impatto di tali azioni su di noi, a livello emotivo, è notevole. Per questo il bilancio della Boucle 2011 tende vertiginosamente al positivo, dopo la terza splendida settimana.

È stato il Tour della prima sconfitta di Contador dopo 4 anni di imbattibilità nei GT (6 quelli portati a casa), e anche questa è una cosa a cui non eravamo per niente abituati, e invece anche Alberto può perdere. Forse qualche limite del madrileno è emerso, forse è solo colpa di un Giro che gli è costato tanto a livello fisico, ma a livello mentale il capitano della Saxo ha dimostrato di essere tra i più forti: un po' distratto nei primi giorni, è vero, ma poi due volte all'attacco prima delle Alpi, la crisi del Galibier e il giorno dopo ancora la voglia di provare a fare l'impresa del decennio. Ha lottato fino alla fine, Alberto, gli rimane il quinto posto che ha avuto ancora la costanza, nella crono di Grenoble, di cercare e di ottenere.

È stato peraltro il Tour dell'ennesima sconfitta dei fratelli Schleck, l'espressione di Andy ieri alla fine della cronometro di Grenoble stringeva il cuore, onestamente, così come il bellissimo abbraccio che gli ha dato Fränk qualche attimo dopo. Andy avrà occasione per vincerlo, finalmente, questo Tour: a patto che riparta dal giorno del suo attacco sull'Izoard, perché se questa Boucle gli è sfuggita è probabilmente perché il lussemburghese ha sprecato i Pirenei, sui quali non ha avuto il coraggio di osare quel che ha poi osato sulle Alpi (ma nemmeno per osare molto meno).

È stato il Tour degli italiani che c'erano ma non c'erano, Basso e Cunego partiti per far classifica, finiti con una gerarchia diversa rispetto a quanto avremmo pensato, e con umori opposti: il veronese rinfrancato dal settimo posto finale, anche se di tappe non ne son venute (ma anche l'anno scorso non ne erano venute, eppure la classifica fu enormemente peggiore per Damiano); Ivan invece ridimensionato nel suo progetto massimo, vincere una Grande Boucle. Sfuggitogli, tale progetto, nel biennio d'oro (per un motivo o per l'altro: parliamo del 2005-2006), ora Basso non sembra più in grado di raggiungere quei livelli. Naufragato lo scorso anno (ma aveva prima fatto - e vinto - il Giro), l'ottavo posto di questa edizione sembra una pietra tombale sulle ambizioni del varesino. Anche perché non è che questo piazzamento sia giunto in seguito a un'unica crisi (o a una caduta) in un contesto di una prestazione gagliarda, come ad esempio potremmo dire di Contador; quest'ottavo posto è un piazzamento figlio di una prova incolore, a parte un paio di brevi lampi, dall'inizio alla fine.

E poi è stato il Tour dei corridori arrivati fuori tempo massimo e ripescati per due giorni consecutivi da una giuria di manica larghissima; è stato il Tour dei norvegesi, i due in gara (Hushovd e Boasson Hagen) che hanno assommato 4 vittorie di tappa e 7 giorni in maglia gialla, e i tantissimi a bordo strada, tutti insieme oggi idealmente stretti nel minuto di silenzio con cui la Boucle ha commemorato le vittime dell'assurda strage di Oslo e Utoya.

È stato il Tour di Voeckler che stupisce e quasi porta a casa, non diciamo la vittoria, ma almeno un podio, e di Rolland che ugualmente stupisce ma in un altro senso, non il canto del cigno di un vecchio lottatore, ma la prospettiva di un campioncino che potrà guidare il movimento più rampante della corsa, quello con più giovani in grado di promettere risultati.

È stato il Tour di Johnny Hoogerland, poi: lui come incarnazione suprema del ciclista matto e coraggioso, che va in fuga appena può, conquista la maglia a pois, la riperde, la riconquista, attraversa le più varie difficoltà, viene scaraventato contro il filo spinato, viene rimesso a nuovo con 33 punti di sutura sulle gambe martoriate dalle ferite, riparte, va di nuovo in fuga, continua a lottare, ad essere presente, a portare avanti l'Idea, quella dell'uomo solo in bici contro il mondo. Che poi è quello che ancora e sempre ci lega a questi atleti, quello che ancora e sempre ci appassiona, quello che ancora e sempre ci fa dire: Viva il ciclismo! E Vive le Tour.

Marco Grassi

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