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Doping: Ci siamo fatti il sangue amaro - Il caso Riccò, le reazioni, le ricadute

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Riccardo Riccò © BettiniphotoImmaginiamo per un attimo che il medico del pronto soccorso di Pavullo sia in malafede, e si sia inventato tutto relativamente alla dichiarazione di un Riccò in fin di vita che ammetteva di essersi autotrasfuso del sangue che teneva in frigo da 25 giorni. Perché, sgombrato il terreno da impossibili complotti (ci si sarebbe dovuto mettere Riccardo di suo, nella parte della vittima: impossibile, ripetiamo), l'unica alternativa all'idea che il modenese sia "colpevole" è proprio quella di un medico in malafede.

Un medico che sicuramente ne capisce di ciclismo, visto che ha sparato proprio la cartuccia giusta (autoemotrasfusione), e che ha il gusto del particolare (i 25 giorni di pseudoconservazione della sacca di sangue nel frigorifero di casa), che si sa coprire le spalle (la dichiarazione sarebbe stata fatta da Riccò in presenza di Vania, dice il medico); e che è enormemente fortunato, visto che gli è capitato per le mani proprio l'oggetto del suo odio (altrimenti, se non odiava Riccò, perché rovinarlo?); oppure che è un arrivista senza scrupoli, il quale ha semplicemente riconosciuto nel moribondo uno strumento per far carriera (ma nel mondo medico si fa carriera stanando dopati?).

Difficilino crederci, eh!

Non diciamo che sia anche questo impossibile, solo che parrebbe un po' fantascientifica come soluzione del caso, e - anche se oggidì si trova gente disposta, per ingenuità o interesse, a bersi proprio qualsiasi fandonia - francamente sarebbe proprio un atto di fede (nei confronti del ragazzo) reputare plausibile quanto sopra.

Molto più facile appellarsi a un sano principio di realtà, che ci suggerisce che invece Riccò ci ha provato, e gli è andata male, malissimo.

E lo seguiamo, questo principio di realtà, del resto su queste colonne non s'è mai fatto altro, dando per assunta la capillare diffusione del doping nello sport nel ciclismo. E avendo proposto, altresì, un cambio di prospettiva su un problema che, lungi dall'essere sconfitto (è il numero uno di quale sport a stare sulla graticola per un caso di doping? Del ciclismo, vero?), andrebbe affrontato nell'ottica di una riduzione del danno, evitando una mattanza senza quartiere e senza senso. E dobbiamo dire che, su questo fronte, gli sviluppi del programma Passaporto Biologico ci hanno dato qualche speranza: monitorare costantemente un atleta per fermarlo (non: squalificarlo) a tutela della sua salute in caso di valori anomali e rischiosi, senza i clamori di gendarmi e positività in cinemascope, senza classifiche riscritte e fango sui media. Diciamo che, quando il PB sarà usato non per comminare squalifiche, ma per "normalizzare" questo sport, saremo contenti.

Nell'attesa di quel giorno radioso, occupiamoci del radiando. Sì, perché Riccò, 90 su 100, sarà radiato: sappiamo bene come vanno queste cose, difficilmente la si scampa, se si viene in qualche modo "pizzicati". Se, in assenza di altri riscontri (nell'odierna perquisizione di casa sua da parte dei NAS, pare non sia stato trovato nulla che riconduca a certe pratiche: solo alcune pastiglie che verranno presto esaminate), i giudici daranno credito alla versione del dottore (e non si vede come possano non farlo), per Riccardo è finita qui: sarebbe la seconda sanzione grave per lui, quindi radiazione.

Se anche, per qualche imperscrutabile via del diritto, Riccò (che pare aver negato, col team manager della Vacansoleil Dan Luijckx, di aver fatto trasfusioni) riuscisse a scampare la squalifica (e se fosse in condizioni fisiche di correre, va aggiunto), bisognerebbe vedere quale top team punterebbe su di lui, dopo questa vicenda che, comunque si concluda, rappresenterà un'altra macchia nella carriera del modenese. Nessuno. E tra il fare il giro delle corse 2.2 in una Continental, e l'essere radiato, per uno con le qualità di Riccò, c'è financo poca differenza.

Dovremmo avercela parecchio, con Riccò, proprio noi che osammo schierarci con lui (e fino alla fine!) nei giorni cupi del Tour 2008: perché questa storia è proprio il paradigma delle tesi che abbiamo sempre provato a sconfessare: laddove abbiamo sostenuto l'inesistenza delle mele marce, qui abbiamo uno che è stato ed è additato quasi universalmente come una mela marcia, e che si ri-dopa dopo essere già stato beccato e squalificato. Laddove abbiamo sostenuto che il doping è sistema, qui abbiamo uno che dice a un medico di essersi autoemotrasfuso in autonomia e in condizioni sanitarie sbrindellate, senza il supporto di uno staff medico connivente. Laddove abbiamo sostenuto che in gruppo il più pulito cià la rogna (nel senso dell'omertà vigente), ecco levarsi dal gruppo medesimo un coro di rabbiose prese di distanza dal modenese (Quinziato: «Non ci mancherai!»; Pozzato: «Ha causato danni enormi al ciclismo»; Visconti: «C'è un limite a tutto, e Riccardo l'ha superato»; Cancellara: «Dovremmo mandarlo sulla luna, chi è idiota per una volta lo è per sempre»; Di Rocco: «Siamo di fronte a un ragazzo malato dentro»; Bettini: «Ha fatto una carognata a Sassi, che aveva creduto in lui»).

Eppure. Intanto, che Riccò viva la vita che è in grado di vivere, non dovrà certo sopportare il nostro sdegno o le nostre paternali. Semmai, la solidarietà che si deve a una persona che è stata sul punto di morire (fortunatamente le sue condizioni di salute migliorano, nel pomeriggio è stata sciolta la prognosi e nei prossimi giorni il paziente dovrebbe essere dimesso); e il rispetto che si deve a uno sconfitto, quale innegabilmente oggi Riccardo è (che sia sconfitto dal sistema, o da se stesso, o da chissà cosa, sempre sconfitto rimane).

Poi, planando sul nostro orticello ciclismo, e cercando di andare più a fondo rispetto alla lapidazione del Barabba di turno, anche a costo di risultare oziosi non possiamo non sottolineare un paio di cose: la prima è che anche se in queste ore molti fanno sembrare l'autoemotrasfusione artigianale una mattana in perfetto stile Riccò, dobbiamo purtroppo ricordare che in gruppo i farmacisti di se stessi (col beneplacito dei team manager) non sono mai mancati, e ficcarsi un ago in vena non è la più difficile delle cose.

La seconda è che in un momento storico in cui sappiamo tutto sulle microdosi (che consentono di aggirare l'antidoping oggi, non 10 anni fa), in cui medici famosi continuano ad avere clienti famosi, in cui sono in tanti a correre solo per poche settimane all'anno, si è imposta l'idea che - a meno di essere un Riccò - ci si dopi di meno; lo si afferma senza contare che le tendenze vanno tracciate non da un anno sull'altro, ma sul medio-lungo termine, cosa che ci suggerirebbe assai più prudenza nell'asserire che oggi, anche per il fatto di doverlo fare in maniera ancor più clandestina di prima, doparsi sia più difficile. Ma se fosse solo più pericoloso?

Marco Grassi

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