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Marco Pantani, parla la manager - Intervista fiume a Manuela Ronchi

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È stata una delle persone più importanti della sua vita. Quella che gli è stata accanto nei momenti di gloria come in quelli della disperazione. Quando vedevi Marco Pantani lei era lì, vicina e inseparabile come un'ombra. Manuela Ronchi, la manager del Pirata, accetta di aprirsi, e raccontare il suo personale punto di vista. E quando parla di Marco, lo sentiamo così vicino che ci sembra quasi di toccarlo.

Com'è cambiata la sua vita a due anni dalla scomparsa di Marco?
«È una domandona.... Nel senso che è cambiata perché ho fatto tesoro di tutta l'esperienza che ho avuto stando vicino a una personalità così intensa, e ho cercato di trarne tutti gli insegnamenti possibili immaginabili, per cui l'ottica con cui guardo le cose e che ho nel modo di lavorare è cambiata parecchio perché da lui ho imparato molto. Ho, sì, imparato molto da lui, ma ho imparato molto anche dagli altri, e da come spesso e volentieri bisogna cercare di crearsi il proprio mondo con la propria etica senza lasciarsi scalfire; mi sono creata un ennesimo muro, visto che comunque anch'io sono una persona molto sensibile e vedendo come lui è rimasto deluso da tante cose un po' mi sono impaurita, perché, non mi paragono a lui, ma per certi versi ho più o meno lo stesso carattere, per cui vedendo come sono andate le cose certamente adesso mi illudo un po' meno su tante cose, questo sì. E poi dall'altro verso invece ho raccolto parecchia carica perché non ho voluto reagire in maniera passiva a quello che è successo, perché tanto non ho il potere di cambiare le cose per come sono andate, quindi mi sento in dovere nei suoi confronti di portare avanti a testa alta tutto quello che serve per far capire alla gente chi era Marco, e quindi poco alla volta cercare di restituirgli quella dignità per la quale lui s'era lasciato andare per paura di averla persa».

Secondo il suo parere, cos'è successo a Madonna di Campiglio quel 5 giugno 1999?
«Io credo che quel giorno non sia successa una questione di numeri, di valori... o meglio sì, è successa una questione di valori, che però non erano i valori del sangue bensì quelli della vita, perché in un istante nella mente di Marco sono crollati i valori umani, quelli che lui si sarebbe aspettato dal momento che era una persona molto generosa e aveva dato tanto al suo sport, ai suoi colleghi e al suo ambiente; probabilmente la grande delusione per lui quel giorno è stata quella di sentirsi tante spalle voltate e di non sentirsi più ascoltato da nessuno, e credo sia stata quella la vera morte intellettuale di un personaggio così sensibile e così intelligente. Per cui, per il fatto che il mondo del ciclismo al quale aveva dedicato la vita gli avesse voltato le spalle (ma non tanto per averlo estromesso dal Giro, io parlo proprio dell'ambiente, dei colleghi, della sensibilità delle persone), io credo che la sua vera morte interiore sia avvenuta proprio quel giorno lì. Da lì non è più riuscito a farsene una ragione anche perché da quel giorno in poi le cose invece di migliorare sono solo peggiorate, vedeva ogni giorno sempre di più allontanarsi le persone dalle quali invece lui si aspettava un aiuto. Aiuto non in termini pratici, ma in termini proprio di relazioni umane e del cercare di saperlo ascoltare e saperlo capire, invece si è sentito solo giudicare e basta».

Lei crede o meno alla teoria del complotto?
«Francamente dico che il termine "complotto" è un termine che crea delle resistenze, perché comunque io parto sempre da un presupposto: quando tu dai delle colpe devi avere delle prove certe, invece qua purtroppo abbiamo tutti l'abitudine di lanciare sempre delle accuse senza avere poi delle prove, per cui la parola "complotto" bisognerebbe usarla se si avessero le prove certe che fosse stato manomesso qualcosa, e questo è un primo dato di fatto. Invece io sono convinta che quello che è successo ha dell'inspiegabile, e mi rendo conto del perché Marco non se n'è mai fatto una ragione, fondamentalmente perché bisognerebbe vivere tutto quello che è accaduto nei mesi di avvicinamento a quel giorno: per cui esistono delle situazioni, delle parole dette, degli atteggiamenti, che hanno portato a credere che quel giorno qualcosa non avesse funzionato, e quindi il "complotto" diventa il non riuscire a spiegarsi com'è possibile che a un ciclista professionista che aveva già in mano il Giro d'Italia potesse accadere una cosa del genere. Secondariamente, la cosa che veramente lascia perplessi è la non precisione e la non fedeltà dell'informazione, perché comunque quel giorno Pantani non è stato trovato positivo, ma se si intervista qualsiasi persona che passa per la strada tutti sono convinti che Pantani quel giorno sia stato trovato positivo. È questa la cosa veramente grave, il non aver spiegato esattamente come sono andate le cose. Io non ho mai asserito delle cose che non so, solo delle cose certe: l'unica cosa certa che c'è nella vicenda di Pantani è che non è mai stato trovato positivo in tutta la sua carriera, tutto il resto è aria fritta. Perché i sospetti e le presunzioni di colpevolezza non sono altro che sospetti e presunzioni di colpevolezza, per cui accusare una persona come è stato fatto con lui, immolarla su un altare e giudicarla distruggendola dal punto di vista umano e psicologico, è stato fatto su dei presupposti, delle illazioni e delle ipotesi. Il problema del doping c'è, esiste, nello sport, e Marco era uno di quelli che si battevano affinché questo fosse debellato, non era certo uno che navigava grazie a questa cosa, perché i veri campioni non hanno bisogno di queste cose, anzi, forse se fossero stati tutti a pane e acqua Pantani anziché dare due minuti a tutti avrebbe dato tre ore a tutti col talento che aveva. E lui mi diceva sempre "Manu, guarda che qua se veramente fanno chiarezza io sono il primo che ne trae beneficio, ma finché si fanno delle regole che non sono uguali per tutti e si cerca di giudicare con metri sbagliati, ci sarà sempre chi la fa franca, chi fa il furbo. Perché se una mattina prendono Pantani e lui sbaglia, è giusto che Pantani paghi". Lui l'ha sempre detto, io ho anche delle registrazioni in cui diceva queste cose ancora in tempi non sospetti, nel lontano '95. Io credo che la vera verità su questo ragazzo è che, proprio per essere stato una persona troppo pura e troppo coerente alla fine si è lasciato andare, perché se fosse stato un menefreghista avrebbe potuto dire "vabbè, mi hanno sospeso 15 giorni, ritorno a correre, a me che me ne frega", e invece ne ha fatta una questione di principio; e per una questione di principio alla fine si è autodistrutto, perché poi alla fine non ha mai fatto del male a nessuno se non a se stesso».

Dunque secondo lei è a causa di questa cattiva informazione che i tifosi, ma anche lui stesso, si sono convinti di questo accanimento?
«Certo, ma fondamentalmente io credo che di questa storia sia stato fatto uno show senza andare a vedere veramente la problematica di quello che è successo. Se si vuole andare a fare pulizia nello sport, non è che la si fa prendendo il personaggio più in vista e dimostrando che non ci si ferma neanche davanti a chi in quel momento stava vincendo il Giro d'Italia, perché comunque se c'è la coerenza e non c'è ipocrisia il problema si può risolvere in ben altri modi. Ed invece se n'è fatto un caso. Purtroppo Marco non è riuscito a ridimostrare sulla bicicletta chi era veramente Marco Pantani perché è caduto nel problema della cocaina; e anche qui l'ennesima cattiva interpretazione, perché, se si fa un test, la gente è convinta che la cocaina siccome eccita fa andare più forte. Tanti confondono ancora il doping con la cocaina, e invece la cocaina ti debilita al punto che non riesci più neanche a stare in piedi, e Marco non è più riuscito a fare risultati a livello sportivo proprio perché era caduto in questa depressione che l'ha portato all'utilizzo della coca. Lottava per stare in bicicletta fondamentalmente per stare lontano dall'altro problema, e nonostante questo è riuscito a fare ancora dei risultati negli ultimi cinque anni, una cosa straordinaria se paragonata con i suoi colleghi che avevano una vita normale con la famiglia, con gli affetti, o comunque una vita regolare sotto tutti i punti di vista, sapendo invece lui in che situazione era: non aveva una donna vicino, aveva problemi psicologici, aveva sette procure alle calcagna, non si allenava con continuità perché purtroppo la depressione l'ha portato sulla via della droga, e riuscire a fare un Giro d'Italia e finirlo, riuscire a fare dei risultati ancora nel 2000, è la dimostrazione di che fisico straordinario aveva questo ragazzo; perché non è che andasse a correre ad armi pari con gli altri, aveva una situazione sua che era tutto ciò che era antisportivo, per cui era solo grazie alle doti naturali che era riuscito a fare quello che ha fatto. Per cui figuriamoci, il tifoso vero, chi amava veramente Pantani, chi sapeva chi era Pantani, non se ne fa una ragione, e ancora oggi ci si chiede "perché quel maledetto giorno...". Poi qui ci sono delle cose che vanno un po' spiegate: non è che Marco pretendeva che quel giorno visto che lui era Marco Pantani, o visto che lui stava vincendo il Giro d'Italia, per lui dovesse essere fatta un'eccezione, per l'amor di Dio. Però, se si parla di controanalisi, che si facciano queste controanalisi, che non si rianalizzi la stessa provetta di sangue, e poi si dica al mondo che sono state fatte le controanalisi: perché fare le controanalisi significa andare a riprelevare un nuovo campione di sangue e su quello fare un'ennesima prova. E la cosa che veramente ha lasciato sempre più sbigottiti del "dopo" è: come mai quella mattina, dopo che si è scoperto che Marco aveva l'ematocrito superiore alla norma, nessuno degli organizzatori, nessuno dell'ambiente è andato in camera da lui a porgergli la mano? Anche a dire: Marco va bene, hai sbagliato, ma siamo qui con te. (Posto che avesse sbagliato). Lui quella mattina era già stato condannato alla prigione, allontanato come se avesse avuto la peste. Ed è questa la cosa che ha fatto cadere veramente qualsiasi tipo di credo in un sistema che funzioni come deve funzionare. Perché mi ricordo che un giorno che parlavo con Michelotti, lui mi disse che quando Merckx fu trovato positivo gli organizzatori andarono nella sua camera a manifestargli comprensione. E con "comprensione" non si intende non ammettere che il campione ha sbagliato, perché tutti possono sbagliare. Ci si dovrebbe mettere tutti attorno a un tavolo e ci si dovrebbe guardare in faccia dritto negli occhi, ma non si può solo scaricare tutto su di uno se quando ci si guarda negli occhi tutti abbassano lo sguardo per terra. E questa è la cosa che ha fatto veramente male a Pantani».

Ma come mai secondo lei c'era stato con lui questo atteggiamento mentre con altri, in altri casi, non si è verificato?
«Noi stiamo parlando di un personaggio che non è solo un campione che andava forte. Marco era una persona che ha saputo emozionare la gente come ha saputo fare lui, e si colloca in una soglia di considerazione nei confronti dei campioni dello sport che è più verso il mito che verso i campioni che razionalmente o grazie a delle capacità sono riusciti a dare dei risultati. Cioè, lui era un po' come l'artista del suo mestiere, e quindi quando si parla di artisti non si può mai fare un calcolo matematico, o fare delle considerazioni logiche come magari si fanno con delle persone che normalmente sono con i piedi per terra; quando sono artisti sono sempre su un altro pianeta, per cui lui è riuscito a fare quello che ha fatto nello sport fondamentalmente perché non era completamente una persona normale: dalla voglia di fare sacrifici, alle cose fuori dalle righe, non aveva vie di mezzo, o tutto o niente. Per cui era un personaggio particolare. Cosa succede, che anche in questo Marco non è mai stato una persona che si è piegata a compromessi. Quindi io credo che nel suo ambiente, soprattutto all'inizio di quel famoso Giro d'Italia del '99, lui si sia esposto un po' troppo a tutela del gruppo dei corridori proprio perché i corridori lo avevano chiamato a rappresentarli contestando la sovrapposizione dei controlli, contestando un sistema di controllo del doping o di lotta al doping che secondo lui, come del resto secondo tanti corridori, non funzionava come doveva funzionare per ottenere il risultato che questo tipo di lavoro doveva ottenere. Perché lui diceva sempre: "bisogna andare nei settori giovanili, bisogna insegnare ai ragazzi che non si deve barare per passare da dilettanti a professionisti, bisogna far fatica, eccetera, perché noi professionisti sappiamo gestirci e i ragazzi giovani magari no, e per cercare di mirare ad arrivare dove arriviamo noi alle volte prendono delle scorciatoie". Quindi lui era per uno sport pulito, non è che traeva giovamento dal fatto di dover utilizzare delle sostanze per andare più forte. Quindi lui si è esposto: e in quel momento Marco, avendo vinto Giro e Tour, era un personaggio che in teoria poteva anche vincere le elezioni, perché aveva il popolo dalla sua parte; la sua popolarità, la sua notorietà erano arrivate a dei livelli al di sopra della normale notorietà che ha un ciclista. Quindi lui si è esposto non condividendo certe politiche del suo ambiente e questo ha dato un po' fastidio. E ha dato fastidio anche a tanti corridori e a tante squadre perché le offuscava... cioè, degli sponsor che spendevano centinaia di milioni, di miliardi, per fare delle squadre, poi non vincevano mai. Io mi ricordo che andavamo al Giro d'Italia e delle volte lui ridendo mi diceva: "Oggi faccio lo sciopero delle interviste, perché io non chiamo i giornalisti, sono loro che vengono tutti da me, e poi quando vado alla linea di partenza i miei colleghi non mi guardano in faccia perché sembra che sono io che voglio cannibalizzare la stampa, e sono io che dico: andate anche dagli altri". Ma non era lui che voleva essere al centro dell'attenzione, è che la stampa voleva solo l'intervista di Marco Pantani. E quanti altri "rosicavano" lo so dire io che gli ero dietro, e le parole che si sentivano da dietro le quinte erano: "Speriamo che lo facciano fuori", perché il suo essere troppo al centro dell'attenzione non era visto come "Grazie a Pantani il ciclismo è tornato ad essere uno degli sport più seguiti", visto che ai suoi tempi una gara che faceva lui sul Mortirolo faceva più ascolti della Formula Uno o del calcio. Invece di vedere una persona che ha riportato luce su uno sport, e di conseguenza tutti gli altri ne potevano trarre dei vantaggi, era stato visto come quello che cannibalizzava l'attenzione. Quindi è maturata parecchia invidia, ed è questo che è stato fondamentale. Io quella mattina ho sentito dire "Finalmente l'han beccato, così almeno si toglie dai coglioni". E poi come fai ad andare a spiegare alla gente che dopo che hai sentito mille voci così puoi arrivare a pensare che c'è stato un motivo per cui è stato allontanato? Perché non hai delle prove, hai solo delle circostanze che ti fanno capire che forse qualcosa c'è stato. E questi sono piccoli esempi, ne potrei portare tanti altri, di voci dette da giornalisti, voci che giravano e secondo cui il giorno prima già si sapeva che poi l'avrebbero fermato; e ci si chiede: perché? Perché c'era questo clima come se tutti sapessero che qualcosa doveva accadere? E non è che questo lo puoi spiegare in un'aula di tribunale dicendo "Siccome ho questo sospetto secondo me l'hanno fatto fuori". Sta di fatto che la cosa più assurda su cui bisognerebbe riflettere è questa: che il ciclismo ha posto una regola che ha detto che se hai l'ematocrito entro il 50 puoi correre, e se ce l'hai superiore al 50 rischi la salute... e allora vuol dire che se uno ha 32 è autorizzato a doparsi per arrivare fino a 50? L'assurdità di questa regola è questa, perché l'ematocrito è un tasso che ognuno di noi possiede in maniera diversa; dare una soglia e dire: entro quella sei nella regola, sopra quella rischi la salute, è un'ipocrisia fatta regola, perché innanzitutto un punto in più rispetto a uno in meno non credo che determini la salute di una persona, e secondariamente vuol dire che allora tu indirettamente dai autorità a chi ce l'ha basso di poterlo stimolare fino ad arrivare a una certa soglia e non oltre quella. Già di per sé la regola dimostra l'ipocrisia di come vengono gestite le cose. Ed è quella che Marco non sopportava, pur essendo stato uno di quei ciclisti che hanno sottoscritto una regola del genere, perché poi era una regola fatta in attesa che la scienza arrivasse a trovare l'epo nel sangue. Siccome non lo si trovava, hanno creato una regola che si chiedeva: qual è quel segnale al quale, se uno usa l'epo, posso iniziare a dire fermati che rischi la salute? Lo hanno fatto solo perché una delle conseguenze dell'utilizzo dell'epo è l'innalzamento dell'ematocrito, quindi hanno dato un limite. Però il problema è che l'ematocrito non è che si alza solo ed esclusivamente se assumi epo, si alza per tremila altri motivi, quindi questa regola era talmente imprecisa e imperfetta che chissà perché dopo il caso Pantani hanno cambiato il metodo. Insomma, sono tutte queste cose che fan pensare alla faciloneria con cui è stato ammazzato un uomo a livello di dignità. Ed è molto più profondo il ragionamento da fare rispetto a quello che sento dire, del tipo: "Pantani non vinceva più e allora si è depresso e si è drogato". Perché poi siamo tutti bravi a esemplificare l'intensità delle sensazioni che una persona può avere... io chiudo sempre gli occhi e dico: ma se io domani mattina mi vedo sulla prima pagina di un giornale dove dicono "La Ronchi ha rubato" e io so di non avere rubato, io mi vergognerei a uscire di casa. Ora, con questo non voglio dire che sia giustificabile che uno cada in una depressione e vada a drogarsi, perché sarebbe troppo comodo giustificare, e questo poi è una cosa terrificante perché purtroppo succede a tanti... ecco perché la mia vita oggi è cambiata nel senso che vado a testa alta a dire "Sì, è stato un gran campione, è stato un numero uno, ma state attenti perché se non ce l'ha fatta lui che è stato il più grande scalatore di tutti i tempi e si è rialzato con venti gambe rotte, se non ce l'ha fatta a vincere la lotta contro la cocaina è perché bisogna starne attenti e non prenderla sotto gamba", e quindi non vergognarmi di parlare anche di questo aspetto come fanno in tanti, perché anche da questa storia si deve trarre un insegnamento positivo. Quello che a me fa male è banalizzare la sofferenza di un uomo dietro a "aveva tanti soldi, era il numero uno, non ha vinto più e si è depresso, che sfigato, non aveva carattere". Non è così. Forse Marco si è lasciato troppo andare perché era troppo puro. E alla fine non ha fatto del male a nessuno, si è autodistrutto. Ed è un peccato perché aveva ancora tante cose da dare e da dire, e ha fatto piangere il mondo intero perché ha lasciato un vuoto nel cuore di tutti; quindi quando uno lascia un vuoto così anche a quelli che non sono appassionati di ciclismo è perché secondo me nella sua breve vita, in quello che ha fatto, ha saputo comunicare delle cose vere».

Quindi è andato bene a molti che sia stato trovato con questo valore sballato...
«È così... io ho saputo di molta più gente che ha brindato rispetto a quelli che hanno pianto quel giorno».

Che ruolo possono aver avuto da un lato la Federazione e dall'altro Rcs in questa faccenda?
«Io so solo questo: quel giorno io non sapevo neanche cosa fosse la Federazione, o cosa fosse l'Uci, perché dovevo gestire l'immagine di Marco dal punto di vista della comunicazione e quindi poco sapevo dell'ambiente del ciclismo, per cui quello che posso dire sono solo considerazioni che facevo con Marco, visto che lui il suo ambiente invece lo conosceva molto bene. Io quello che posso dire è che non ho condiviso da parte della Gazzetta dello Sport l'atteggiamento di condanna senza mai aver pensato per un solo istante che quel giorno ci potesse essere stato un errore. Non traggo delle conclusioni, dico solo che poteva anche esserci stato un errore; perché non gli è stata data la possibilità di provarlo, invece di prendere subito le distanze, dire "il drogato", "ci ha deluso"? Andiamo a leggere il fondo di Cannavò della Gazzetta del giorno dopo... che la sera prima lo stesso Cannavò era al tavolo di Pantani a parlare di beneficenza. Voglio dire, in una notte non puoi cambiare l'opinione che hai su una persona, quindi se la stimi veramente la mattina dopo corri nella sua camera e gli dici "Ma Marco, cos'è successo?". Se poi ha veramente sbagliato paga, non è che perché è Pantani non deve pagare, ma dagli la possibilità di capire cos'è successo. Invece non c'è stato neanche l'atteggiamento di provare a capire. E questa è la cosa che a me ha fatto più male. E per quello che riguarda la Federazione, Ceruti è andato a casa di Marco e gli ha detto: "Devi stare zitto, devi dire che hai sbagliato e vedrai che nessuno ti farà più niente", e Marco gli ha risposto: "Ma sai che io non posso dire una cosa del genere, no?", e Ceruti: "Eh, ma sarai uno contro tutti". Che poi, io anche nel mio libro ("Un uomo in fuga") ho raccolto testimonianze, come ad esempio quella di Davide Boifava, che disse che durante il Giro d'Italia, dopo che Marco andò al Processo alla Tappa dicendo che i corridori si sarebbero opposti alla sovrapposizione dei controlli Coni per la campagna "Io non rischio la salute" a quelli dell'Uci, Cipollini chiamò Pantani per dire: "Non è che adesso noi ad ognuno che arriva ci mettiamo a dargli il sangue, dobbiamo farci 22 giorni, otto ore al giorno di bicicletta, e siamo gli unici sportivi che hanno deciso di farsi prelevare il sangue per aiutare la guerra al doping... O ci sediamo attorno a un tavolo tutti noi corridori e approviamo anche i controlli del Coni, oppure non è che possono arrivare qui così". E Marco si è fatto portavoce di questa opinione dei corridori. Peccato che la sera erano tutti d'accordo e la mattina era solo Pantani a parlare e gli altri si son tirati indietro tutti».

Perché si son tirati indietro tutti? Avevano paura?
«Si son tirati indietro tutti perché il dottor Squinzi aveva chiamato tutti i suoi della Mapei, c'era stata anche la storia di Tafi che aveva litigato con Pantani, e aveva detto: "No, voi fate quello che dico io, e fate anche i controlli del Coni". E poi Boifava raccontò a Josti, che ha scritto il libro con me, che quella mattina in cui Ceruti andò da Boifava per dirgli "Mi raccomando, tutti devono fare anche i controlli del Coni", e poi Boifava aveva chiamato Pantani per dirgli "Mi raccomando Marco stai attento perché neanche gli Agnelli erano scesi in piazza per dimostrare certe cose" e dopo che Boifava disse a Ceruti che Pantani non era d'accordo con questa cosa come tutti i corridori, Ceruti disse: "Prima o poi anche gli dei scenderanno dall'Olimpo". Allora, per chi vuole capire veramente cos'era successo, tutte queste cose dette, queste situazioni, ti lasciano un po' dei dubbi, fanno pensare: ma allora era perché Pantani aveva dato un po' fastidio, aveva parlato un po' troppo, si era schierato troppo in questa lotta alla sovrapposizione dei controlli. Che poi lui non è che ce l'avesse col Coni, aveva solo detto: "Se i medici del Coni vogliono venire, che prima perlomeno ci si metta d'accordo perché allora chiunque arriva può prelevare sangue, e allora alla fine chi è che va in bicicletta se ci tolgono 10 litri di sangue al giorno?". Chissà perché da quella mattina in poi il Giro d'Italia per Marco è stata una caccia alle streghe, da quello che mi raccontano, visto che io sono andata solo a Cesenatico e a Madonna di Campiglio, e non avevo ancora l'esperienza per poter percepire certe cose. Mi ricordo che c'era una tensione pazzesca e sentivo voci che dicevano "Lo vogliono fermare", ma non avevo ancora l'esperienza per poter capire fino a che punto questa preoccupazione era grave; l'ho capito poi dopo, raccogliendo testimonianze, ascoltando le opinioni di tutti, vedendo i comportamenti e gli atteggiamenti con tutto quello che è successo e con le procure a seguire. Perché tornando a quello che ho detto all'inizio, qua bisogna parlare di cose certe, e la certezza che Pantani non è mai stato positivo la so io, e la gente non l'ha ancora capita. Questo non vuol dire che non abbia mai usato niente: io non l'ho mai visto usare niente, non sono in grado di dire se usava o non usava, io so solo che sicuramente era uguale a tutti gli altri, faceva quello che facevano tutti gli altri e non è stato giusto far passare solo lui per la bestia rara. E fondamentalmente, quando ci sono stati dei corridori che son stati trovati positivi, è uscito un articolo di tre righe un giorno e il giorno dopo se ne sono dimenticati tutti, mentre con Pantani sono andati avanti giorni, giorni, mesi e anni a buttarlo in prima pagina come il più drogato di tutti i tempi quando alla fine, povero, non è mai neanche stato trovato positivo una volta».

A proposito di Cannavò: nel suo editoriale uscito il 14 febbraio scorso ha parlato di "connivenze ambientali", lasciando il concetto in sospeso e facendo quasi pensare a una sorta di impunità in sede di antidoping che avrebbe agevolato Pantani.
«Io dico questo: se Cannavò deve dire delle cose che le dica fino in fondo; siccome probabilmente non conviene a nessuno parlare fino in fondo, fa sempre le battute che lasciano poi il tempo che trovano. Queste cose mi fanno veramente sorridere perché allora io mi chiedo: se lui dice cose del genere, lui che era il direttore della Gazzetta, possibile che non ne sapesse niente? Allora è andata bene anche a lui finché è andata bene, non so, non ho capito, uno che è a quei livelli non può lavarsene le mani come Ponzio Pilato e lanciare le frecciate così. Che ognuno si prenda le responsabilità di quando parla e che dica le cose fino in fondo. La connivenza dell'ambiente è come quando è venuto fuori che Pantani usava la cocaina e io ho visto tutti dire: "Ma dài, usava la cocaina, ma come?" e a me dicevano. "Se l'avessi detto prima magari lo si poteva aiutare!". Ma se lo sapevano tutti! Ma allora cerchiamo di essere uomini una volta tanto, diciamo le cose come stanno; Pantani quel giorno lì avrebbe potuto dire: "Ragazzi, siamo tutti uguali" e i suoi colleghi avrebbero detto: "Pensa per te". Perché quando sei dentro a un mondo in cui nessuno ha il coraggio di dire le cose come stanno perché fa comodo a tutti non dirle, è quello che è brutto. Allora lui si è portato nella tomba tante cose ed è stato zitto perché ha accettato di lavorare in un certo ambiente e ha accettato le regole del suo ambiente. Quando queste regole, per comodità altrui, gli si sono rivolte contro, molto probabilmente si è trovato solo come un cane. Io credo che siamo tutti adulti, e bisognerebbe avere il coraggio, se si vuole veramente fare chiarezza, che tutti dicano le cose come stanno, non solo farle pagare a certe persone, con gli altri sempre sul pulpito a fare le prediche. Alla fine bisogna essere tutti un attimino un po' più onesti. Questa è la mia umile opinione. Ma io non ce l'ho né con Cannavò né con nessun altro, io dico solo che non è giusto che si debba sempre puntare il dito su Pantani quando Pantani ha fatto comodo a tutti, ha fatto girare soldi per tutti, ha fatto vendere i giornali a tutti, ha fatto fare ascolti a tutti. Se Marco era il numero uno rispetto a tutti ci sarà un motivo. Una cosa in cui io veramente credo è che questo ragazzo aveva un talento fuori dalla norma; tutti i medici che ho incontrato quando ero con lui, che aveva un consumo d'ossigeno di 106, aveva 32 battiti da fermo, mi dicevano sempre che questo ragazzo aveva una sua dote naturale pazzesca, in più unita a una determinazione, a uno spirito di sacrificio che era fuori dal comune: lui usciva la mattina alle 8 e tornava alle 6, stava giornate intere fuori ad allenarsi da solo in bicicletta, non ha passato la giovinezza come tutti gli altri ragazzi con le compagnie, o uscendo, ha fatto una vita di sacrifici, quindi si provi ad immaginare, di arrivare a 34 anni quando finalmente si può alzare la testa, ritrovarsi condannato a passare per l'unico che ha ottenuto quello che ha ottenuto perché ha barato... e allora aveva ragione Marco a dire: "Allora se volete attaccarvi con me apriamo i libri di tutti, e mettiamoci lì, e che le regole siano uguali per tutti, non solo per me perché adesso fa comodo che sia io a dover pagare per tutti". È questo che gli ha fatto male. Poi ripeto: se si vuole essere onesti, iniziamo ad analizzare la situazione di quei tempi, chi era esente dal prendere l'epo, chi non era esente dal prendere l'epo, quali sono le situazioni vere, chi ha le responsabilità di non gestire le cose in un certo modo, quali sono le regole, cosa è stato fatto per tutelare i corridori e per non tutelarli, allora bisognerebbe veramente aprire dei capitoli infiniti facendo nomi e cognomi e stando lì a guardare le situazioni. Eppure viene semplificato tutto, fa comodo buttare tutto sul conto di Marco, mentre gli altri sono sempre lì... come quando non stava bene e tutti mi dicevano che sono stata l'unica che ha voluto aiutarlo e non ho mai chiesto aiuto agli altri: io mi chiedo: quando avevo bisogno, dov'erano le persone che mi volevano dare una mano per aiutare Marco? A me dicevano: "Mollalo, che è un drogato e ti rovini anche tu". Poi quando è morto è diventato un santo».

Ma secondo lei nell'eventuale caso di cui si è parlato ora, di tirare fuori tutto su tutti, e vedere chi prendeva cosa e chi no, chi avrebbe la responsabilità di compiere questo passo?
«Allora, questo non è un discorso così semplice da affrontare. A me Marco ha sempre detto che prima di tutto loro, i corridori, dovrebbero riunirsi attorno a un tavolo, mettersi d'accordo con la Federazione e con le istituzioni che regolano il ciclismo, e mettere su un protocollo serio, etico e comportamentale su come deve essere gestito questo argomento, cercando di essere tutti trasparenti, tutti dal primo all'ultimo. Se però all'interno di questo gioco ci sono degli interessi e non c'è la volontà di fare chiarezza, perché probabilmente certi metodi fanno comodo a molti, si azzera tutto e torniamo al cane che si morde la coda. Non è che c'è uno che può prendere in mano la situazione, perché se Pantani quel giorno avesse detto: "È vero, io usavo l'epo come del resto lo usano tutti", avrebbe risolto il problema?. Cioè, se fosse stato così facile dire una cosa del genere, ma perché Pantani non l'avrebbe fatto? Cosa gli costava? Il problema è che se quella mattina quando Marco è stato trovato con un punto fuori dalla norma, i suoi colleghi, che sanno esattamente come stanno le cose, l'hanno abbandonato cercando di dire "Via via, che qui c'è puzza di bruciato, affari suoi", vuol dire che non fa comodo a nessuno fare chiarezza. Se Pantani avesse aperto la bocca io sono sicura che tutti avrebbero detto: "Noi?! Ma pensa per te che hanno trovato te". Adesso io non voglio neanche fare lo stesso errore che è stato fatto nei confronti di Marco, per cui non mi permetto né di accusare la Federazione, né di accusare Cannavò o i corridori, queste sono solo considerazioni che faccio perché sono una sportiva anch'io, ho un bambino che devo portare a fare sport, e mi viene la pelle d'oca. Inoltre sto cercando adesso con la Fondazione Pantani di fare un po' di formazione allo sport e delle volte vedo dei meccanismi che partono da quando i bambini sono piccoli, con i genitori che pur di farli vincere farebbero qualsiasi cosa, pur di vedere nel figlio la cassaforte farebbero di tutto, e la società ti dice: "O sei il numero uno o sei uno sfigato e non ti prendo neanche in considerazione", e quindi innescano dei meccanismi dopanti che non sono solo quelli di utilizzare le sostanze, ma sono un'etica sbagliata che consiste nel fatto che oggi ai ragazzi viene detto: "Se tu ti comporti bene e fai fatica e ci metti tanto tempo sei uno sfigato, devi fare tutto in fretta perché se non dimostri subito di essere il numero uno ti tagliano fuori dai giochi, e se non fai il risultato subito ti arriva una scarpata nel sedere, e la società ti chiude le porte se non dimostri di avere dei numeri fuori dal comune", questa è la cultura di oggi. Quindi se devi andare a vedere chi avrebbe la responsabilità di fare qualcosa, qui ci sarebbe da fare un'analisi che non sai più dove vai a finire; non si può colpevolizzare o solo la famiglia o solo il corridore, o solo la società sportiva, insomma ci sarebbe da fare un'analisi che guardi quali sono oggi i modelli che vengono proposti, perché tutto dipende da lì, allora a questo punto ci sarebbe veramente da scoperchiare tremila pentole. Allora io mi dico: siccome purtroppo non siamo ingenui, e sappiamo benissimo che oggi per stare all'interno della società purtroppo devi cercare di sopravvivere, con dei compromessi, più o meno giusti, più o meno etici, uno poi si crea la propria etica nella propria vita, perché quando poi va a letto la sera deve essere a posto con la sua coscienza e non guardare in faccia nessun altro. Allora io dico, perché bisogna essere ipocriti? O si cerca veramente di fare le cose come devono essere fatte dalla a alla zeta, o non è neanche giusto però che per far vedere al mondo intero che si è i primi della classe per cercare di risolvere dei problemi, ogni tanto la si fa pagare a qualcuno. Non è giusto».

Un'altra cosa che era venuta fuori in quei giorni era che Ivano Fanini aveva parlato dello scambio di provette tra Pantani e Forconi il giorno della crono di Lugano del Giro del '98.
«Io lì non c'ero, e non ho mai capito a che scopo Fanini avesse tirato in ballo quel discorso. Per quanto riguarda queste cose, di cui si potrebbero citare centomila casi e non solo su Marco, io parto sempre dal presupposto che se i processi si fanno sui giornali o con le illazioni, dovremmo essere tutti sul banco degli imputati tutti i giorni. Esistono le sedi opportune per verificare le cose, e se è vero che uno ha sbagliato è giusto che paghi. Faccio solo un altro esempio: noi negli ultimi anni avevamo messo insieme una squadra, fondamentalmente per cercare di motivare Marco e tenerlo lontano dalla cocaina perché l'unico stimolo era la bicicletta. Io sapevo già che non avrebbe mai potuto fare grandi risultati perché aveva questo problema, ma perlomeno cercavamo di limitare i danni e di cercare con molta pazienza e poco alla volta di ricostruirlo sia a livello psicologico che a livello fisico. Quindi mettiamo in piedi questa squadra, facendo degli investimenti... e sospendono Marco otto mesi perché dicono che è stata trovata una siringa di insulina nella camera del suo albergo. Dunque: per presunzione di colpevolezza Marco è stato sospeso otto mesi: vuol dire che è stato del tutto rovinato un lavoro di un anno, investimenti degli sponsor, rischi imprenditoriali, e psicologicamente questo ragazzo è stato completamente distrutto. Alla fine il risultato qual è stato: non ci sono prove, non ci sono dati di fatto, riammettiamolo alle gare; poteva essere una riduzione della pena, tanto ormai l'aveva scontata perché ci hanno messo talmente tanto tempo a rendersi conto che non esisteva niente, che tanto gli otto mesi erano passati. Chi ha pagato questo? Non ha pagato nessuno. Perché per quanto riguarda la presunzione di colpevolezza, o tu sei in grado di dimostrare che uno ha sbagliato, oppure non puoi immolare una persona sulla base di una presunzione. Immolarla vuol dire che comunque l'hai sospesa, gli hai creato un danno morale, un danno lavorativo, hai disilluso delle aspettative della gente, per poi finire in cosa? In niente. Marco quando è andato a Roma dal procuratore antidoping Ajello gli ha detto: "Senta, lei oltre che darmi del drogato mi sta dando anche dell'imbecille, perché io che ho sette procure alle calcagna, se mi faccio di insulina, non sono così cretino da dimenticarmi la siringa nel cestino della mia camera". Allora, queste sono delle situazioni che sono inspiegabili. Perché poi, bisogna pensare a tutte queste cose, moltiplicate per tutti i processi che ha avuto. Io dico che alla fine nessuno ha mai dimostrato se era vero o no che lui prendeva qualcosa, infatti su questo io non mi voglio esprimere, non ho mai fatto l'innocentista, io sto parlando solo di che cosa è stato applicato nei confronti di Marco e dei risultati che ci sono stati: o per un motivo o per l'altro è sempre stato assolto. Nel frattempo cosa è stato fatto a questo ragazzo? Danni irreparabili, psicologici, fisici, economici, ha pagato solo lui. Chi ha sbagliato a giudicare, o chi lo ha accusato senza prove, o chi ha messo in piedi dei processi che poi sono finiti nel niente, non ha mica pagato. Dunque, in tutto questo, io mi chiedo se sono questi i metodi giusti. Non si può prima verificare, e poi, quando si è veramente sicuri, allora comunicare? Perché poi sui giornali quando ti accusano hai i titoli grossi, quando vieni discolpato devi prendere la lente d'ingrandimento e andare a vedere nell'ultima pagina, nelle note o nelle notizie flash se per caso c'è scritto qualcosa; intanto però tu da casa hai vergogna di uscire... e Marco dalla mattina alla sera a sua mamma chiedeva sempre: "Mamma, ma tu ti vergogni di me?". Di quella vergogna lui è morto. Queste sono le situazioni da guardare al di là del doping o non doping; Cannavò può continuare a fare illazioni per tutta la vita, ma lui era il direttore della Gazzetta dello Sport: non si è mai chiesto perché quella mattina non è andato da Marco a parlare, visto che si ritiene il papà di tutti i vari sportivi, perché non è andato a parlare con un suo "figliolo" che poteva aver sbagliato una mattina? Questa è la domanda che vorrei fare a Cannavò, perché non è andato da Marco quella mattina, c'è qualcuno che gli ha sbarrato la porta per caso? Io visto che non sono una tecnica parlo dal punto di vista umano, visto che lui fa sempre quegli articoli strappalacrime. Può darsi che Cannavò abbia ragione, ma io mi chiedo solo se come direttore della Gazzetta davanti a un pupillo che gli stava tenendo alto il nome della Gazzetta e del Giro d'Italia, non valeva la pena quella mattina andare da Marco a dargli magari una pacca sulla spalla, che forse Marco l'avrebbe apprezzato di più di tante altre cose. Io sinceramente penso che va bene lo sport, ma prima di tutto viene l'uomo, viene il suo comportamento, la sua etica, il suo modo di comportarsi. Marco può aver avuto tremila difetti ma sicuramente come uomo era un gran signore, e l'ha dimostrato purtroppo lasciandoci le penne lui».

A proposito di tutti questi processi, ci sarebbe anche l'ergastolano Renato Vallanzasca, che ha fatto delle dichiarazioni pesanti ma non è mai stato sentito in tribunale...
«Sì, Vallanzasca ha fatto delle dichiarazioni che poi sono finite nel nulla come tante altre cose che son state dette, però è normale che per esempio ai genitori di Marco certe cose siano rimaste ben impresse. Perché poi uno vuole capire perché sono state dette: allora o uno le ha dette gratuitamente per farsi pubblicità, oppure se nel mondo delle scommesse è vero che girava questa voce allora è ovvio che la tesi del complotto trova una base».

Ma perché non è mai stato sentito in nessun processo?
«Questo non lo so dire, perché non è che potevamo convocarlo noi. Tutti questi "come mai" sono gli stessi che ci siamo posti noi con Marco quando ci sentivamo impotenti nel risolvere questa situazione. L'impotenza di risolvere le cose è proprio quella, di dire "ma perché se c'è volontà di fare chiarezza, non viene fatta chiarezza su tutto?". E tutti gli scritti che Marco ha lasciato ovunque lasciavano tutti questi grossi interrogativi: "Perché?", "Perché non si è fatta chiarezza?", "Perché non ho avuto risposta da quello?", "Perché non è stato sentito quell'altro?". Purtroppo sei impotente, e l'impotenza è quella che ti fa stare più male di tutto, perché non è che puoi decidere da solo di fare giustizia».

Queste domande quindi a chi andrebbero fatte?
«Mah, non so dire a chi, perché ogni processo aveva un motivo diverso per poter partire. Probabilmente per quanto riguarda quello che è stato detto da Vallanzasca, che doveva essere chiamato a testimoniare all'interno del processo di Trento, non si sa perché ma da chi ha gestito le cose non è stata reputata necessaria quella deposizione. O forse perché era scomodo, ma veramente non lo so dire, ci siamo spaccati la testa per cercare di capire il perché di tante cose, però a certi perché non siamo stati capaci di dare delle risposte».

Ma lei crede alla faccenda delle scommesse e al fatto che avrebbero potuto influire in qualche modo nella questione?
«Francamente non tanto, perché se fosse così bisognerebbe preoccuparsi veramente di tutto... forse non ci voglio credere, perché mi farebbe crollare qualsiasi passione spontanea nei confronti di qualunque tipo di sport. Se fosse veramente così sarebbe un dramma».

Quanto ha influito invece sullo stato psicologico di Marco il mancato invito agli ultimi Tour?
«Ha influito parecchio. Io posso capire le motivazioni degli organizzatori, infatti abbiamo sempre cercato di fare di tutto per dare a Marco una squadra che avesse già i diritti per andare al Giro e al Tour, ma ci scontravamo con la mentalità della Mercatone Uno che invece ha sempre preferito fare squadre di diversa natura. Ma io credo che un campione come lui, che al Tour de France aveva dato quello che ha dato, che quando è successo il problema della Festina è stato quello che ha portato il Tour fino a Parigi, e che ogni volta che è andato al Tour de France ha sempre fatto bella figura, insomma, non è che uno tutte le volte che ha preso la laurea deve tornare a fare la prima elementare per dimostrare che è capace di prendersi una laurea, per cui io credo che se nello sport oltre alle regole e ai regolamenti, ci fossero anche un po' di regole dettate dal buon senso e da un rispetto nei confronti dell'atleta o nei confronti di un'etica generale, sarebbe meglio. Per lui comunque è stata la più grossa disillusione perché a uno che ha vinto Giro e Tour, anche a livello di motivazione, non è che potevo andare a dire "Dài, rifacciamo il Giro che rivinci il Giro", perché comunque per stimolare un campione a fare dei sacrifici a quei livelli, devi porre dei traguardi, a livello psicologico, a un gradino superiore rispetto a un obbiettivo che ha già raggiunto, perché se lo ha già raggiunto, tutto quello che sta sotto non è più incentivante. Per cui cosa succede, dirgli che doveva rifare Giro e Tour lo stesso anno, o Giro, Tour e Vuelta sarebbe stato da incoscienti, per cui l'unico incentivo morale che gli si poteva dare era battere Armstrong, anche solo per una tappa; e l'unico modo per affrontare i numeri uno al mondo era il Tour, e al Tour non è più riuscito ad andare. Lui si allenava tutto l'inverno apposta. Infatti nel 2003 Marco ha finito il Giro d'Italia in perfetta forma, se fosse andato al Tour de France avrebbe sicuramente fatto bene. E poi alla fine la Mercatone era una squadra scarsa e non li hanno neanche invitati, allora gli volevano comprare la partecipazione al Tour facendolo andare in un'altra squadra pagando, e Marco ha detto "Io la laurea non me la compro, o ci vado di diritto o sto a casa". Però sicuramente per lui a livello psicologico l'esclusione dal Tour è stata una delle mazzate più grosse che tutti gli anni potevano arrivare, infatti non a caso non ha mai chiuso la stagione proprio perché arrivava lì illuso di poter fare il Tour e poi per un motivo o per l'altro non ne aveva l'invito e non ce la faceva mai».

Parlando invece della Fondazione Marco Pantani, le vengono mosse molte critiche, come il fatto che sia troppo commercializzata, o che pensi più all'aspetto mondano piuttosto che alla ricerca di verità sulla faccenda di Marco; lei come risponde?
«È un'opinione legata a poche persone, non la si può estendere per fortuna. Rispondo dicendo che le persone prima di parlare dovrebbero sapere come stanno le cose. Noi da due anni abbiamo aperto una Fondazione che cerca di portare avanti dei progetti, cercando di limitare i costi, perché la Fondazione - giusto perché si sappia - viene ospitata negli uffici della mia agenzia di Milano per non dover pagare un affitto, assume un'unica persona che lavora a tempo pieno e tutti gli altri sono volontari, cerchiamo di coinvolgere delle persone senza pagarle proprio per cercare di dare il più possibile in beneficenza, di non trattenere costi di gestione come purtroppo spesso e volentieri accade, anche se siamo appena nati e quindi come in tutte le cose all'inizio ci vuole un po' di esperienza. Di mondano non capisco cosa facciamo, perché se mondano vuole dire riunire 60 o 70 personaggi che fanno sport insieme alle persone, e grazie a questi abbiamo già dato in quattro edizioni delle Olimpiadi del Cuore quasi 400.000 euro in beneficenza per operare i bambini malati di cuore, ben venga la mondanità. Poi un'altra cosa che dico a queste persone è che non è scritto da nessuna parte che per fare del bene bisogna mettersi il lutto o il velo in faccia, si può fare anche del bene facendo sport, divertendosi, sapendo che quel momento di divertimento e di condivisione di una passione sportiva possa fare del bene agli altri, per cui la beneficenza va fatta sempre col sorriso sulle labbra, mai con la piva. Noi cerchiamo solo di far rivivere Marco cercando di non speculare su cose sensazionali come la morte, pur essendo cose che hanno la loro ragione d'essere. Io so che i tifosi ci accusano spesso dicendo che la Fondazione non fa niente per scoprire la verità; se c'è una verità da scoprire va fatto, e ognuno lo può fare autonomamente come è giusto che sia, la Fondazione non è un ente che è nato per vendicare nessuno, ma è un qualcosa che è nato in nome di Marco, nella memoria di Marco, per far del bene agli altri. Chi vuole può andare avanti a cercare la verità. Io magari lo sto facendo in privato ma non è che pubblico i manifesti. Quindi che non venga male interpretato il perché è nata una Fondazione, e anche cosa deve fare una Fondazione per raccogliere i fondi, per cui siccome i fondi non è che si raccolgono con le chiacchiere, bisogna mettere in atto delle situazioni, degli eventi, tutto quello che serve per far sì che nel nome di Marco si possano raccogliere dei soldi da trasferire poi a chi ne ha bisogno; ed è bello sapere che a nome suo è stato costruito un villaggio nello Sri Lanka, che a nome suo sono stati operati quattro bambini malati di cuore che diversamente sarebbero morti, che a nome suo stiamo andando in Congo a dare una scuola a dei bambini, mettendogli una targa, magari portandogli anche delle biciclette... cos'altro ci rimane da fare, continuare ad andare a speculare su "è morto-non è morto, l'hanno ucciso-non l'hanno ucciso"? Per l'amor di Dio, sono dei giusti dubbi, se si hanno dei dubbi è doveroso cercare di dare delle risposte, ma nelle sedi opportune e con i metodi opportuni, quindi ognuno deve fare il suo mestiere, non strumentalizzare a nome suo una voglia di vendetta di altri, perché penso che Marco non ne sarebbe contento».

Qual è la sua opinione riguardo i dubbi sulla morte di Marco sollevati sia dal libro di Philippe Brunel che da mamma Tonina?
«Anche in questo caso tutti i dubbi che Brunel esplica sono effettivamente dei dubbi che abbiamo tutti. Siamo sempre però alla solita risposta che sono costretta a dare: purtroppo dubito che ci sia un interesse a non fare chiarezza perché non vedo perché gli inquirenti che hanno portato avanti le indagini debbano nascondere delle prove qualora queste ci fossero. L'unica cosa è che sicuramente è stato un po' sottovalutato riguardo a questa situazione il senso di responsabilità dell'albergo, perché se c'è una persona come Marco che per cinque giorni gira in un albergo ed è visibilmente una persona che sta male, mi chiedo ancora oggi perché questi signori non abbiano avvisato i familiari, o comunque qualcuno che potesse andare lì a capire come mai Marco fosse lì e come mai stesse così male, e se una persona sta così male e distrugge una camera in quel modo non si capisce perché uno non se ne poteva accorgere. Ecco, io credo che ci sia stata un po' un'omissione di soccorso ed è una cosa che mi fa stare veramente molto male, perché io ho vissuto vicino a Marco per parecchio tempo, ed addirittura prima viveva a casa mia e so cosa vogliono dire certe cose, ma continuo a pensare che se mi fossi trovata nell'albergo, in cui c'era una persona oltretutto nota che non stava bene, avrei pensato di avvisare qualcuno per cercare di aiutarlo prima, non dopo. E per tutto il resto, bisognerebbe lasciare riposare Marco in pace e se ci fossero dei dubbi, che si cerchi di risolverli in silenzio, e poi se si trova una soluzione si parla, se non si trova una soluzione è inutile continuare a scatenare dubbi giusto per far sempre parlare di questa faccenda: è meglio che Marco riposi in pace. Questo non vuol dire che io voglia mettere la testa sotto la sabbia, però se ci sono dei dubbi veri è giusto che la famiglia debba risolverli, ma prima si risolvono, prima si trovano le risposte, e poi si parla. Perché così facendo credo che Marco lo continuiamo a far rivoltare nella tomba e non lo facciamo riposare in pace».

Secondo lei Marco, al di là della Fondazione, in generale è ricordato degnamente?
«Se posso dire la verità sì, e dirò di più: ogni giorno che passa c'è sempre più gente che capisce e che cambia idea nei suoi confronti, ma è la gente che magari non è appassionata di ciclismo, o addetti ai lavori. Io trovo che sempre di più chi rivaluta un po' la sua vita e rivaluta un po' la figura di Pantani sono le persone che hanno avuto sempre delle informazioni molto sommarie, mentre c'è un allontanamento che io sento a pelle proprio del mondo del ciclismo. A parte i tifosi, quelli affezionatissimi che non hanno mai mollato, il mondo del ciclismo si è allontanato parecchio».

E cosa pensa che si possa fare per evitare questo allontanamento?
«Io penso che fondamentalmente non c'è bisogno di forzare le cose, non bisogna mai forzare, perché io oggi come oggi mi comporto come se Marco fosse qua, e Marco mi diceva sempre che non gli piaceva obbligare la gente a credere a lui o a essere appassionato, uno o lo faceva in maniera istintiva e ci credeva o era giusto che la potesse pensare alla propria maniera. Ad esempio ci siamo noi della Fondazione; noi, io dico "noi", ma la Fondazione non è di proprietà di nessuno, la Fondazione è un ente che cerca di accomunare tutti coloro i quali hanno voglia di far rivivere Marco per quello che di buono ha fatto e cercare anche di trarre spunto dagli errori che può avere fatto proprio per trarre un insegnamento e cercare di far sì che la sua vita possa servire da spunto di riflessione per tutti gli altri, nel bene e anche nelle cose non giuste che possono essere accadute, e bisogna andare avanti così perché una persona come lui non scomparirà mai dai cuori delle persone; ognuno poi lo ricorda come meglio crede, c'è chi lo ricorda andando a messa, c'è chi lo ricorda facendosi una pedalata da solo in cima alla montagna, e chi non lo vuole ricordare, o vuole ricordarselo nel proprio cuore senza doverlo dimostrare, va rispettato come è giusto che sia. Per cui io credo che il peccato fondamentalmente è che magari ci si aspetta da certe persone una continuità, invece molto probabilmente c'è chi preferisce un po' dimenticare o chiudere questo capitolo. Ognuno è libero di fare quello che vuole. Comunque, io quello che vedo col passare del tempo, anche dalla Fondazione, è che il suo ricordo non morirà mai nel cuore delle persone».

Secondo lei quello che è successo a Marco a livello di accanimento sia nei tribunali che sui giornali, potrebbe accadere di nuovo a qualcun altro, oppure il caso di Marco è servito da esempio e non succederà più?
«Mah, se fossi così brava a prevedere le cose... beh, io spero che non accada più, e voglio invitare tutti a una riflessione: se tutti potessero sapere quanto ha sofferto Pantani... io non lo auguro neanche a un cane. Quindi mi auguro veramente che non accada più».

Tornerà nel ciclismo?
«No. Per me il ciclismo era lui».

Elisa Marchesan

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